“Inside Out 2” di Kelsey Mann

(USA, 2024)

A quasi dieci anni di distanza arriva il sequel dello splendido “Inside Out” diretto da Pete Docter e Ronaldo Del Carmen nel 2015. Come nella migliore tradizione delle sue maestranze, la Pixar si è presa tutto il tempo per scrivere prima e realizzare poi un nuovo ottimo film, che rispetta lo spirito del primo, aggiungendo nuove tematiche e provocazioni.

Riley ormai si è ambientata a San Francisco e, rimanendo sempre fedele a se stessa, l’hockey è una parte centrale della sua vita. Assieme alle sue due migliori amiche sta per finire le scuole medie, ed entrare nella squadra di hockey del liceo che ha scelto, significherebbe molto per il suo avvenire sociale e quindi emotivo.

Ma proprio mentre si appresta a partecipare ad un campo estivo propedeutico all’hockey delle superiori, nel suo “interno” arriva, devastante come un uragano, l’adolescenza.

Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia saranno costretti a condividere lo spazio ed il lavoro con nuove e incontenibili emozioni: Noia, Imbarazzo, Invidia, Nostalgia e soprattutto Ansia che, convinta di aiutare Riley, sarà disposta a radere al suolo tutta l’emotività costruita in tredici anni dalla ragazzina…

Delizioso racconto di quello che è, senza dubbio, uno dei periodi più difficili della vita di ciascun essere umano. Il dolore, l’angoscia e il disorientamento del crescere spesso ci travolgono, ma alla fine, come ci sottolinea questo film, non dovranno essere l’emozioni a determinare quello che siamo noi, ma è la nostra essenza che dovrà influenzare le nostre scelte. Facile da dire, passati gli …anta, diranno giustamente gli adolescenti!

Scritto superbamente da Kelsey Mann assieme a Meg LaFauve (che aveva collaborato anche alla sceneggiatura del primo) e Dave Holstein, “Inside Out 2” ci riconcilia con noi stessi e non solo per quelli che l’adolescenza l’hanno superata leccandosi ancora le ferite, ma anche per coloro che stanno affrontano – …sob – quella dei loro figli. Perché come dice giustamente il Boss: “…Baby, we were born tu run!”.

Per la chicca: solo alla fine dei titoli di coda si può conoscere …l’Oscuro Segreto di Riley!

“L’Outremangeur” di Thierry Binisti

(Francia, 2003)

Tratto dall’omonimo graphic novel che i francesi Tonino Benacquista e Jacques Ferrandez hanno pubblicato nel 1998 – e che dai noi è stato tradotto “Il mangione” – questo singolare film, centrato sul genere noir, in realtà ne sfiora anche altri, risultando alla fine assai originale e allo stesso tempo molto difficile da classificare, a partire dall’attore che incarna – è proprio il caso di dirlo… – il suo protagonista: l’ex calciatore di fama internazionale Eric Cantona.

In una splendida, ma al tempo stesso scontrosa – come lo sono magicamente tutte le località di mare – cittadina della costa atlantica francese, vive il commissario Richard Séléna (un tenebroso Cantona). Nonostante il suo acume e il suo coraggio, quello che tutti subito notano del poliziotto è senza dubbio il suo peso, che supera i 160 chili.

Anche per questo Séléna è un uomo solitario, e vive da solo nella sua grande casa a strapiombo sul mare. Da oltre venticinque anni poi, il commissario, mangia in assoluta solitudine sia in casa, dove ama cucinarsi prelibati manicaretti, che al ristorante, dove trincera il suo tavolo colmo di pietanza categoricamente dietro un separè.      

L’incolmabile vuoto che cerca inutilmente di riempire col cibo parte da un duro trauma che ha subito da bambino, ma che non ha la minima intenzione di affrontare, neanche quando, dopo l’ennesimo problema di salute, il medico non gli dà al massimo 12 mesi di vita.

Le cose cambieranno quando dovrà indagare sull’omicidio del ricco armatore Lachaume, trovato senza vita nell’appartamento sopra i suoi uffici. La principale sospetta è Elsa (Rachida Brakni, compagna nella vita di Cantona) figlia di Émile (Richard Bohringer) fratello del morto, ragazza che il commissario comprende essere stata l’amante dell’armatore.

Invece di consegnare al giudice istruttore le prove per inchiodarla, decide di ricattarla: se non vuole finire in prigione Elsa dovrà passare tutte le sere dei successivi 12 mesi a casa Séléna per cenare al tavolo davanti al commissario.

Furiosa, sdegnata e all’inizio anche schifata la giovane è costretta ad accettare, ma…

Originalissima pellicola che tratta di un argomento molto complicato e non semplice – ma certo non impossibile – da trattare. Il mondo anglosassone, come mi è già capitato di ricordare, è anni luce davanti a noi italiani nel trattare e raccontare la disabilità fisica o mentale che sia, e questo film ci sottolinea che anche i nostri cugini d’oltralpe sono molto più avanti di noi.

Penso a pellicole come “Amore a prima svista” dei fratelli Farrelly – che ha toni certamente più leggeri anche se tanto graffianti – per quanto riguarda il cinema d’oltreoceano, o lo splendido “La mia vita da zucchina” di Claude Barras in relazione al cinema francese. Alla lista di film, forse più noti e blasonati, quindi, si deve aggiungere anche questo.

“You Like It Darker – Salto nel buio” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2024)

Eccoci davanti a nuovi racconti firmati dal grande Stephen King.

Questa raccolta ne contiene dodici, di cui due, “L’incubo di Danny Coughlin” e “Serpenti a sonagli” più lunghi degli altri. Forse non è un caso che proprio questi due, assieme a “Laurie” e a “L’Uomo delle Risposte”, siano fra i miei preferiti.

Il libro si apre con “Due bastardi di talento” in cui il Re ci racconta la storia – assai …particolare – di uno scrittore e di un pittore di successo planetario, nati e cresciuti nello stesso piccolo paesino fra i monti americani che, superati i quarant’anni, hanno iniziato a produrre opere che sono diventate fra le più lette e le più pagate del panorama artistico americano.

“Il quinto passo” e “Willy lo Strambo” sono due racconti brevi nella classica e tagliente tradizione del Re, che ci sa narrare come pochi dei mostri più pericolosi di tutti: gli esseri umani. Riassumere anche la solo trama sarebbe un’inutile anticipazione, sia nel rispetto di chi li ha scritti, sia soprattutto, per chi li vuole leggere: vanno assaporati e basta.

“L’incubo di Danny Coughlin”, che è il primo dei due lunghi, ci racconta lo stesso King, che gli è venuto in mente mentre si stava vestendo e si osservava allo specchio allacciarsi la camicia. Danny Coughlin è il custode di una scuola nella sconfinata provincia americana. Ha un passato da alcolista, che gli è costato il matrimonio e una diffida che la sua ex moglie ha chiesto dopo che una sera è stato a strillare sbronzo sotto la sua finestra. Una notte Danny “sogna” i resti del corpo di una ragazza, resti che stanno per essere divorati da un randagio. Il corpo è presso una vecchia stazione di servizio Texaco abbandonata, non lontano da una piccola località in un altro stato, luogo che riconosce, ma dove non ha mai messo piede in vita sua. La curiosità è incontenibile e così Danny, in un giorno di riposo, decide di andare a vedere se quel corpo esiste davvero…

“Finn” è forse il più ironico fra i dodici, ed il protagonista è un ragazzo da sempre sfortunato, tanto da finire nelle mani di una gang criminale e sanguinaria, per un banale quanto inesorabile scambio di persona. 

In “Lungo Slide Inn Road” l’intera famiglia Brown – Frank il padre, Corinne la madre e i due piccoli Billy di undici e Mary di nove anni – stanno accompagnando il padre di Frank a Derry, per salutare la sorella Nan, afflitta da un cancro allo stato terminale. Per fare prima Frank decide di assecondare il desiderio del padre e prendere la vecchia Slide Inn Road, una scorciatoia che deve il suo nome all’albergo Slide Inn che molti anni prima venne distrutto da un incendio. Proprio nei pressi dei ruderi solitari dell’hotel l’auto frana in un piccolo fosso e i due bambini ne approfittano per andare a vedere di persona le vecchie rovine…

“Lo schermo rosso” e “L’esperto di turbolenze” potrebbero essere tranquillamente i soggetti per altrettanti episodi cult dell’indimenticabile serie tv “Ai confini della realtà” di Rod Serling e, come per “Il quinto passo” e “Willy lo Strambo”, accennare anche solo la trama toglierebbe senza dubbio il gusto della prima lettura.

“Laurie” è la storia del rapporto profondo fra Lloyd Sunderland e il suo giovane cane Laurie. Lloyd è rimasto vedovo da circa sei mesi, dopo oltre quarant’anni di matrimonio, e così sua sorella Beth gli porta un cucciolo preso in un canile, dove sarebbe destinato alla soppressione. Si tratta di una femmina nata dall’incrocio fra un terrier e un mudi. All’inizio Lloyd non ne vuole sapere di tenerla, ma col passare dei giorni… In questo breve racconto il Re ci parla in maniera molto dolce e sincera del rapporto fra un essere umano e il suo cane, come sa fare solo un grande scrittore, vero amante del suo amico fedele a quattro zampe.    

Nel 1981 il pubblico americano – e poi quello mondiale – venne terrorizzato dal romanzo di King “Cujo”, in cui un placido e giocherellone cane sanbernardo di oltre settanta chili, dopo essere stato morso da un pipistrello, diventa un rabbioso e feroce assassino che assedia senza tregua Donna Trenton e il suo piccolo figlio Tad, bloccati in una automobile in panne sotto il sole torrido estivo. “Serpenti a sonagli” ci porta oltre quattro decenni dopo da Vic Trenton, padre di Tad e marito di Donna, che sta passando qualche settimana ospite nella lussuosa villa del suo amico Greg a Rattlesnake Key, una delle Florida Keys. Greg era, come Vic, un pubblicitario di successo prima di andare in pensione. In quel periodo dell’anno – l’estate – la piccola isola è quasi disabitata dato il clima torrido e umido, così solo un’altra villa è abitata da una persona. Si tratta di Allie Bell, poco più giovane di Vic, che ha la peculiarità di girare sempre spingendo un passeggino per gemelli vuoto. O meglio, senza alcun bambino sopra, ma con degli indumenti da bambini appoggiati sulle sedute. Vic è stato avvertito in precedenza da Greg di quella “stranezza” della donna, legata al trauma per la morte dei suoi due figli gemelli, avvenuta oltre quarant’anni prima, proprio su quell’isola che allora era infestata dai serpenti a sonagli…  Una bellissima e dolorosissima riflessione sulla vita che inesorabilmente passa, sui suoi drammi, sulle sue tragedie e, soprattutto, sulla capacità – fondamentale per proseguire con più dignità possibile la propria esistenza – di lasciarle andare, che non vuol dire certo però dimenticarle.

“I sognatori”, ambientato agli inizi degli anni Settanta, ha come protagonista il veterano del Vietnam William Davis, e possiede più di un riferimento, non solo d’atmosfera, al romanzo “L’incendiaria” che King scrisse nel 1980.

La prima parte de “L’Uomo delle Risposte” King la scrisse molti anni fa, e solo di recente suo nipote ne trovò la bozza originale e, considerandola valida, gli propose di terminarla. Così ci troviamo nel 1939 quando Phil Parker deve prendere una decisione che sicuramente segnerà la sua vita: accettare il posto sicuro nello studio legale di suo padre e del suo futuro suocero, o seguire il suo istinto e aprirne uno nuovo nella piccola cittadina agricola di Curry, forse destinata ad espandersi. Mentre guida la sua vecchia auto, che ospita nel sedile posteriore la sua laurea nuova di zecca appena presa ad Harvard, Phil nota, sul ciglio della strada di campagna che sta percorrendo, un cartello che avverte che: “L’Uomo delle Risposte è a sole tre miglia di distanza”. Poi ne scorge uno con la scritta “1,5 miglia” e finalmente quello con solo “L’Uomo delle Risposte” sotto il quale è seduto un anonimo tizio di mezz’età all’ombra di un ombrellone. Dopo qualche istante di incertezza Phil decide di concedersi il lusso di questa sorta di “illusione” e, scettico, si siede al tavolo pronto a pagare per avere a disposizione 5 minuti in cui fare tutte le domande che vuole. Ma l’Uomo delle Risposte lo avverte: attenzione a cosa si chiede, se non si è sicuri di voler ascoltare davvero le risposte…    

Dodici racconti che parlano di dolore, di perdita e di scelte definitive, con la classe e la potenza narrativa che solo il maestro Stephen King è capace di regalarci. Da leggere, ricordandosi sempre che i racconti hanno pari dignità dei romanzi, almeno fuori dai confini letterari del nostro Paese.  

Per la chicca: il titolo originale della raccolta è ispirato alla canzone di Leonard Cohen “You Want It Darker”. 

“Tavole separate” di Delbert Mann

(USA, 1958)

L’inglese Terence Rattigan (1911-1977) nel 1954 firma la commedia teatrale intimista “Separate Tables” che riscuote subito un ottimo successo, anche nei teatri d’oltreoceano. Hollywood se ne interessa, visto poi il forte legame fra Rattigan e il cinema che lo ha portato a firmare già varie sceneggiature e non solo di adattamenti di sue opere teatrali.

Assieme a John Gray e John Michael Hayes (autore di vari script di film poi diretti del maestro Alfred Hitchcock) Rattigan scrive la sceneggiatura che viene diretta da un grande artigiano della macchina da presa come Delbert Mann.

Il “Beauregard” è una piccola pensione a conduzione familiare situata nella località marittima di Bournemouth, nel sud della Gran Bretagna, che si affaccia sul canale della Manica. La pubblicità, che fa regolarmente sui giornali, sottolinea soprattutto la possibilità di desinare in tavole separate, peculiarità solo di un ambiente serio e riservato.

La titolare e inappuntabile direttrice è Pat Cooper (una bravissima Wendy Hiller, che per questa interpretazione vince l’Oscar come miglior attrice non protagonista) che conosce molto bene tutti i suoi ospiti, molti dei quali vivono lì ormai in maniera stabile.

Come ogni microcosmo, anche il “Beauregard” contiene quasi tutti gli strati sociali, a partire dalle aristocratiche Lady Gladys Matheson (Cathleen Nesbitt), Maud Railton-Bell (Gladys Cooper, che presterà il suo volto e la sua arte in pellicole come “I cinque volti dell’assassino” e “My Fair Lady” oltre che in tre episodi della mitica serie “Ai confini della realtà” di Rod Serling) e sua figlia Sibyl (una bravissima Deborah Kerr).

Poi c’è l’attempato ex maggiore Angus Pollock (David Niven) e i due studenti in vacanza Charles (un giovane Rod Taylor) e Jean (Audrey Dalton). Caso a parte è John Malcom (un gagliardo come sempre Burt Lancaster) giornalista e scrittore americano che ormai da quasi cinque anni vive nel piccolo albergo lontano dalla sua New York.

Fra la titolare della pensione e il giornalista americano è nato del tenero e proprio quando finalmente i due sembrano decisi a ufficializzarlo, arriva nell’albergo Ann Shankland (Rita Hayworth), ex modella e, soprattutto, ex moglie di Malcom.

Ma la calma apparente dell’albergo viene minata anche da altri ospiti, e soprattutto dai loro più inconfessabili segreti…         

Mann dirige una pellicola che tratteggia sapientemente, senza sconti per nessuno ma al tempo stesso con un accento finale d’ottimismo, la commedia umana, dove le cose più oscure e velenose sono le ipocrisie e il perbenismo e non certo le debolezze o le fragilità.

Un inno alla tolleranza girato tutto in studio, anche nei brevi e fugaci esterni, e fotografato in uno splendido bianco e nero che gli regala un’atmosfera surreale e indimenticabile.

Se il testo di Rattigan ancora oggi appare assai attuale, questo film lo rende ancora più efficace grazie anche ad un cast davvero stellare dove spiccano, oltre alla Hiller e a Lancaster, David Niven e Deborah Kerr che ci regalano due interpretazioni indimenticabili. I due, non a caso, furono candidati all’Oscar, ma solo Niven conquistò la statuetta.

“Blow Out” di Brian De Palma

(USA, 1981)

Mentre stava finendo di montare il capolavoro “Vestito per uccidere”, Brian De Palma si accorse che i rumori da inserire nella colonna sonora erano già stati fin troppo utilizzati, e così incaricò il fonico di andare a reperirne di nuovi.

Questa circostanza, in realtà assai comune nell’allora mondo degli addetti all’audio cinematografico, fece venire in mente l’idea di un nuovo film che lo stesso De Palma scrisse e poi diresse.

Jack Terry (un bravo e scanzonato John Travolta) è un fonico cinematografico che lavora soprattutto per film di serie B, spesso horror e scollacciati. Il problema audio della pellicola su cui sta lavorando, che racconta la storia di un feroce serial killer di prosperose studentesse universitarie, è l’urlo che l’ennesima vittima deve fare mentre viene accoltellata. Quello originale dell’attrice è, infatti, imbarazzante e così il regista-produttore gli chiede di reperirne uno che non rovini il pathos della scena.

Jack così, con tutti i suoi strumenti, la sera stessa si apposta sul ciglio di un fiume, fuori città, per ottenere nuovi suoni e forse, con un po’ di fortuna, reperire anche l’urlo. Ma, mentre sta registrando, sente sopraggiungere un’automobile ad alta velocità che, giunta all’altezza del fiume, per l’esplosione di uno pneumatico, precipita nell’acqua.

Jack, d’istinto, abbandona la sua strumentazione e si getta nelle acque per aiutare il malcapitato, mentre alle sue spalle uno sconosciuto (un oscuro, implacabile e cattivissimo John Lithgow) si allontana con qualcosa fra le mani che sembra proprio un fucile.

Dentro l’automobile Jack trova il cadavere dell’uomo che era al volante, ma al suo fianco c’è una ragazza che tenta in ogni modo di uscire dall’abitacolo. Grazie al fonico, la giovane riesce a salvarsi mentre il veicolo viene definitivamente inghiottito dalle acque.

In ospedale Jack viene informato che l’uomo era George McRyan, il candidato alla Casa Bianca che ormai da mesi dominava i sondaggi, e che la ragazza a cui ha salvato la vita si chiama Sally (Nancy Allen). Prima dell’arrivo dei giornalisti il fonico viene avvicinato da Lawrence Henry (John McMartin), consigliere personale di McRyan, che lo prega di non rivelare a nessuno la presenza di Sally nell’auto, cosa che provocherebbe senza dubbio un grande ma inutile scandalo, e un ulteriore superfluo dolore alla famiglia del politico deceduto. Il fonico accetta e assieme a Sally lascia in maniera riservata l’ospedale.

Il giorno dopo tutti i giornali riportano lo scoop del fotografo Manny Karp (Dennis Franz) che, casualmente, si trovava sul luogo dell’incidente e ha ripreso tutto con la sua apparecchiatura. Riascoltando l’audio registrato e unendoci le immagini di Karp ritagliate da un giornale, Jack comprende che il politico è stato vittima di un attentato. La cosa cambia tutto e lui, in qualità di testimone oculare, capisce di essere in grave pericolo. Raggiunge Sally, mentre questa sta cercando di abbandonare la città e, non senza fatica, alla fine la convince a rimanere e ad aiutarlo per scoprire la verità.

In maniera fortuita, però, Jack scopre che Sally era d’accordo con Krap per fare delle foto scandalistiche a McRyan per poi ricattarlo. Intanto Burke, il glaciale assassino del politico, è sulle loro tracce…     

Brian De Palma firma una delle più riuscite pellicole che rappresentano al meglio il cinema al cinema, proprio nella sua migliore tradizione. Ma, nonostante ciò, “Blow Out” naufragò miseramente al botteghino, segnando un duro stop nelle carriere sia del regista che del suo attore principale.

Proprio su Travolta si riversarono le critiche più taglienti che davano a lui la colpa del flop economico del film. In realtà “Blow Out” è ancora oggi un gran bel film, scritto e girato a regola d’arte. Forse quello che allora il pubblico non gradì fu l’aspetto cinico e amaro della storia e del suo personaggio principale, soprattutto nella – splendida – scena finale che chiarisce definitivamente il titolo originale del film, omaggio palese al capolavoro “Blow Up” del maestro Michelangelo Antonioni.

La presunzione mista alla poca concretezza di Jack Terry – che alla fine riesce …solo a trovare l’urlo adatto al film a cui stava lavorando – poco si addicevano, forse, al viso solare e da bravo ragazzo di John Travolta, reduce da alcuni successi cinematografici musicali planetari.

Ma non tutto il pubblico che lo vide allora al cinema rimase deluso, come il sottoscritto che ne fu letteralmente folgorato. Anche il giovane e allora sconosciuto Quentin Tarantino ne rimase affascinato tanto da inserirlo nei suoi primi tre film preferiti in assoluto.

Fu lo stesso Travolta a confermarlo in una intervista concessa sull’onda del clamoroso successo del film “Pulp Fiction” diretto, appunto, da Tarantino nel 1994. John Travolta, infatti, rivelò che non aveva la minima intenzione di partecipare alla pellicola, che poi sarebbe diventata un cult assoluto facendo ripartire inaspettatamente la sua carriera. Non aveva compreso a pieno la sceneggiatura e non conosceva il regista, ma alla fine accettò solo per l’insistenza dello stesso Tarantino che per ore lodò la sua interpretazione proprio in “Blow Out”.

Da ricordare anche la struggente colonna sonora musicale firmata dal maestro Pino Donaggio.     

“Caro diario” di Nanni Moretti

(Italia/Francia, 1993)

Superati …splendidamente i 30 anni di vita, “Caro diario” rimane sempre un ottimo film, come tutta o quasi, la cinematografia del grande cineasta romano Nanni Moretti.

I tre episodi in cui è suddiviso ci raccontano, come poche altre pellicole sue contemporanee, l’Italia degli anni Novanta che – come testimone oculare posso avallarlo anche io nel mio piccolo… – era molto più legata ai decenni precedenti che a quelli futuri.

“In vespa” apre superbamente il film in cui Moretti ci confessa e mostra: “la cosa che più di tutte gli piace fare”. Così lo seguiamo per le strade più belle, affascinanti ma anche struggenti della capitale – con alcune immagini davvero indimenticabili – che ci mostrano un’essenza che forse oggi la città non possiede più, e non solo perché allora non era stata invasa da rifiuti e cinghiali come lo è oggi, ma perché, ancora agli albori dei Novanta, Roma era assai più vivibile e l’aria che si respirava – non solo quella inquinata dallo smog… – era molto diversa. Oltre al piccolo cameo del cineasta americano Alexandre Rockwell e della compagna Jennifer Beals, rimangono memorabili: la scusa del film sul pasticcere trozkista nell’Italia formale degli anni Cinquanta per sbriciare nelle case altrui – soprattutto per me che ho avuto davvero uno zio pasticcere trozkista – e il commovente omaggio al grande Pier Paolo Pasolini.

Il secondo episodio, “Isole”, è dedicato alla classe intellettuale italiana che più radical chic non si può, che vizia i figli unici e snobba la televisione e tutta la cultura “nazional popolare” in generale, e che alla fine proprio della scatola magica divenne schiva e fedele adepta. I geni e i veri intellettuali – termine fin troppo spesso usato e abusato – sono coloro che riescono a guardare più avanti degli altri e, come in altre pellicole, Moretti ci anticipa quale e come sarà la classe intellettuale che negli anni successivi segnerà il nostro Paese, e ad incarnala è Gerardo, un bravissimo Renato Carpentieri. Delizioso cameo di Antonio Neiwiller – autore e interprete di spicco del teatro napoletano e collaboratore, già dagli anni Settanta, oltre che dello stesso Carpentieri anche di Mario Martone e Toni Servillo – che scomparirà, a causa di una malattia, pochi giorni dopo l’uscita del film nelle sale italiane.    

Con “Medici” Moretti ci racconta la sua drammatica esperienza quando e come ha scoperto di avere un tumore. Il regista ricostruisce tutte le visite e le consulenze, durate anche mesi, perché affetto da tremendi pruriti che tutti scambiano sempre per dermatiti da stress; poi fortunatamente… Per questo l’episodio si chiude con il regista che, guardandoci negli occhi, dice: “i medici sanno parlare bene ma non sanno ascoltare”, frase più che condivisibile anche se valida non sempre per tutti.

In relazione alle splendide immagini del film è opportuno ricordare che come aiuto regista Moretti, in questa pellicola, si avvale di Riccardo Milani che successivamente firmerà alcune fra le commedie italiane più rilevanti degli ultimi anni come: “Il posto dell’anima” o “Come un gatto in tangenziale”.  

“Vuoti a rendere” di Jan Svěrák

(Repubblica Ceca/UK/Danimarca, 2007)

Jan Svěrák – premio Oscar come miglior film straniero con “Kolya” del 1996 – torna a dirigere suo padre Zdeněk Svěrák in un’altra pellicola ambientata nella Praga del post crollo del muro di Berlino.

Josef Tkaloun (Zdeněk Svěrák, che scrive soggetto e sceneggiatura) è un professore di Lettere delle superiori che ha superato l’età pensionabile ma che non intende mettersi a riposo, come ha fatto invece sua moglie Eliška (Daniela Kolàřovà) anche lei docente alle superiori, che lo aspetta a casa tutte le sere.

Ma l’inesorabilità del tempo che passa rende Josef poco conciliante e così, all’ennesimo scontro con uno studente, decide di dimettersi. Pur di non accettare definitivamente il suo stato di pensionato, Josef prova a fare il corriere urbano in bicicletta, ma in un incidente si frattura una caviglia.

Nonostante le proteste di Eliška, rimessosi Josef trova lavoro in un supermercato dove ha il compito, turnandosi con il coetaneo Rezác (Pavel Landovský) un ex ufficiale dell’aeronautica, di raccogliere le bottiglie vuote dei clienti e contabilizzare i resi.

Per l’ex insegnate inizia un nuovo periodo della vita dove, sentendosi utile e necessario, avrà la scusa per intromettersi, nel bene e anche nel male, nella vita delle persone che frequenta e incontra quotidianamente. Ma la tecnologia e l’inesorabile “progresso” anche lì saranno sulle sue tracce.

Chi ne farà le spese più di tutti comunque sarà Eliška, che poco riuscirà a conciliarsi con la paura di invecchiare del marito.        

Dolce e amara riflessione sulla terza età, ma soprattutto sull’incomunicabilità che affligge l’umanità tutta, e non solo da quando la Medicina e la Scienza hanno allungato le nostre esistenze.

Perché l’incapacità di confrontarsi serenamente con il prossimo non è un lato oscuro soltanto degli anziani. Jan Svěrák, infatti, ci racconta molto bene anche quella delle nuove generazioni che, nonostante siano padrone dei mezzi più rapidi ed efficaci di comunicazione – tanto da essere spesso sovraesposte – difficilmente si aprono davvero, anche a chi gli è vicino.

Un piccolo gioiellino intimista.     

“Profumo di donna” di Dino Risi

(Italia, 1974)

Dino Risi e Ruggero Maccari scrivono la sceneggiatura del primo adattamento cinematografico dello splendido romanzo “Il buio e il miele”, scritto da Giovanni Arpino e pubblicato per la prima volta nel 1969.

I due grandi cineasti italiani apportano alcune piccole modifiche alla storia originale, come il nome del giovane militare che nel romanzo non viene mai citato o quella che riguarda il volto del protagonista: il capitano dell’esercito non vedente che nel romanzo è gravemente sfigurato, nel film ha invece quello splendido e tagliente di un Vittorio Gassman stratosferico, in una delle sue interpretazioni cinematografiche più famose di sempre.

Il giovane studente Giovanni Bertazzi (un bravo e sornione Alessandro Momo, alla sua ultima interpretazione perché, purtroppo, perirà poche settimane dopo la fine delle riprese in un incidente automobilistico guidando la motocicletta prestatagli dalla sua amica Eleonora Giorgi) sta per terminare il servizio di leva obbligatorio e il suo capitano gli affida un compito particolare che gli consentirà di godere di alcuni giorni di licenzia in più.

Deve assistere e accompagnare un ex militare che, quasi dieci anni prima, è rimasto cieco, perdendo anche una mano, per lo scoppio imprevisto di una granata durante una esercitazione. Il capitano Fausto Consolo (Gassman), che ha ormai quarant’anni e vive in solitudine in una grande casa nel centro di Torino assieme ad un’anziana cugina. Nonostante i facoltosi mezzi di cui dispone, intende compiere un viaggio in treno per raggiungere Napoli.

La prima sosta con pernotto verrà effettuata a Genova mentre la seconda a Roma. A Napoli lo aspetta il tenente Vincenzino (Franco Ricci) suo ex commilitone e compagno di disgrazia, visto che gli era accanto durante l’esplosione e anche lui ha perduto la vista.

Dal primo incontro Giovanni comprende che il capitano Consolo è un uomo molto difficile e complicato, non certo per la sua disabilità, ma per la rabbia e per il rancore con cui l’affronta. Rabbia e rancore che fin troppo spesso sfoga sugli altri e poi su se stesso, abusando di sigarette ed alcol.

Consolo gli impone di chiamarlo Ciccio, come ha fatto con i suoi attendenti temporanei precedenti, e i due partono per il viaggio come stabilito. Già dai primi attimi Consolo non fa che mettere in imbarazzo il giovane e tutti quelli che incontra ostentando il suo rancore con il mondo interno. Arrivati a Genova, l’ex capitano gli chiede di andare a studiare le prostitute nella via adiacente il loro albergo e di sceglierne una con alcuni requisiti ben precisi.

La notte i due dormono in camere comunicanti, Giovanni si accorge che il suo compagno di viaggio si è addormentato con la luce accesa. Mentre gliela sta spegnendo, intravede una rivoltella nascosta nella valigia, cosa che naturalmente lo mette in ulteriore agitazione. Il giorno dopo Fausto si fa accompagnare dalla prostituta (incarnata da Moira Orfei) e dopo l’incontro a pagamento rimprovera Ciccio per avergli mentito: non era lei quella che lui aveva individuato il giorno prima.

Arrivati a Roma, Fausto fa visita a suo cugino prete, che cristianamente accetta porgendo l’altra biblica guancia agli insulti e alle offese che come sempre l’ex militare gli rivolge. Nonostante le grandi differenze, il rapporto fra l’ex capitano ed il giovane Bertazzi diventa sempre più complice e prima di ripartire per Napoli, Ciccio decide di presentargli la sua ragazza. Dopo l’incontro Fausto gli aprirà gli occhi – …è proprio il caso di dirlo – su alcuni ambigui comportamenti della giovane che lui, nonostante una vista perfetta, non era mai riuscito ad individuare.

A Napoli i due vengono ospitati in casa di Vincenzino frequentata, oltre che dall’attendente ”temporaneo” dell’ex tenente (Sergio Di Pinto), da alcune ragazze che sono le figlie, a alcune relative amiche, della titolare della trattoria non troppo lontana, dove il padrone di casa è solito consumare i pasti.

Fra queste c’è Sara (Agostina Belli, che grazie a questo ruolo verrà consacrata a stella del nostro cinema) che, poco più che adolescente, è da sempre innamorata di Fausto, che invece la rifiuta e l’allontana umiliandola tutte le volte. Il vero scopo del viaggio, Fausto lo ha tenuto nascosto a tutti, tranne che a Vincenzino che anche in questo frangente sarà suo triste complice…

A distanza di cinquant’anni questa pellicola possiede integra tutta la sua potenza narrativa ed il suo fascino struggente e disperato, soprattutto grazie a un Vittorio Gassman stratosferico ed indimenticabile, che sembra proprio quello uscito dalle pagine del libro di Arpino. Una riflessione dolorosa e melanconica sulla vita e su come bisognerebbe affrontarla e su come, invece, alla fine la si riesce ad affrontare.

Il successo del film supera i nostri confini, facendogli conquistare numerosi premi fra i quali il César in Francia come miglior film straniero e il premio a Vittorio Gassman come miglior attore al Festival di Cannes. Inoltre, colleziona prestigiose candidature come quella alla Palma d’Oro sempre a Cannes di Risi, e agli Oscar sia come miglior film straniero che come migliore sceneggiatura non originale per Risi e Maccari.         

Nel 1992 Martin Brest dirige “Scent Of A Woman – Profumo di donna”, adattato per il grande schermo da Bo Goldman e ispirato al film di Risi e al romanzo di Arpino. A parte la grande interpretazione di Al Pacino – che vince l’Oscar – nel ruolo che fu di Gassman, la pellicola americana non sfiora lontanamente le vette di questa diretta da Risi.

“Il buio e il miele” di Giovanni Arpino

(Rizzoli, 1969)

Giovanni Arpino (1927-1987) è stato scrittore, poeta e giornalista fra i più rilevanti del Novecento italiano. Nonostante la sua prematura scomparsa avvenuta a sessant’anni – e provocata dalla sua forte dipendenza dal fumo – ci ha lasciato numerose opere fra cui romanzi, raccolte di poesie e di racconti, libri per ragazzi, sceneggiature e opere teatrali.

Partecipa, per esempio, alla redazione della sceneggiatura di “Renzo e Luciana”, splendido episodio diretto da Mario Monicelli e contenuto in “Boccaccio ‘70”, tratto da un racconto di Italo Calvino. Per la sua scrittura, spesso molto essenziale, ma soprattutto per la sua grande creatività, il cinema ha attinto sovente alla sua penna.

Nel 1969 pubblica il romanzo che poi, adattato per il grande schermo, riscuoterà il maggiore successo di tutti: “Il buio e il miele”.

A un giovane studente, che sta per terminare il servizio di leva, viene affidato il compito di assistere e accompagnare per una settimana, come se fosse un attendente, Fausto G., un capitano dell’esercito rimasto gravemente disabile a causa di un incidente avvenuto quasi dieci anni prima, durante un’esercitazione militare.

Il capitano, per l’esplosione accidentale di una granata, ha perso la vista e una mano, oltre a rimanere terribilmente sfigurato. Da Torino vuole andare prima a Genova, poi a Roma ed infine a Napoli. Nella capitale ha un appuntamento con suo cugino, che è un sacerdote, mentre a Napoli con il tenente Vincenzino V., suo commilitone che gli era vicino al momento dell’esplosione e che ha perso la vista anche lui.  

L’impatto, per il giovane militare di leva, è molto duro perché Fausto, che non si è mai sposato e vive con un’anziana cugina quasi recluso nella sua grande abitazione – dove la sua compagna più fedele è una bottiglia di whisky – non fa sconti a nessuno, e sa riversare la sua incontenibile rabbia contro se stesso così come contro gli altri, che provoca e sfotte senza remore tutte le volte che può, soprattutto con chi tenta di compatirlo o, ottusamente, di assecondarlo. Impone subito al ragazzo il nome Ciccio, che lui da a tutti i suoi attendenti “temporanei”.

Nella notte che i due passano a Genova – dove nel pomeriggio il capitano gli ha chiesto, fornendo precise indicazioni, di trovargli una prostituta – il giovane scopre una rivoltella nascosta nel bagaglio dell’ufficiale. A Roma la visita al prelato è senza dubbio più tranquilla, mentre nella città partenopea, dove Fausto è ospitato nella grande casa di Vincenzino, che ha un’ampia terrazza sul mare, si inizia ad organizzare una festa.

Oltre al padrone di casa e al suo capitano, partecipano alcune ragazze che sono le figlie adolescenti – e alcune loro amiche – della proprietaria del ristorante poco distante, dove regolarmente mangiano Vincenzino e i suoi ospiti. Fra queste c’è Sara che da sempre, anche da prima dell’incidente, e nonostante la sua giovane età è innamorata perdutamente di Fausto, che invece la rifiuta, allontanandola tutte le volte, e spesso umiliandola.

Ma il vero motivo del viaggio di Fausto a Napoli, Ciccio e Sara lo comprenderanno solo nel cuore della notte…

Originale, emotivamente crudo e indimenticabile romanzo che ci racconta la rabbia di un uomo disperato che odia più di tutto la vita, ma che ad essa rimane aggrappato con ogni briciolo di forza. Davvero un libro unico e struggente.

Nel 1974 Dino Risi scrive, insieme a Ruggero Maccari, e poi dirige il suo primo adattamento cinematografico che prende il titolo: “Profumo di donna”, con uno straordinario Vittorio Gassman nel ruolo di Fausto, Alessandro Momo in quello di Ciccio e Agostina Belli in quello di Sara, ruolo che la rende famosa.

Nel 1992 Martin Brest firma “Scent of a Woman – Profumo di donna” ispirato al film di Risi e tratto da romanzo di Arpino, scritto da Bo Goldman – due volte vincitore del premio Oscar per gli script di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e “Una volta ho incontrato un miliardario” – con un grande Al Pacino che vince l’Oscar come migliore attore protagonista.

Purtroppo questo libro è fuori catalogo da decenni e nel nostro Paese (…nonostante questo vanti una folta schiera di esperti, dotti e preparatissimi “addetti ai lavori”) è possibile reperirlo, non troppo facilmente, solo nell’universo dell’usato. E’ disponibile nel formato audiolibro o in versione kindle, anche se alcuni benpensanti storcono ancora il naso davanti a cotanta arrogante tecnologia…