“Wagon-lits con omicidi” di Arthur Hiller

(USA, 1976)

Dopo essersi incontrati durante la produzione di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” di Mel Brooks, Gene Wilder e Richard Pryor formano finalmente una coppia cinematografica efficace e molto divertente.

Il loro mancato esordio davanti alla macchina da presa nel film di Brooks, dove Richard Pryor aveva collaborato alla sceneggiatura, fu causato dalla condotta lavorativa imprevedibile e inaffidabile dell’attore afroamericano. Tanto che anche per questa pellicola la casa di produzione fece non poche difficoltà prima di scritturarlo.

La dinamica della coppia Wilder-Pryor è semplice quanto efficace: il primo è un ingenuo sognatore mentre il secondo è un disilluso realista. E questo sottolinea, già in quegli anni, come il colore della pelle incida in maniera determinate nella formazione del carattere di una persona che nasce e vive negli Stati Uniti. Wilder, avendo la pelle rosea, può permettersi di sognare e illudersi, Pryor con la sua pelle più scura ha dovuto imparare fin da piccolo come il mondo possa essere duro e ingiusto.

Così Wilder è George Caldwell, un piccolo editore reduce dal naufragio del suo matrimonio che decide di raggiungere Chicago in treno, partendo da Los Angeles. Il viaggio dura tre giorni, rispetto alle poche ore di quello in aereo, ma Caldwell lo preferisce perché sente di avere il bisogno di stare solo con i propri pensieri.

Nel vagone ristorate dove si reca a cenare George incontra l’esuberante commesso viaggiatore Bob Sweet (Ned Beatty) che gli rivela che sul quel treno, data la lunghezza del viaggio, è frequente vivere fugaci storie d’amore. Ancora preso dalle parole di Sweet, Caldwell s’imbatte nell’avvenente Hilly Burns (Jill Clayburg al suo primo ruolo cinematografico da protagonista) la giovane segretaria del professor Schreiner, un noto esperto internazionale d’arte.

Il fato vuole che le loro cabine siano adiacenti e così, dopo cena, George viene invitato da Hilly nella sua. Proprio mentre sono sul letto baciandosi, Caldwell vede il cadavere di un uomo precipitare davanti al finestrino. Dalla descrizione che fa a Hilly sembra proprio si tratti di Schreiner, ma al mattino dopo i due incontrano l’uomo vivo e vegeto in compagnia del mercante d’arte Roger Devereau (un diabolico Patrick McGoohan). Ma…

Divertente commedia dai toni accentuati del thriller, con chiari ed espliciti omaggi al maestro Hitchcock, ma con situazioni e gag che ancora oggi divertono. Soprattutto dall’entrata in scena di Pryor che veste i panni del ladruncolo Grover T. Muldoon, che aiuterà suo malgrado Caldwell a scoprire la verità.

Se il film è per la prima parte divertente, diventa irresistibile con la comparsa appunto di Pryor che crea con Wilder un’alchimia davvero unica. Alchimia grazie alla quale i due interpreteranno insieme altri tre film, due dei quali veri e propri campioni d’incassi come “Nessuno ci può fermare” e “Non guardarmi, non ti sento“.

Nel cast c’è anche Richard Kiel con già la sua dentatura in acciaio, che poi lo renderà il famigerato “Squalo” in alcuni film di 007; saga alla quale partecipa anche Clifton James nei panni di uno sceriffo un pò imbranato ruolo, guarda caso, che interpreta anche in questa pellicola.

“Non guardarmi, non ti sento” di Arthur Hiller

(USA, 1989)

La coppia Gene Wilder-Richard Pryor torna davanti alla macchina da presa per interpretare un altro successo al botteghino – dopo “Wagon-lits con omicidi” e quello straordinario di “Nessuno ci può fermare” – ma, soprattutto, un film che nonostante i decenni passati rimane sempre un’ottima commedia brillante e tagliente.

Perché il tema affrontato nel film – scritto da Earl Barret, Arne Sultan, Marvin Worth, Eliot Wald, Andrew Kurtzman e lo stesso Gene Wilder – in maniera schietta e senza false ipocrisie è la disabilità, o meglio il rapporto che una parte della società ha con la disabilità, e soprattutto che alcune persone hanno con la propria disabilità.

Non è un caso quindi che i due protagonisti, prima di iniziare le riprese, abbiano frequentato centri medici e di riabilitazione rispettivamente per non vedenti e non udenti, proprio per interpretare al meglio il loro personaggio, senza cadere nel pietismo o nella macchietta.

Dave Lyons (Gene Wilder) è un ex attore che per sbarcare il lunario gestisce un’edicola in un grande palazzo commerciale di Manhattan. Durante l’adolescenza è stato colpito da una forma molto grave di scarlattina che nel corso degli anni successivi gli ha compromesso l’apparato uditivo. Otto anni prima, ha definitivamente perso anche l’ultimo residuo di suono, precipitando nella sordità più assoluta.

L’evento lo ha costretto ad abbandonare le assi del palcoscenico, sulle quali riusciva a barcamenarsi grazie alla lettura delle labbra, ma soprattutto ha sancito la rottura definitiva con sua moglie che, a causa della sua disabilità, lo ha abbandonato.

Grazie all’inserzione messa sul giornale per cercare un assistente, all’edicola di Dave si presenta Wally Karue (Richard Pryor), un non vedente che ha perso la vista dopo essere stato investito da un ubriaco. Entrambi cercano in ogni modo di dissimulare la propria disabilità, ma alla fine comprendono che per lavorare insieme è inutile fingere, come fanno invece di solito col resto del mondo.

Il primo giorno di Wally però, proprio davanti all’edicola di Dave, si consuma un efferato delitto: un uomo viene ucciso dall’avvenente quanto letale Eve (la topmodell Joan Savarence) con la complicità di Mr. Kirgo (un giovane e cattivissimo Kevin Spacey). Il fatto che nessuno sia stato presente al delitto e le disabilità dei due – Dave era voltato di spalle, mentre Wally ha potuto solo sentire la sparo – li rendono i sospetti principali.

Ma Dave e Wally decidono di reagire e così, con goffaggine e tanta fortuna, riescono a evadere dalla centrale della Polizia dove erano stati portati. Ma Eve e Kirgo sono sulle loro tracce…

Esilarante commedia che, al di là della trama creata sul più classico scambio di persona, non risparmia un colpo con battute e gag soprattutto contro tutti i pregiudizi e gli stereotipi a scapito dei disabili. E’ opportuno ricordare che proprio a Richard Pryor, nel 1986, venne diagnosticata una forma di sclerosi multipla che negli anni successivi lo costrinse, anche sui set, ad usare ausili come le sedie a rotelle.

Negli anni in cui uscì questo film nel nostro Paese, per molti e soprattutto al cinema, la disabilità era ancora un tabù che andava raccontato – se proprio non si poteva farne a meno… – con pietà e commiserazione, fatte salvo alcune rare eccezioni.

Sempre divertente e attuale.

“LMVDM – La mia vita disegnata male” di GIPI

(Coconino Press – Fandango, 2018)

La fortuna, nella vita, ha un ruolo fondamentale. Soprattutto in momenti in cui ancora non sappiamo bene chi siamo, cosa vorremmo diventare e cosa in realtà diventeremo, come nel periodo dell’adolescenza.

Così GIPI (al secolo Gianni Pacinotti, classe 1963), uno dei nostri migliori autori, in questo “LMVDM – La mia vita disegnata male” ci racconta la sua che è stata segnata pesantemente da alcuni eventi. Con il suo tratto apparentemente “disegnato male”, GIPI ci parla di un periodo duro e oscuro dove il fatto di essere nato in una famiglia abbiente non è bastato a garantirgli la felicità, o quantomeno la serenità.

Ma, soprattutto, GIPI ci parla di uno degli elementi onnipresenti della nostra cultura: il senso di colpa. La nostra storia ci lega a doppio filo ad una “morale” – mi vengono i brividi solo a scriverlo… – dove i ruoli di donna e uomo sono ben definiti da secoli. Questo ampio, ingerente e oppressivo librone dove sono scritte a fuoco le regole per essere riconosciuto un vero e ineccepibile membro della più aurea società, anche se intangibile é ancora drammaticamente troppo presente nel nostro quotidiano.

I femminicidi che insanguinano il nostro Paese così come le violenze, gli abusi e le vessazioni che subiscono coloro i quali non si “adeguano” ai principi patriarcali del famigerato librone – per esempio con la loro libera sessualità – ne sono la tragica prova. E così GIPI ci racconta come la prima parte della sua esistenza è stata sbranata dai sensi di colpa dovuti ad atti e azioni che hanno fatto gli altri, mentre lui era fin troppo spesso solo un semplice testimone.

In questo bel romanzo grafico, fra i migliori libri di formazione degli ultimi tempi, GIPI amplia la ricostruzione del terribile evento narrato anche nel racconto grafico “Via degli Oleandri” pubblicato nella bellissima raccolta “Esterno notte“.

Un indimenticabile disegno di quel baratro oscuro che può essere l’adolescenza.

“Le cose: una storia degli anni Sessanta” di Georges Perec

(Einaudi, 2011)

Georges Perec (1936-1982) è stata una delle figure più rilevanti e al tempo stesso originali del panorama culturale francese, e non solo, del Novecento. E’ stato un membro di spicco dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), il gruppo transalpino di matematici e letterati fondato da Raymond Queneau e François Le Lionnais, e di cui faceva parte anche Italo Calvino. Nato in una famiglia ebraica di origine polacca, il piccolo Georges perde entrambi i genitori durante la Seconda Guerra Mondiale. Il padre perisce al fronte, mentre la madre viene deportata e muore in un campo di concentramento, molto probabilmente ad Auschwitz.

Adottato dalla zia, Perec abbandona gli studi alla Sorbona e inizia a fare diversi lavori, uno dei quali lo porta a Sfax, in Tunisia, allora colonia francese. Nel 1965 pubblica il suo primo romanzo “Le cose: una storia degli anni Sessanta” che diventa subito un simbolo della società e della cultura contemporanea, non solo francese.

Attraverso il racconto della vita e del rapporto fra i giovani Jérome e Sylvie, Perec ci disegna una società che sta velocemente e ferocemente cambiando, abbandonando quell’anima rurale che da secoli la contraddistingueva, per diventare completamente proiettata verso il consumismo e il capitalismo.

Perec, in tempo reale, comprende e descrive dettagliatamente un cambiamento così radicale da diventare irreversibile. Naturalmente in Jèrome e Sylvie c’è molto del suo autore, visto che la coppia nel romanzo passa alcuni anni proprio a Sfax.

Ma, a differenza di altri scritti pubblicati negli stessi anni, “Le cose” racconta un cambiamento definitivo che va oltre i Sessanta. Io che sono nato all’inizio del decennio successivo e ho vissuto l’adolescenza negli edonistici anni Ottanta, in questo libro ho ritrovato incredibilmente atmosfere, situazioni e comportamenti tipici di quegli anni, e – ahimè.. – anche dei decenni successivi che, volenti o nolenti, hanno portato la nostra società ad essere quelle che è diventata.

Guardandoci bene intorno, anche oggi, non è difficile riconoscere Jèrome e Sylvie in persone nei nostri paraggi che, come le descrive Perec: “…troppo spesso, in ciò che chiamavano lusso, amavano solo il denaro che c’era dietro” e che “…soccombevano dinanzi ai segni della ricchezza, amavano la ricchezza prima di amare la vita”.

“Nessuno ci può fermare” di Sidney Poitier

(USA, 1980)

La collaborazione artistica fra Gene Wilder e Richard Pryor inizia ufficialmente nel 1974 quando si trovano entrambi nella produzione di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” diretto da Mel Brooks. Infatti, a scrivere la sceneggiatura lo stesso Brooks vuole il giovane Pryor, caustico esponente della stand up comedy che sta riscuotendo molto successo in numerosi locali del Paese. Dati i suoi clamorosi ritardi e le sue discusse abitudini la produzione, però, lo reputa troppo inaffidabile e non lo vuole nel sul set sostituendolo con Cleavon Little nel ruolo del protagonista Bart, lo sceriffo afroamericano di Rockridge.

Ma negli anni successivi l’affermazione delle carriere cinematografiche di entrambi li porta finalmente a recitare insieme in “Wagon-lits con omicidi” diretto a Arthur Hiller nel 1976. Il successo della pellicola consacra definitivamente la coppia come una delle più esilaranti ed efficaci del cinema americano.

Nel 1980 i due tornano a recitare insieme in “Nessuno ci può fermare”, che rappresenterà il maggior incasso americano dell’anno solo dopo “Star Wars: L’impero colpisce ancora” e “Dalle 9 alle 5 orario continuato“.

Dietro la macchina da presa c’è una vera e propria leggenda di Hollywood: Sidney Poitier. Scritta da Bruce Jay Friedman e Charles Blackwell, la pellicola ha per protagonisti Skip Donahue (Wilder) e Harry Monroe (Pryor), rispettivamente un commediografo e un attore che sognano di conquistare Broadway, ma che in realtà non riescono a mantenere un lavoro, lontano dalle assi di un palcoscenico, per più di qualche settimane.

Il fatto che la Grande Mela “non li voglia aiutare”, fa venire in mente a Skip di fare come gli antichi pionieri: attraversare l’intero Paese per raggiungere la California e lì tentare la fortuna a Hollywood. L’idea all’inizio non piace a Harry, che non è un ingenuo sognatore come l’amico, visto poi che essendo afroamericano ha dovuto affrontare prove che Skip, grazie al roseo della sua epidermide, ha potuto serenamente evitare. Ma l’insistenza dell’amico e l’impossibilità di sfondare a Broadway alla fine lo convincono.

Ma sulla strada che li porta in California i due vengono presi per due spietati rapinatori di banche, catturati e condannati a 30 anni da scontare in carcere. L’impatto dietro le sbarre è devastante, e al tempo stesso irresistibile.

Ma, in maniera del tutto inaspettata, Skip viene selezionato dal direttore del carcere per gareggiare nel rodeo annuale delle prigioni, dove girano molti soldi soprattutto legati alle scommesse clandestine. Grazie all’amicizia di alcuni detenuti, Skip e Harry intravedono una insperata occasione nel rodeo…

Questa esilarante commedia, nonostante l’apparenza del classico meccanismo dello scambio di persone, ci parla in maniera anche poco velata dell’atroce piaga del razzismo negli Stati Uniti. Se a dirigerla è uno dei volti simbolo della lotta al razzismo come Sidney Poitier, ad interpretarla c’è quello ironico ma anche segnato dal dolore di una vita passata a lottare contro l’arroganza del razzismo in un Paese che allora, come purtroppo in buona parte ancora oggi, doveva fare i conti con la parte più ottusa e violenta dell’integralismo razziale.

Non è un caso quindi che nei suoi spettacoli, già dagli anni Settanta, Richard Pryor parlasse dei soprusi e delle violenze che gli afroamericani subivano quotidianamente, anche da parte di chi li avrebbe dovuti proteggere come per esempio la Polizia.

I due grandi comici torneranno a recitare insieme nell’esilarante “Non guardami, non ti sento” del 1989.

“Quando soffia il vento” di Raymond Briggs

(Orient Express, 1984)

I coniugi Hilda e James Bloggs vivono in un piccolo cottage nella campagna inglese. I loro due figli Beryl e Ron, con le rispettive famiglie, risiedono da anni a Londra. I Bloggs hanno una vita molto semplice e spartana: James va tutti i giorni nel paese a pochi chilometri da casa a leggere il giornali in biblioteca e a fare quattro chiacchiere mentre fa la spesa.

Hilda, invece, pensa soprattutto alla casa e al piccolo giardino che la circonda. La loro tranquilla routine viene interrotta dalle drammatiche notizie che giungono da radio e carta stampata: la crisi internazionale è al collasso e si teme un attacco nucleare da parte dell’Unione Sovietica.

Seguendo scrupolosamente i dettami dell’opuscolo governativo che ha trovato in paese James, con delle porte e dei cuscini, costruisce un piccolo rifugio antiatomico dentro casa, dove il Governo consiglia di passare almeno 14 giorni dopo l’attacco nucleare.

Ai due anziani non può non tornare in mente quando, circa quarant’anni prima, insieme affrontarono la Seconda Guerra Mondiale e i devastanti bombardamenti di Londra. Ma l’olocausto atomico, purtroppo, è ancora più terrificante…

Pubblicato per la prima volta nel 1982, questo romanzo grafico, è una delle opere antimilitariste più taglienti ed efficaci realizzate negli anni Ottanta. Raymond Briggs (1934-2022), per parlare di uno degli incubi planetari più oscuri della guerra fredda, prende spunto dalla storia dei suoi veri genitori ai quali poi dedicherà nel 1999 il bellissimo romanzo grafico “Ethel & Ernest” (da cui Roger Mainwood ha tratto il lungometraggio animato “Ethel & Ernest – Una storia vera“), che si conobbero nel 1928 e rimasero insieme fino al 1971, anno in cui entrambi scomparvero.

Per molti anni abbiamo vissuto ingenuamente convinti che il pericolo di un olocausto atomico fosse stato scongiurato per sempre alla fine degli anni Ottanta. Ma la storia ci sta sbattendo in faccia che, purtroppo, non è così.

Drammaticamente attuale.

“In caso di disgrazia” di Georges Simenon

(Adelphi, 2014)

L’avvocato Lucien Gobillot è uno dei più famosi di Parigi. E’ il penalista più noto del foro della capitale francese, e nel corso della sua lunga carriera non ha rinunciato a difendere anche rei moralmente ambigui.

Il suo studio – forse per questo – è uno dei più ambiti, e averlo dalla propria parte è una garanzia molto spesso di successo. Fra i suoi clienti ci sono nomi illustri e aziende internazionali, visto che il suo cognome è conosciuto anche all’estero.

Molto del suo successo Gobillot lo deve a sua moglie Viviane, fra le personalità più rilevanti dei salotti parigini. La donna era la giovane moglie di un altrettanto noto principe del foro, presso il quale lo stesso Gobillot iniziò la sua carriera.

Ma Viviane, con grande stupore dello stesso Gobillot, scelse lui e lasciò l’ansiano avvocato per il suo giovane e assai promettente assistente. Grazie a Viviane e alle sue pubbliche e private relazioni personali, lo studio del nuovo marito in poco tempo prese quota e il nome Gobillot divenne uno dei più citati e ricercati al Palazzo di Giustizia.

Ma la sera dello scorso 6 novembre Lucien Gobillot ha iniziato a scrivere un vero e proprio memoriale che inserisce in un fascicolo, in carta di Lione beige, esattamente uguale a quelli che redige per i suoi casi. Ciò che lo spinge a farlo è il timore, o forse la certezza, che quelle pagine possano diventare utili …in caso di disgrazia.

Circa un anno prima Gobillot ha conosciuto la ventenne Yvette, una giovane prostituta implicata nel furto di alcuni orologi in un negozio, e che proprio da lui è andata per essere difesa. L’avvocato, incuriosito dal carattere e dall’aspetto della giovane, l’ha fatta parlare e al momento delle garanzie per pagare la parcella la giovane, come se fosse la cosa più naturale, gli si è offerta sessualmente.

Gabillot ha declinato l’invito, ma ha lo stesso deciso di diventare il suo legale Pro Bono. Il caso, e soprattutto il difensore, hanno suscitato non poco l’interesse della stampa e degli addetti ai lavori. Solo dopo l’assoluzione Gobillot è diventato l’amante di Yvette.

Il rapporto con la sua ormai ex cliente, per l’avvocato è diventato sempre più possessivo e morboso, soprattutto da quando Yvette gli ha confessato di aver incontrato un giovane, tale Mazetti, intenzionato a sposarla. Per GobiIlot il nuovo amore rischia però di rallentare le frenetiche attività del suo studio, ma la stessa Viviane ne è a conoscenza e lo tollera purché il marito rispetti gli impegni ufficiali che lei programma. Ma…

Finito di scrivere nel 1955 e pubblicato per la prima volta l’anno successivo, questo “In caso di disgrazia” ci parla degli uomini che vogliono trattenere e stringere le donne ma che in realtà alla fine e nel profondo proprio non le comprendono. E forse per questo non riescono ad afferrarne la vera essenza.

Il maestro Simenon, che invece le capiva molto bene, tratteggia superbamente ancora una volta il ritratto di alcune donne indimenticabili e, in un modo o nell’altro, vittime loro malgrado dell’ottusità degli uomini. E non è solo quello della giovane e affamata di vita Yvette, ma anche quello indimenticabile di Viviane, donna matura e razionale.

Un altro viaggio intimo e carnale nel rapporto fra uomini troppi miopi e immaturi e donne troppo libere ed emancipate.

“Blankets” di Craig Thompson

(Rizzoli Lizard, 2010)

Come sottolinea anche Zerocalcare: il fumetto non è un genere ma un vero e proprio linguaggio narrativo. Se nel resto del mondo questo concetto è ormai assodato e riconosciuto, solo nel nostro Paese sembra scontrarsi con una barriera di polverosi e ottusi pregiudizi.

Basta leggere però questo splendido romanzo grafico per abbandonare ogni indugio e considerare il fumetto alla pari del più classico dei romanzi.

Pubblicato per la prima volta nel 2003 questo “Blankets” di Craig Thompson (classe 1975) – che aveva debuttato con “Addio Chunky Rice” nel 1999 – ci racconta la storia autobiografica e poco semplice dell’adolescenza del suo autore. Nato nel Michigan, Thompson è cresciuto nella Contea di Marathon nel Wisconsin settentrionale, in una comunità prettamente agricola.

I suoi genitori appartenevano ai Cristiani Rinati, protestanti molto ortodossi, che fin da piccolo lo hanno cresciuto, assieme al fratello minore Phil, in maniera molto spartana e religiosa. Se fra le mura di casa Craig ha Phil come riferimento, fuori la vita è molto più dura, sia a scuola che in chiesa.

Ma durante una vacanza in un campo religioso Craig conosce Raina, una sua coetanea che vive a Marquette, nel Michigan. Fra i due nasce subito un’amicizia molto particolare che non naufraga alla fine della vacanza. Dopo mesi di telefonate e lettere, Raina lo invita per due settimane a casa sua approfittando delle vacanze invernali.

L’impatto con la famiglia di Raina sarà per Craig profondamente catartico, visto che per la sua educazione, soprattutto quella religiosa, il senso di colpa non lo ha mai abbandonato da quando ha memoria. E con dolore affronterà anche il distacco dai suoi genitori e dalla loro scelta di vita.

La presenza del freddo e della neve è una costante del libro, metafora geniale e profonda dell’adolescenza che è spesso uno dei momenti più “freddi” della nostra esistenza, in cui cerchiamo più di ogni altra cosa la coperta – che in inglese si dice appunto blanket – più adatta a noi per tenerci al caldo.

Bellissimo romanzo – grafico – di formazione che ci parla direttamente al cuore con dei disegni e delle atmosfere struggenti ed emozionanti. Non è un caso quindi che “Blankets” abbia fatto incetta dei premi americani più prestigiosi per autori di fumetti come gli Eisner Awards, gli Harvey Awards e gli Ignatz Awards, premi che hanno consacrato giustamente Thompson come autore di spicco del romanzo grafico contemporaneo.

Da leggere.

“Sunshine Cleaning” di Christine Jeffs

(USA, 2008)

L’eredità che i genitori lasciano ai proprio figli molto spesso incide in maniera determinante nella loro vita. Questo vale per le cose materiali ma, soprattutto, per quelle immateriali che riguardano la sfera sentimentale ed emotiva.

E l’eredità di un genitore può essere trasmessa ai figli anche prima di morire. Come nel caso di Rose (una bravissima Amy Adams) e sua sorella minore Norah (Emily Blunt) nate e cresciute ad Albuquerque da Joe (un sempre grande Alan Arkin) alla ricerca perenne dell’affare del secolo, e dalla loro madre che però, quando erano ancora due bambine, si è tolta la vita.

Se Rose al liceo era la stella delle cheerleader nonché fidanzata col quoterback della squadra di football, una volta preso il diploma la sua vita ha iniziato inesorabilmente a franare. Madre single di Oscar, sbarca il lunario facendo le pulizie per una ditta locale e non riesce a smettere di essere l’amante di Mac (Steve Zahn), il suo fidanzatino del liceo che ora fa il poliziotto, che però è felicemente sposato con un’altra donna.

Anche sua sorella Norah non riesce a mantenere un lavoro per più di una settimana, come non riesce ad avere una relazione stabile e soddisfacente. Proprio durante uno dei settimanali incontri clandestini con Mac, a Rose viene l’idea di creare una società per la pulizia dei luoghi scene di un crimine o di una morte violenta, nicchia di mercato assai redditizia e poco sfruttata.

Ma Rose, assieme a Norah che suo malgrado l’aiuta, scoprirà che si tratta di un lavoro molto duro e faticoso, che comprende anche il ripulire le case di persone morte suicide o da molto tempo prima che qualcuno le abbia ritrovate.

Grazie anche a Winston (Clifton Collins Jr.), il commesso dell’emporio che vende i prodotti professionali per le pulizie, Rose inizia per la prima volta, dopo tanto tempo, ad avere fiducia in se stessa, ma…

Non si possono scegliere i propri genitori, ma si può scegliere di prendere distacco da loro, soprattutto dalle loro scelte più funeste o egoiste.

Scritto da Megan Holley, questo “Sunshine Cleaning” – il cui titolo richiama forse alla pulizia del proprio essere dalle tossine che qualcun altro vi ha lasciato… – ci ricorda quanto possa essere delizioso il cinema indipendente americano.