“L’assassino che è in me” di Jim Thompson

(Fanucci, 2010)

Dopo aver pubblicato lo strepitoso “Nulla più di un omicidio” nel 1949, ed alzato l’asticella del romanzo noir americano che in quel momento sta vivendo il suo periodo d’oro, Jim Thompson viene contattato da alcuni redattori della Lion Books che vogliono che il suo romanzo successivo, il quarto, sia pubblicato con la loro casa editrice.

Arnold Hano e Jim Bryans della Lion, al primo incontro con Thompson, gli consegnato cinque brevissime sinossi, dei semplici spunti sui quali costruire un romanzo. Dopo averli letti Thompson si sofferma su quello che “…riguardava un poliziotto di New York che ha una relazione con una prostituta e finisce per ucciderla” e dice ai due: “Prendo questo”.

Nell’arco di poche settimane sulla scrivania di Hano e Bryans arrivarono le cartelle con la prima versione del romanzo che avrebbe preso il titolo “L’assassino che è in me”. Thomson aveva usato solo il banale spunto della relazione fra un uomo di legge e una prostituta, per poi cambiare tutto, ambientando la vicenda nella sua “solita” Capital City, e soprattutto costruendo un protagonista e una storia terrificanti.

Il vice sceriffo Lou Ford è considerato da tutti i suoi concittadini un brav’uomo, tollerante e sempre pronto a dare una mano ha chi ne ha bisogno. Per questo lo sceriffo Bob Maples lo considera il suo pupillo. Ma Lou Ford nasconde un terribile segreto, che risale alla sua infanzia, e che suo padre, uno dei medici più stimati di Capital City, ha sempre tenuto nascosto a tutti.

Anche Lou ha fatto di tutto per nascondere e contenere la sua “malattia”. Ma quando Chester Conway, il fondatore e proprietario della Conway Construction, la più grande società edile della città e pilastro economico dell’intera contea, gli affida un lavoro “fuori orario”, la diga inesorabilmente crolla.

Perché Chester Conway ha chiesto al giovane e promettente vice sceriffo Ford di convincere l’avvenente e assai accessibile Joyce Lakeland a lasciare la città e soprattutto suo figlio Elmer Conway. La cosa deve avvenire nella maniera più discreta possibile visto il cognome del ragazzo. Ma quando Lou incontra di persona Joyce inizia per lui, e per chi gli sta vicino come la sua storica fidanzata Amy, una terrificante e inesorabile discesa agli inferi.

Travolti dal racconto diretto di Lou viviamo un’escalation di sangue e violenza per mano di una mente lucida e coerente, ma al tempo stesso folle, criminale e senza freni. Lo stesso Hano raccontò che lette le prime cartelle rimase letteralmente sconvolto e ogni volta che la sera a casa, nel buio della notte, le rileggeva, oltre a comprendere il genio assoluto di Thompson, i peli delle sua braccia spesso si rizzavano.

Anche Stanley Kubrik, una volta letto il libro uscito nel 1952, ne rimase talmente colpito da volere Thompson come cosceneggiatore per i suoi capolavori “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”. E non è un caso, quindi, che fra i più grandi ammiratori di Thompson ci sia anche il maestro Stephen King – i cui mostri più terrificanti non sono quelli fantastici, ma quelli “ordinari” che appartengono al genere umano – che lo considera uno dei maggiori scrittori del Novecento, chiamandolo “Big” Jim Thompson.

Nella sua autobiografia “Bad Boy”, Thompson racconta l’episodio vero dal quale prese spunto per creare Lou Ford. L’evento si consumò, durante la sua giovinezza, in un luogo isolato fra lui ed un poliziotto, noto in tutta la cittadina per essere una brava persona assai tollerante con tutti. Per convincerlo delle proprie “ragioni”, il poliziotto con una calma glaciale, ed infilandosi i guanti di pelle, disse al giovane Thompson come lo avrebbe ucciso con le proprie mani senza che poi nessuno avrebbe sospettato di lui, vista la sua fama e il suo ruolo.

Sconvolto, il giovane Thompson si lasciò convincere e assecondò docilmente il poliziotto, rimanendo per tutta la vita con la certezza che quell’uomo lo avrebbe potuto davvero massacrare rimanendo impunito.

Un capolavoro ancora oggi agghiacciante e indimenticabile.

Nel 1975 Burt Kennedy dirige l’adattamento cinematografico con Stacy Keach nei panni di Lou Ford, che chi lo ha visto considera il peggior adattamento in assoluto di un’opera di Thompson. Nel 2010 Michael Winterbottom firma “The Killer Inside Me” con Casey Affleck nel ruolo di Ford, Jessica Alba in quello di Joyce e Kate Hudson in quello di Amy.

“Prima pagina” di Billy Wilder

(USA, 1974)

Siamo agli inizi degli anni Settanta, e la carta stampata ma soprattutto la televisione plasmano, spesso senza remore, l’opinione pubblica. Così il grande Billy Wilder decide di riportare sul grande schermo la commedia teatrale “The Front Page” scritta da Ben Hecht (fra i più importanti e prolifici sceneggiatori della prima epoca d’oro di Hollywood, autore di script come “Scarface – Lo sfregiato”, “Pericolo pubblico n.1”, “Ombre rosse”, “Notorius – L’amante perduta” o “Nulla di serio“) e Charles MacArthur nel 1928, che già vanta numerosi adattamenti cinematografici a partire dall’omonimo “The Front Page” di Lewis Milestone del 1931, passando per il divertente “La signora del venerdì” diretto da Howard Hawks nel 1940 con Cary Grant e Rosalind Russell.

Quest’ultimo cambia il protagonista da Hildebrand ‘Hildy’ Johnson in Hildegard “Hildy” Johnson, facendone vestire i panni alla Russell, scelta narrativa importante e ispirata a Nellie Bly (1864-1922) la grande giornalista americana, collaboratrice di fiducia di Joseph Pultizer. Con lo stesso cambio narrativo, e ambientandolo direttamente negli studi di un network televisivo, Ted Kotcheff dirige nel 1988 “Cambio marito” con Burt Reynolds, nel ruolo del direttore, Kathleen Turner in quello della sua giornalista di punta – nonché sua ex moglie – e Christopher Reeve in quello del suo nuovo e ingenuo aspirante marito.

Billy Wilder, invece, assieme al suo fidato coscenaggiatore I.A.L. Diamond decide di rimanere fedele all’opera originale di Hecht e MacArthur, ambientandola l’anno dopo in cui venne per la prima volta rappresentata, il 1929. Chicago, per le 7.00 della mattina del 6 giugno è stata fissata l’esecuzione di Earl Williams (Austin Pendleton) condannato all’impiccagione per l’uccisione di un poliziotto, avvenuta mentre questi lo stava arrestando perché distribuiva volantini a favore dell’organizzazione anarchica e sinistrorsa “Friends of American Liberty”.

Anche se il colpo è partito involontariamente durante la colluttazione, Williams è stato condannato molto rapidamente, così da programmare la sua esecuzione proprio a ridosso delle elezioni. Il sindaco (Harold Gould) e lo sceriffo (Vincent Gardenia) hanno fatto di tutto per accelerare il processo proprio per poter sfruttare al meglio la situazione, visto poi che il poliziotto deceduto era di colore, si sono trovati fra le mani l’occasione per prendere anche i voti della comunità afroamericana della città.

Walter Burns (un arcigno e perfido Walter Matthau) direttore del “Chicago Examiner” ha messo sull’esecuzione il suo uomo migliore Hildebrand “Hildy” Johnson (Jack Lemmon) che però si è reso incredibilmente introvabile. Quando finalmente Hildy torna al giornale lo fa per presentare le sue dimissioni: la sera stessa partirà per Philadelphia per poi sposarsi nei giorni successivi con la candida Peggy (Susan Sarandon).

Burns sarà disposto a tutto, anche a mentire e truffare, pur di non perdere il suo miglior cronista, ma a mettere davvero nei guai Hildy sarà proprio il suo viscerale amore per il giornalismo…

Wilder dirige una commedia divertente e graffiante, atto d’accusa contro un certo tipo di giornalismo aggressivo e spietato, soprattutto con coloro che usa e poi getta via, come: ” …la prima pagina di un quotidiano che quando esce può fare molto scalpore, ma il giorno dopo è usata tranquillamente per incartare il pesce al mercato”, frase che lo stesso Burns pronuncia a Hildy.

A quasi cinquant’anni di distanza dalla sua uscita nelle sale americane, “Prima pagina” rimane sempre un’ottima commedia, vittima però di mode e superficialità che oggi sarebbero, giustamente, inaccettabili. Come la bassa stereotipizzazione dell’omosessualità del giornalista Bensiger (interpretato da David Wayne) che risulta ancora più evidente dalla grande dignità che Wilder e Diamond donano a Molly Malloy (interpretata da Carol Burnett) la prostituta dei bassi fondi innamorata di Williams.

Se Molly, che rappresenta gli ultimi della società, è il personaggio più puro e sincero del film – che ricorda molto quelli cantanti magistralmente dal grande Fabrizio De Andrè – Bensinger è “solo” un personaggio secondario bizzoso e antipatico, dai modi “strani” dei quali tutti possono ridere. D’altronde in Gran Bretagna solo sette anni prima la realizzazione di questo film l’omosessualità smise di essere reato.

I duetti fra Lemmon e Matthau sono comunque sempre irresistibili e indimenticabili, grazie anche agli attori di supporto, tutti grandi artisti, come i già citati Gardenia e Gould, a cui si aggiungono Charles Durning e Herb Edelman nei ruoli di alcuni giornalisti colleghi di Hildy.

Nella nostra versione a doppiare Matthau non è il grande Renato Turi, ma un altrettanto bravissimo Ferruccio Amendola, mentre Giuseppe Rinaldi dona come sempre magistralmente la voce a Lemmon.

“Quasi un santo” di Anne Tyler

(TEA, 2005)

Ian Bedloe è un adolescente che vive al numero 8 di Waverly Street a Baltimora, agli inizi degli anni Sessanta. I suoi genitori, Bee e Doug, amano la casa piena di persone e amici, soprattutto quelli dei figli. Ian è il fratello minore di Claudia e Danny. La prima, alla soglia dei quaranta, è sposata con prole e in attesa del nuovo genito.

Danny, invece, è uno scapolo impenitente, che vive ancora a casa dei suoi. Lavora in un ufficio postale e ama passare le serate a parlare col fratello minore sulla soglia della sua stanza. Ian frequenta Cicely, una sua compagna di scuola.

Un giorno Danny torna a casa con una notizia sconvolgente: al lavoro ha incontrato Lucy una donna che a breve sposerà. Tutti i Bedloe ne sono entusiasti conoscendola, ma quando i novelli sposi presentano loro Agatha e Tommy, i due bambini nati nel primo matrimonio di Lucy, Bee non riesce a nascondere a marito e figli la sua perplessità.

Sette mesi dopo le notte nasce Daphne, e quando la piccola viene portata a casa Bedloe la prima volta, tutti non possono fare a meno di notare che non si tratta affatto di una “prematura”. Ian, intanto, è diventato il babysitter ufficiale di Agatha e Tommy e subito viene promosso anche a quello di Daphne.

Il giovane è attratto da Lucy, ma allo stesso tempo la trova misteriosa – della sua vista passata non esistono foto o documenti – e poco affidabile, visto che lui si deve occupare dei bambini quando lei esce con le amiche, che però nessuno conosce. Dopo aver preso il diploma Ian si è iscritto al college e quando il week end torna a casa, Danny gli chiede sempre di stare con i tre bambini, soprattutto per lasciare del tempo libero a Lucy.

Ian è convinto ormai che la cognata sia una fedifraga incallita e così declina ogni volta l’invito. Ma un sabato pomeriggio lo stesso Danny lo prega di occuparsi dei tre piccoli, perché lui ha una cena con gli amici e Lucy deve vedere la sua storica amica. Anche se Ian è stato invitato da Cecily a cena, dove consumeranno finalmente il loro primo rapporto sessuale, alla fine per assecondare il fratello accetta, visto poi che la cognata gli promette che rientrerà a casa abbondantemente prima dell’ora di cena.

Ma col passare del tempo Ian si rende conto che Lucy non manterrà la promessa e ad ogni telefonata di Cicely, che protesta perché la cena si sta rovinando, lui diventa sempre più furente. Così quando finalmente Lucy torna a casa quasi la ignora uscendo. Ma sulla porta incontra Danny, rientrato dalla sua cena che, nonostante sia un pò alticcio, si offre di accompagnarlo a casa con la sua auto.

Arrivati un Waverly Street, Ian sempre più indignato per la sua serata andata in fumo e per la patetica ingenuità del fratello pronuncia una frase secca e dura che segnerà per sempre la vita di Danny, quella di Lucy, di Agatha, Tommy, Daphne, Bee e Doug, ma soprattutto la sua, visto che passerà il resto della sua esistenza a tentare di vivere con l’incolmabile senso di colpa che quelle parole gli apriranno nell’anima…

La Tyler possiede la grande e rara capacità di raccontare in maniera sublime il passare del tempo all’interno delle mura della casa dove vivono le diverse generazioni di una famiglia. Come in molti altri suoi romanzi – come ad esempio “Ristorante Nostalgia” o “Una spola di filo blu” – anche in questo la grande casa di Waverly Street è il fulcro delle vicende dei Bedloe e di Ian che ne rappresenta l’anima tormentata e ferita.

L’autrice di “Lezioni di respiro” – vincitore del Premio Pulitzer nel 1989 – e “Le storie degli altri” – fra i miei romanzi preferiti in assoluto – ci ricorda che molto spesso sono le nuove generazioni ad arginare ed alleviare i terribili sensi di colpa che affliggono storicamente le loro famiglie, e che, soprattutto, col passare del tempo alla fine possiamo diventare più indulgenti con noi stessi.

Da leggere, come tutte le opere di Anne Tyler.

“Renzo e Luciana” di Mario Monicelli

(Italia, 1962)

Il film “Boccaccio ’70” prodotto da Carlo Ponti nasce da un’idea di Cesare Zavattini, che prevedeva quattro differenti episodi: “Il lavoro” diretto da Luchino Visconti, “La riffa” diretto da Vittorio De Sica, “Le tentazioni del dottor Antonio” diretto da Federico Fellini e “Renzo e Luciana” diretto da Mario Monicelli.

Al Festival di Cannes, dove il film sarebbe stato presentato in anteprima mondiale fuori concorso, Ponti decise di tagliare il segmento di Monicelli perché la pellicola risultava troppo lunga e non commerciabile all’estero secondo gli standard cinematografici di allora. In realtà, secondo le cronache e le testimonianze dell’epoca, fra cui quella dello stesso Monicelli, il suo episodio era quello più graffiante e al tempo stesso malinconico, con un cast sconosciuto – per questo poco vendibile all’estero – e una critica dura alla nostra società tanto ingenuamente ancora incantata dal Boom economico.

Così lo stesso regista si rivolse ad un magistrato francese che obbligò il Festival a proiettare la pellicola nella sua versione integrale, così come era stata presentata. Poche ore prima della proiezione però, Ponti riuscì ad impugnare la vertenza, con l’appoggio dell’organizzazione del Festival, e il film venne presentato senza “Renzo e Luciana”.

La cosa provocò non poche proteste, tanto che altri registi presenti a Cannes con un loro film, per solidarietà a Monicelli, non parteciparono alla kermesse e non rilasciarono interviste come Michelangelo Antonioni con il suo “La notte” e Pietro Germi con “Divorzio all’italiana”. A pensare oggi a quel 1962, con la situazione del nostro cinema contemporaneo …vengono le coliche.

Sulla scia delle polemiche, che alla fine fecero un’enorme pubblicità, nelle nostre sale il film arrivò con tutti e quattro gli episodi, e si apre proprio con “Renzo e Luciana” scritto dalla grande Suso Cecchi D’Amico, Italo Calvino, Gianni Arpino e lo stesso Monicelli.

Luciana (Marisa Solinas) e Renzo (Germano Gilioli) lavorano in una grande ditta a Milano. Lei è una addetta alla computisteria mentre lui è un magazziniere. Nella loro azienda però è vietato sposarsi fra colleghi e, per una donna, rimanere incinta: pena il licenziamento immediato.

Così i due nascondono a tutti i loro amore e, soprattutto, il loro matrimonio “clandestino” avvenuto nella pausa pranzo di un giorno feriale, nella baracca che ospita provvisoriamente la parrocchia del loro quartiere cantiere che si sta espandendo in maniera esponenziale.

Luciana ha fatto tutti i calcoli al centesimo e così, anche prima del matrimonio, i due sono riusciti a comprare, dopo aver firmato una montagna di cambiali, i mobili e gli elettrodomestici per il loro nido d’amore. Ma senza una base economica non si possono permettere ancora un appartamento.

La volitiva Luciana è riuscita, comunque, a convincere i suoi genitori a cedere loro la camera da letto, ma a partire proprio dalla prima notte di nozze la convivenza sembra molto difficile. Un forte ritardo fa temere a Luciana di essere incinta, e a complicare definitivamente le cose ci si mette il Ragioniere capo di Luciana – un prepotente arrogante ed antipatico Don Rodrigo dal colletto bianco – che, convinto che lei sia ancora nubile e senza fidanzato, inizia a farle insistentemente la corte.

I due, così, dovranno scegliere fra la loro dignità o un lavoro ben retribuito…

Tratto dal racconto “L’avventura di due sposi” scritto da Calvino nel 1958 e che appartiene alla prima parte de “Gli amori difficili”, questo “Renzo e Luciana” richiama, con ironia, l’opera massima di Alessandro Manzoni. Ma se “I promessi sposi” si chiude con il coronamento del sogno d’amore di Renzo e Lucia che ottimisti guardano al loro futuro, i loro successori Renzo e Luciana vengono fagocitati dal Boom.

Il profitto e il capitalismo spinto all’eccesso, rendono loro delle “semplici” forza lavoro ad uso e consumo di chi ha in mano i cordoni della borsa del nostro Paese. E così per loro l’importante non è più vivere il loro sogno d’amore, ma arrivare a fine mese, senza poter pensare ad altro.

Sono passati oltre sessant’anni dalla realizzazione di questa pellicola, e in questo lasso di tempo nel nostro Paese sono accadute molte cose. Ci sono state rivoluzioni ma nulla è cambiato, e forse le cose sono pure peggiorate, è crollato il Muro di Berlino, è cambiato drasticamente il panorama politico e si sono succeduti Governi di colori differenti.

Ma nell’ultimo periodo la maggior parte delle famiglie italiane, soprattutto negli ultimi due anni, ha lavorato soprattutto per pagare le utenze arrivando in bilico a fine mese. E pure siamo uno degli 8 paesi più industrializzati del Pianeta. E allora come è possibile?

Forse perché alla fine la famigerata “lotta di classe” l’hanno vinta i “ricchi”, molti dei quali protestavano ferocemente in strada nel ’68. E quello che rende immortale questo episodio è proprio la sua incredibile lungimiranza, anche prima della “contestazione” e dell’inizio “ufficiale” della lotta di classe, Cecchi D’Amico, Calvino, Arpino e lo stesso Monicelli lo avevano lucidamente intuito. Forse per questo venne così osteggiato alla sua presentazione.

A fare da sfondo a questa storia così tristemente attuale, c’è una Milano in piena espansione, un grande cantiere a cielo aperto pieno di sogni e pronto ad accogliere chi è convinto di trovare nella città meneghina un futuro migliore.

Non è un caso, quindi, se Monicelli inserisce nella colonna sonora del film “La ballata del Cerutti” interpretata da Giorgio Gaber e scritta da questo assieme a Umberto Simonetta, che è una delle canzoni simbolo di quegli anni, anni in cui Milano si trasforma, senza controllo, in una metropoli con i suoi lati positivi e purtroppo negativi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Non così vicino” di Marc Forster

(USA, 2023)

Tratto dal romanzo del 2014 “L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrik Backman e dal suo primo adattamento cinematografico “Mr. Ove” che Hannes Holm ha realizzato nel 2015, questo “Non così vicino” ci regala un’ottima interpretazione di Tom Hanks nei panni del protagonista.

La sceneggiatura è curata da David Magee (autore di script di film come “Vita di Pi” o “Neverland – Un sogno per la vita”) che ambienta la vicenda in una città degli Stati Uniti del nord, il cui protagonista si chiama Otto, e non più Ove. Il titolo originale di questa pellicola è infatti “A Man Called Otto” mentre quella di Holms è “En man som heter Ove”, che in inglese è tradotta “A Man Called Ove”.

Il burbero Otto vive nella sua villetta a schiera in piena solitudine. E’ rassegnato al fatto di non avere più amici e conoscenti degni di essere frequentati. Il suo mondo è finito circa sei mesi prima quando Sonya, sua moglie, è stata sconfitta da un cancro.

Il pensionamento “forzato”, poi, gli ha tolto l’ultima cosa da fare nella giornata, e così Otto ha deciso di farla finita e raggiungere la sua tanto amata Sonya. Ma ogni volta, mentre sta cercando di compiere il suo insano gesto – rivivendo i momenti più importanti della sua esistenza e soprattutto del rapporto con Sonya – la nuova vicina di casa Marisol (Mariana Treviño) lo interrompe inesorabilmente.

La donna, nata in Messico e trasferitasi negli Stati Uniti assieme al marito, alle sue due figlie piccole e in attesa del terzo genito, intuisce qualcosa di profondo ed estremamente doloroso in Otto, che allo stesso tempo possiede molti punti in comune con lei stessa. Per questo, al limite dell’ingerenza, lo costringe a frequentarla.

Otto così comprenderà che, nonostante gli enormi dolori vissuti e le gravi perdite subite, al mondo c’è sempre qualcuno capace di apprezzarci semplicemente per quello che siamo. Ed è accanto a questo “qualcuno” che vale la pena camminare quel pezzo di sentiero che il destino ci concede di percorrere.

Rispetto alla pellicola diretta da Holm, questo adattamento firmato da Marc Forster (regista di film come “Monster’s Ball – L’ombra della vita” o “Neverland – Un sogno per la vita”) è più edulcorato e meno graffiante. Come accade spesso, la versione a stelle e strisce ha degli snodi narrativi semplificati rispetto all’originale per rendere il film più “fruibile” al pubblico.

Ma la storia di Otto/Ove merita comunque di essere vista, sia per il messaggio di amore e tolleranza che possiede, sia per la deliziosa interpretazione di Tom Hanks.

“Ponyo sulla scogliera” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2008)

Per scrivere questo capolavoro della cinematografia mondiale il maestro Hayao Miyazaki si è ispirato a “Iyaiyaen”, pubblicato per la prima volta nel 1962 ed esordio della scrittrice giapponese Rieko Nakagawa – classe 1935, autrice molto amata dal grande cineasta – e illustrato da Yuriko Omura, ma soprattutto a “La sirenetta” di Hans Christian Andersen.

Il mare quindi è il centro della storia, e Miyazaki ci dice che il mare è donna, non a caso la madre di Ponyo è Granmammare, l’anima stessa dell’immenso blu che da tempo immemore è la culla della vita sul nostro Pianeta.

Come in molti altri film del genio dello Studio Ghibli, sono le donne ad avere il ruolo cruciale nella storia. Oltre a Ponyo, Sōsuke è circondato da figure femminili determinate e determinanti, come sua madre Risa, la stessa Granmammare e le signore ospitate nella casa di riposo dove lavora la stessa Risa.

Gli uomini, invece, hanno un ruolo secondario, come Fujimoto, il padre di Ponyo che prima di diventare un mago degli abissi era un essere umano e che, pensando di fare del bene, ostacola in ogni modo il desiderio della figlia di diventare umana, figlia che si ostina a voler chiamare Brunilde.

O come Kōichi, il padre di Sōsuke, che osserva la fantastica storia del figlio solo da lontano perché impegnato nel suo lavoro di marinaio. Miyazaki ci ricorda che la Natura è donna, così come il mare – che gli uomini continuano ottusamente ad inquinare… – e li si possono apprezzare e vivere a pieno solo con un cuore gentile e rispettoso come quello di Sōsuke, capace di ascoltare e assecondare con amore Ponyo.

Sull’aspetto di Ponyo e di Sōsuke circolano molte voci e teorie, come quella che quest’ultimo abbia i lineamenti da bambino di Goro Miyazaki, figlio del regista. Quello che è certo, e che lo stesso Hayao Miyazaki ha affermato più volte, è che in ogni piccolo protagonista delle sue pellicole c’è tanto di lui stesso da bambino, che sognava di vivere le avventure più fantastiche ed emozionanti.

Un grande, instancabile e completo artista capace di condividere i suoi sogni e le sue paure come pochi altri, il cui genio ricorda non a caso quelli di Steven Spielberg e George Lucas.

Una pellicola d’amore e di formazione come poche altre. Un altro capolavoro indiscusso che il maestro Miyazaki ha regalato al mondo.

La deliziosa canzone dei titoli di coda nella nostra versione è stata tradotta ed eseguita da Fabio Liberatori – ex componente degli Stadio, musicista molto amato da Lucio Dalla e autore di numerose colonne sonore di pellicole italiane, come per esempio quelle di Carlo Verdone – e sua figlia Sara.

“Flee” di Jonas Poher Rasmussen

(Danimarca/Francia/Svezia/Norvegia/Paesi Bassi/UK/USA/Finlandia/Italia/Spagna/Estonia/Slovenia, 2022)

La traduzione del verbo inglese to flee è, nella nostra lingua, fuggire. E la storia che questo bellissimo e durissimo film d’animazione ci racconta è quella lunga e straziante di una fuga dalla propria casa, dal dolore e alla fine anche da se stesso di Amin, un giovane e molto apprezzato docente universitario danese, con un passato da migrante e rifugiato politico.

Amin ha 36 anni e sta per sposarsi col suo compagno, che intende comprare una casa in comune nella campagna presso Copenaghen. E forse è anche per questo, di fronte ad un evento così importante, che Amin sente l’esigenza di raccontare la sua storia, quella vera, e non quella che è scritta nel suo fascicolo.

Così accetta di fare una lunga intervista ad un suo ex compagno delle superiori divenuto nel frattempo un regista, chiaro alter ego di Jonas Poher Rasmussen. Amin è nato negli anni Settanta a Kabul. Durante la sua infanzia in Afghanistan avviene il colpo di stato che porta il Partito Comunista nazionale a prendere il potere. Suo padre, pilota militare, viene epurato e pochi mesi dopo viene arrestato come nemico del popolo.

Tre mesi dopo la famiglia di Amin perde definitivamente le sue tracce, perché l’uomo è letteralmente scomparso nel nulla. Qualche anno dopo la situazione politica dell’Afghanistan cambia nuovamente e le truppe dell’U.R.S.S. che lo avevano invaso iniziano i loro ritiro, lasciando sempre più campo ai talebani armati indirettamente degli Stati Uniti. Col passare del tempo il pericolo di feroci e sanguinarie ritorsioni è concreto, e così la famiglia di Amin decide di lasciare definitivamente il Paese. L’unica nazione disposta a fornire loro un visto turistico è la ex Unione Sovietica che è appena tornata a chiamarsi Russia.

Amin, sua madre, le sue due sorelle e il fratello più grande vengono sistemati in un piccolo appartamento popolare a Mosca, in attesa di raggiungere il fratello maggiore in Svezia, che è anche l’unica fonte di reddito di tutti. E sarà lui, dall’Europa, a contattare e pagare i mercanti di essere umani cercando disperatamente di riunire in Svezia tutta la famiglia.

Intanto, scaduto il permesso di soggiorno, la vita a Mosca diventa terribile perché la corruzione detta legge in ogni ambito pubblico, soprattutto fra la Polizia che va letteralmente a caccia dei migranti clandestini per ricattarli, prendergli i soldi o …la dignità.

Iniziano così per Amin e i suoi cari i cosiddetti i viaggi della “speranza” che si rivelano sempre atroci e terrificanti sfruttamenti di esseri umani che fuggono da situazioni altrettanto tragiche e terribili. Quando, finalmente, Amin ancora minorenne riesce a raggiungere l’Europa, e in particolare la Danimarca, come ordinatogli dall’uomo che lo ha aiutato a viaggiare clandestinamente, racconta a chi lo accoglie che tutta la sua famiglia è stata uccisa in Afghanistan e lui è rimasto solo al mondo…

La storia di Amin (il cui nome è fittizio per tutelarne la privacy e la sicurezza) è una vicenda ancora tragicamente attuale. I nostri mari sono divenuti e continuano a diventare la tomba senza fondo di numerosi esseri umani che tentano di raggiungere la nostre coste con la speranza di poter iniziare una nuova esistenza, fuggendo da una realtà atroce e sanguinaria.

Per non parlare dell’Afghanistan la cui storia attuale ricalca esattamente quella raccontata da Amin e risalente a tre decenni fa. Le immagini delle migliaia di persone in fuga che cercano di seguire disperatamente le truppe americane che si ritirano lasciando il Paese in mano ai talebani, risalgono solo a due anni fa.

Le enormi disparità sociali ed economiche che ancora contraddistinguono il nostro Pianeta sono il motore delle enormi migrazioni umane che hanno come terra promessa soprattutto l’Occidente. Occidente che è al tempo stesso il grande responsabile di tali disparità, e che troppo spesso come unica risposta alza muri e chiude porti.

E per far accettare tale strategia all’opinione pubblica è necessario che i migranti che arrivano siano una massa anonima e informe, da contenere e isolare. Questo film, invece, raccontandoci la storia di un ragazzino ci illumina, rompendo l’ipocrisia della “massa informe” che a tanti fa così comodo per chetare la propria coscienza.

Così, anche nel nostro Paese che ha indiscutibilmente radici cristiane tolleranti e d’accoglienza, c’è ancora chi usa lo spauracchio degli immigrati per i propri scopi politici o economici. Il problema ancora più grave è chi asseconda tali soggetti.

“Flee” ha vinto, giustamente, molti premi in numerose manifestazioni in tutto il mondo fra cui spiccano: il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e tre candidature agli Oscar.

Da vedere e far vedere a scuola.

“A testa bassa” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 1994)

Apparso per la prima volta nella primavera del 1990 sul “The New Yorker” questo “A testa bassa” è uno degli scritti più atipici del Re Stephen King. E’ lui stesso, nella breve introduzione di tre righe, a dircelo.

Il Re ci comunica che quello che stiamo per leggere non è un suo “solito” racconto, ma un saggio. Così ci troviamo sul campo con la squadra di baseball della Bangor West che milita in una delle categorie minori della Little League, la federazione che cura i campionati giovanili americani.

I giocatori della Bangor West hanno tutti fra i dodici e i tredici anni, e rappresentano la scuola omonima che frequentano. Fra questi c’è un ragazzino che a soli tredici anni è già alto abbondantemente sopra il metro e ottanta, si chiama Owen King, ed il padre è uno scrittore di “…una qualche rilevanza”, come ci descrive l’autore stesso.

La Bangor West è arrivata alle finali statali solo molti anni prima, e così nella stagione 1988-1989 non parte certo fra le più favorite, visto poi che sulla carta non ha nessun giovanissimo talento in lista, come invece altre scuole del Maine. Ma il genitore/accompagnatore Stephen King, come d’altronde lo staff tecnico della squadra, intuisce che fra i ragazzi si potrebbe creare quell’alchimia che in campo sportivo può portare molto lontano…

Il Re ci racconta, in maniera travolgente, l’epilogo della stagione sportiva di una squadra giovanile i cui membri si devono dividere fra i compiti, le rispettive dinamiche familiari – alcuni saranno costretti a mancare le partire più importanti per seguire i propri cari in vacanza – e il diamante del campo.

Ma soprattutto King ci racconta l’anima dello sport, quello giocato su campi in pozzolana, rappezzati e al limite del regolamento, da squadre che indossano divise raffazzonate e mangiano panini preparati molte ore prima dai genitori.

E’ fra loro che si può respirare però la purezza dello sport nel senso più alto, dove non ci sono premi in denaro da vincere, ma al massimo un hamburger e delle patatine fritte offerte dal coach dopo la partita. Lo stesso scrittore ci ricorda come, in quegli anni, il mondo auro del baseball professionistico americano di prima grandezza, è stato travolto da scandali e corruzione, un mondo lussuoso dove l’opulenza spesso soffoca il vero spirito sportivo.

Nonostante gli anni, questo “A testa bassa” ancora ci fa riflettere sullo sport contemporaneo, ormai troppo spesso diventato una ricca multinazionale. Ma ogni tanto anche noi, abituati a ingaggi multimilionari di giocatori di calcio (per esempio), rimaniamo incantati dalla performance di un atleta o di una squadra che superano magistralmente tutti gli altri in una disciplina che troppi chiamano ancora “minore”.

Ma il termine “minore” è legato nel nostro Paese soprattutto al giro economico che ruota intorno alla disciplina. E così siamo abituati a considerare “minori” alcuni sport in cui noi italiani furoreggiamo e brilliamo da decenni, come la scherma ad esempio. Ma forse proprio lì, dove girano pochi soli o non ne girano affatto, possiamo ritrovare il vero e sano spirito sportivo che porta un essere umano, anche soli di tredici anni, a mettere piede su un campo o su una pedana e provare a spostare anche solo di un centimetro in avanti i propri limiti.

Questo “saggio” può fare da contraltare al bellissimo “Open – La mia storia” di André Agassi, in cui il campione statunitense ci parla con lucida freddezza degli enormi sacrifici che ha dovuto affrontare per diventare un grande campione.

Da leggere, come tutte le opere del Re.

“Il porto delle nebbie” di Georges Simenon

(Mondadori, 1958)

Pubblicato per la prima volta nel 1932 questo “Il porto delle nebbie” è il quindicesimo romanzo che il maestro Simenon dedica al suo commissario Maigret.

Fra le strade di Parigi viene ritrovato un uomo in evidente stato confusionale. Sulla testa ha una grande cicatrice ben curata, sulla quale i capelli sono stati accuratamente rasati. Ma a parte un cordiale sorriso, l’uomo non sa esprimersi.

Partono così i fonogrammi e i telegrammi in tutto il Paese per verificare se sia una delle persone scomparse denunciate. Ma solo quando la sua fotografia appare sui giornali la Polizia riesce a identificarlo. Si tratta del capitano della marina mercantile Yves Joris, scomparso qualche mese prima dalla piccola località di Ouistreham, che di fatto è il porto Caen, città capoluogo del dipartimento del Calvados in Normandia.

Maigret così lo riaccompagna a casa assieme a Julie, la sua governante e colei che lo ha riconosciuto. Ma proprio la notte del suo rientro Joris viene avvelenato. Per Maigret è una sfida personale nella tragedia: proprio sotto i suoi occhi è stato commesso un crimine ai danni di una persona indifesa e ormai incapace di nuocere a chiunque.

Sotto un cielo cupo, piovoso e tetro si consuma l’inchiesta del commissario che, anche questa volta, dovrà indagare nell’anima dei sospetti, nelle loro debolezze e nei loro più profondi segreti, per scoperchiare la vicenda e individuare il colpevole.

Ma le difficoltà sono molte, a partire dal fatto che lui è un “contadino” – come si auto definisce – che deve impicciarsi e fare domande fra l’insondabile gente di mare che lo osserva sempre con molta diffidenza.

Ouistreham si è sviluppata attorno alla chiusa del “Canal de Caen à la Mer”, da cui passano tutte le imbarcazioni e i mercantili che raggiungono o lasciano il capoluogo del Calvados. E così tutta, o quasi, l’azione del romanzo si consuma intorno ad essa, come nel bellissimo “La casa dei Krull” che Simenon scriverà pochi anni dopo.

“L’uomo che metteva in ordine il mondo” dì Fredrik Backman

(Mondadori, 2014)

Lo svedese Fredrik Backman (classe 1981) è stato l’autore di un blog il cui protagonista era un sessantenne solitario e irascibile. Il blog ha riscosso un di enorme successo tanto da diventare un libro uscito in Svezia nel 2012 e, negli anni successivi, in molti altri paesi.

Ove ha 59 anni e vive da solo nella sua villetta a schiera in una città della Svezia. Molti lo considerano solo un vecchio rompiscatole, burbero e intollerante. Ma la sua vita non è stata sempre così.

Fino a circa sei mesi prima Ove era sposato con Sonja, il suo grande amore e l’unica persona, almeno fino al quel memento, che veramente aveva compreso tutto il suo essere e la sua essenza profonda.

Ma Sonja è stata stroncata da un tumore inesorabile, che ha lasciato Ove ancora più arrabbiato di prima. Quando poi nella società in cui lavora lo obbligano ad andare in pensione, Ove decide di farla finita e raggiungere così la sua tanto amata Sonja.

Ma a rovinare i piani funesti ci pensa Parvaneh, la sua nuova vicina. La donna, di origini iraniane, si è appena trasferita nella villetta accanto assieme a suo marito Patrick e alla sue due figlie e di tre e sette anni, e in grembo ha il terzo genito in arrivo.

L’uragano che si è trasferito nella casa adiacente alla sua costringe così Ove ad accettare di convivere anche con il disordine. L’ordine è stato sempre alla base della sua esistenza, è stata sempre la cosa a cui fare riferimento per non perdere la bussola e la linea dell’orizzonte.

Perché di tempeste Ove, fin da bambino, ne ha dovute affrontare tante. E proprio quando sembrava che l’esistenza non fosse altro che una lunga serie di terribili nubifragi, sulla sua strada è apparsa come in una favola Sonja. Per non parlare poi, molto tempo dopo, del gatto…

Delizioso romanzo che ci racconta, con una narrazione destrutturata, un uomo complicato che ha dovuto affrontare una vita davvero difficile. Ma Backman, come il suo implacabile protagonista, non da spazio a inutili sentimentalismi o a fronzoli emotivi, e con una godibilissima ironia ci disegna l’ottica di un uomo limpido e lineare – purtroppo per lui… – che stenta a integrarsi in una società che limpida e lineare non è.

E non azzardatevi a commuovervi, cazzarola …altrimenti Ove se la prenderebbe!

Da questo romanzo sono stati tratti i film “Mr. Ove” del 2015 diretto da Hannes Holm con Rolf Lassgård, e “Non così vicino” del 2023 di Marc Forster con Tom Hanks.