“A cavallo della tigre” di Luigi Comencini

(Italia, 1961)

In pieno Boom italico, Luigi Comencini porta la sua macchina da presa dentro un carcere fra i detenuti, spesso derelitti, che lo popolano. Per aiutare il proprio avvocato difensore il semianalfabeta Giacinto Rossi (Nino Manfredi) che, suo malgrado, è diventato un “famigerato” fuorilegge, scrive il suo memoriale dando vita al lungo flashback su cui si basa la pellicola.

Solo poco tempo prima era un onesto autista commerciale, ma vista la scarsa paga e le tre bocche da sfamare a casa oltre la sua – la moglie Ileana (Valeria Moriconi) e due bambini – decide di tentare il colpaccio: si ferma nella campagna di Civitavecchia e finge una rapina nella quale i presunti aggressori gli rubano la borsa con dei soldi affidatagli. Ma un pescatore di molluschi assiste casualmente alla scena e lo denuncia.

Giacinto finisce così nella casa circondariale dove, grazie al suo carattere pavido e servile, sbarca le giornate di detenzione cantando o facendo il bucato in cambio si sigarette e, soprattutto, lavorando come aiuto infermiere del medico del carcere.

Proprio questo suo ruolo attira l’attenzione di tre fra i più pericolosi carcerati: gli ergastolani Tagliabue (Mario Adorf) e Papaleo (Gian Maria Volontè), e lo scassinatore con la mani d’oro detto il Sorcio (Raymond Bussières). I tre, infatti, vogliono evadere e hanno bisogno della lima che il medico del carcere (Franco Giacobini) tiene chiusa in un’armadietto dell’infermeria.

La vigliaccheria e la paura di Giacinto saranno vitali per portare a termine l’evasione, che però non finirà come nei piani dei tre…

Scritto da uno dei veri e propri dreamteam della commedia all’italiana: Age, Furio Scarpelli, Mario Monicelli e lo stesso Comencini, questo “A cavallo della tigre” ci racconta in maniera dura e al tempo stesso divertente l’eclissarsi di una parte della nostra società che già allora iniziava a passare di moda: il sottoproletariato. Quando i protagonisti, dopo alcuni anni passati dietro le sbarre, tornano nella grande città non la riconoscono più e, soprattutto, sono turbati dal numero sconcertante delle automobili che in poco tempo si sono triplicate.

Ma tutto verrà masticato e ingurgitato dalla metropoli e dal nuovo corso economico del nostro Paese che certo non ha più tempo da perdere coi …poveracci.

Il titolo si riferisce a un proverbio cinese secondo il quale una volta a cavallo di una tigre è più pericoloso scendere che rimanerci sopra, proverbio che Giacinto riporta riferendosi al suo rapporto con l’irascibile e feroce Tagliabue, ma forse anche a quello con una società che non comprende più e che ormai gli scivola via dalle mani.

Da ricordare, oltre la superba interpretazione di Volontè nei panni di un dotto laureato che per folle gelosia ha ucciso l’amate della sua fidanzata, anche quelle della Moriconi e di Ferruccio De Ceresa nei panni di Coppola, il suo nuovo compagno.

Per la chicca: nei titoli di testa o di coda del film non è accredita, così come nessun articolo relativo al film lo riporta, ma la bambina che Giacinto e Tagliabue fanno scendere da una macchina tentando vanamente di tenere come ostaggio assomiglia tanto a una giovanissima Cristina Comencini.

“Ballando ballando” di Ettore Scola

(Italia/Francia, 1984)

Nel 1982 il maestro Ettore Scola è a Parigi per girare “Il nuovo mondo”. Durante una pausa delle riprese, l’allora Ministro della Cultura dell’esecutivo francese Jack Lang, lo invita a vedere un curioso spettacolo musicale che si tiene in un piccolo teatro nella periferia parigina.

Si tratta di “Le Bal” del Téàtre du Campagnol scritto, diretto e interpretato da Jean-Claude Penchenat. L’azione si svolge in un unico ambiente, una sala da ballo dove con la musica in sottofondo i protagonisti si incontrano in situazioni e dinamiche differenti, sempre senza alcun dialogo.

La rappresentazione affascina Scola soprattutto per due caratteristiche a lui carissime: l’azione che si svolge in un solo ed unico ambiente e lo scorrere del tempo. Decide così di farne un film e chiama i suoi colleghi e amici di sempre Ruggero Maccari e Furio Scarpelli per scrivere la sceneggiatura.

La redazione si rivela molto più complicata del previsto perché, anche se Scola decide rimanere fedele al testo originale senza dialoghi, li mette ugualmente nello script per aiutare gli attori ad interpretare meglio la loro parte che sarà esclusivamente fisica e mimica.

Anche se il cast originale è composto tutto da attori non professionisti, fra cui alcuni docenti e un medico, Scola decide di mantenerli tutti, compreso lo stesso Penchenat, con alcune piccole aggiunte (come Monica Scattini nel ruolo della ragazza miope e Francesco De Rosa in quello del barista) e così inizia a girare a Parigi. Ma dopo circa un mese il regista viene colto da un infarto e la lavorazione sospesa. Riprenderà solo un anno dopo a Roma, negli studi di Cinecittà, dove Scola realizzerà uno dei capolavori del nostro cinema.

Con le musiche di Vladimir Cosma e la consulenza del maestro Armando Trovajoli, viviamo circa cinquant’anni di storia del Novecento attraverso i balli dei solitari frequentatori di una piccola balera di periferia.

Dagli anni Trenta ai primi anni Ottanta osserviamo le povertà e le miserie sentimentali e morali di alcuni appartenenti alla piccola borghesia d’oltralpe (che ovviamente può essere quella di qualsiasi altro paese del mondo) che sperano di terminare e sconfiggere la loro solitudine il sabato pomeriggio ma alla fine, delusi, sono pronti a ritentare la settimana successiva.

Un capolavoro che dimostra come un film nel quale non si pronuncia una sola parola, non è certo un film …”muto”. Da vedere.

Il dvd, negli extra, contiene una preziosa intervista allo stesso Scola sulla realizzazione del film; e nella galleria sono presenti le immagini dei bozzetti realizzati dallo stesso regista prima delle riprese e dai quali è stata presa l’idea per la locandina.