“My Old Lady” di Israel Horovitz

(USA/Francia/UK, 2014)

Il drammaturgo, attore e regista Israel Horovitz (1939-2020), è stato uno degli autori americani più prolifici della seconda metà del Novecento con al suo attivo oltre settanta opere – tradotte e realizzate in più di trenta paesi -, fra cui “Line” che è andata in scena per ben 43 anni consecutivi stabilendo un vero record nei teatri Off-Broadway. Horovitz, per realizzare il suo sogno di autore, lasciò il Massachusetts per New York insieme al suo storico amico John Cazale, che fu il protagonista di molte delle sue prime opere, fra cui “L’indiano vuole il Bronx” che segnò il debutto sul palcoscenico di Al Pacino.

Nel 2014 Horovitz decide di realizzare l’adattamento cinematografico della sua pièce teatrale “My Old Lady”, ambientata a Parigi, città nella quale, insieme a New York, il drammaturgo viveva.

Mathias Gold (un bravissimo Kevin Kline) è un uomo di mezza età solitario e insoddisfatto. Quasi nulla nella sua vita è andato bene, a partire dal rapporto irrisolto e molto doloroso coi suoi genitori che ha inficiato tutto, dal suo ambito sentimentale a quello lavorativo. E così Mathias si ritrova senza un soldo in tasca, o meglio solo con quelli che gli consentono dagli Stati Uniti di raggiungere Parigi, dove c’è la parte di eredità che gli ha lasciato il suo ricco padre morendo qualche settimana prima.

Anche se nella sua infanzia è già stato nella Ville Lumiere, Mathias a stento parla e comprende il francese e così rimane completamente spiazzato quando nella sua nuova grande casa, che intende vendere il più presto possibile, vi trova Mathilde Girard (una sempre brava Maggie Smith) e sua figlia Chloé (Kristin Scott Thomas).

Mathilde, oltre quarant’anni prima, ha venduto a suo padre la grande casa con la clausola “viager”, un antico metodo francese, simile alla nostra “nuda proprietà”, ma che contempla anche il pagamento all’ex proprietario di un affitto mensile vita natural durante.

Se all’inizio Mathias viene preso dall’ira, soprattutto verso suo padre che anche dopo morto lo continua a “perseguitare”, alla fine, proprio grazie alle due donne, comprenderà molta parte della sua passata esistenza…

Struggente e dolorosa pellicola sui drammi e le tragedie che si consumano all’interno della famiglia; quella che invece, almeno sulla carta, i problemi li dovrebbe risolvere. Il cast, davvero eccezionale, riesce a far dimenticare la natura teatrale dell’opera. D’altronde Horovitz non era alieno al cinema visto che nel 1970 scrisse la sceneggiatura dell’indimenticabile “Fragole e sangue” diretto da Stuart Hagmann.

“La strana voglia di Jean” di Ronald Neame

(UK, 1969)

Muriel Spark (1918-2006) è considerata una delle più rilevanti scrittrici scozzesi del Novecento. Nata ad Edimburgo da padre di religione ebraica e madre cristiana, la Spark nel 1954 decide di convertirsi definitivamente al cattolicesimo. Questo suo percorso interiore la porta, dopo alcuni anni come autrice di poesie e di critiche letterarie, a diventare scrittrice di romanzi.

Esordisce così nel 1957 con “The Comforters”, ma è con il sesto romanzo “The Prime of Miss Jean Brodie” che acquista fama internazionale. Tradotto in italiano “Gli anni fulgenti di Miss Brodie” (o anche “Gli anni in fiore della signorina Brodie”) il libro diventa un best seller soprattutto per due motivi: l’originalità della storia narrata la cui protagonista è una donna fuori dal comune, e lo stile caratterizzato da continue destrutturazioni temporali.

Visto il successo del romanzo, la drammaturga americana Jay Presson Allen (autrice di script come “Marnie” o “Cabaret”) decide di farne una pièce teatrale che riscuote un’ottima accoglienza a Broadway, tanto da varcare l’oceano e approdare nei teatri inglesi.

Nel 1969 il regista inglese Ronald Neame gira l’adattamento cinematografico la cui sceneggiatura è curata dalla stessa Presson Allen, e come protagonista nei panni di Miss Jean Brodie ha una straordinaria Maggie Smith, che non a caso vince il suo primo Oscar proprio come miglior attrice protagonista.

Edimburgo 1932, per le alunne della conservatrice “Marcia Blaine School” inizia un nuovo anno accademico. Nel corpo insegnante spicca, ormai da qualche anno, Miss Jean Brodie (Maggie Smith) che con i suoi metodi anticonformisti e anticonvenzionali crea un rapporto profondo e molto stretto con le sue alunne.

Ma Miss Brodie, scopriranno a loro spese proprio le sue ragazze, sotto l’alone romantico e innovatore, nasconde un’anima irrisolta e ambigua, che la porta ad idolatrare e romanzare figure e principi che in realtà sono particolarmente reazionari e conformisti.

Tiene spesso, infatti, lunghe lezioni sul nuovo e volitivo Capo di Stato italiano Benito Mussolini che si fa “opportunamente” chiamare Duce; così come sul “promettente” ufficiale spagnolo Francisco Franco che ha intrapreso una dura battaglia contro i “terroristi” che tentano di dilaniare il suo Paese. E con gli stessi principi reazionari tenta di controllare e programmare subdolamente la vita delle sue studentesse…

Davvero una bellissima e toccante pellicola scritta da donne e che parla di donne, e di uno dei nemici più temibili e subdoli della loro emancipazione: le donne che si dichiarano femministe convinte ma vivono assecondando medievali principi maschilisti.

L’ambientazione locale e temporale non è un caso, visto che la stessa Muriel Spark fino al 1933 frequentò la “James Gillespie’s High School for Girls” di Edimburgo.

Per la chicca: studiosi ed esperti di tutto il mondo, da ormai cinquant’anni, tentano con ogni mezzo scientifico a disposizione di scoprire cosa sia scattato nella testa dei nostri distributori quando scelsero il titolo italico “La strana voglia di Jean” che, oltre a richiamare morbosi pruriti tipici del cinema pecoreccio nostrano, non c’entra un piffero – tanto per rimanere in tema… – col film.

“Milioni che scottano” di Eric Till

(UK, 1968)

Marcus Pendleton (un grande Peter Ustinov) esce, dopo un paio d’anni, dalle regali prigioni di Sua Maestà. Ha scontato la sua pena per truffa aggravata, ad inchiodarlo è stato un famigerato computer, cosa che lui proprio non aveva …calcolato.

Tornato in libertà, Marcus desidera “vendicarsi” dei programmatori elettronici – così si chiamavano allora – preparando una nuova truffa milionaria, ma per realizzarla senza rischi deve diventare un vero e proprio programmatore.

Padrone della programmazione, Marcus ruba l’identità e il curriculum di Caesar Smith (Robert Morley) che, per seguire la sua passione per l’ornitologia, si reca nella foresta fluviale.

Smith/Pendleton viene assunto così come responsabile programmatore presso la sede londinese della società americana Tacanco, il cui Vice Presidente Esecutivo Carlton J. Kempler (Karl Malden) rimane subito colpito dalle sue capacità. Solo Willard C. Gnatpole (Bob Newhart), secondo Vice Presidente dell’azienda, nutre dei sospetti sul nuovo assunto.

Una mattina, nel suo ufficio, Marcus trova la sua nuova segretaria: Patty Terwillinger (un’avvenente e prosperosa Maggie Smith) la sua goffa e pasticciona vicina di casa, che lo conosce come Mr. Pendleton…

Scritta dallo stesso Ustinov assieme a Ira Wallach, questa deliziosa commedia possiede un cast davvero straordinario. Oltre a Ustinov e la Smith – già allora notissimi attori shakespeariani – spiccano Karl Malden, fra i più conosciuti caratteristi di Hollywood, e Bob Newhart che molti decenni dopo impersonerà Arthur Jeffries, il professor Proton, vero e proprio feticcio del mitico Sheldon Cooper in “The Big Bang Theory”.

In piena “Swinging London”, hanno fatto epoca le lunghissime e sinuose gambe della Smith, allora già vincitrice di un premio Oscar, che poi impersonerà Minerva McGranitt nella saga di Harry Potter.

E, a proposito di Oscar, la pellicola viene candidata per la Miglior Sceneggiatura Originale.

“The Lady in the Van” di Nicholas Hytner

(UK, 2015)

Alan Bennett è uno dei più noti scrittori e drammaturghi inglesi contemporanei, e alcuni dei suoi libri sono diventati ottimi film, come “La pazzia di Re Giorgio” o “La signora nel furgone”. Ma a differenza del primo, questo è incentrato su una storia vissuta direttamente dall’autore.

Agli inizi degli anni Settanta Alan Bennett (un bravissimo Alex Jennings), grazie al successo dei suoi scritti e delle sue opere teatrali, può acquistare una bella casa nell’elegante e molto modaiolo quartiere di Camden, al centro di Londra.

Quello che Bennett ignora però, è che nelle sua strada molto chic, vive un’attempata senza tetto, tale Miss Mary Shepherd (una grande Maggie Smith). In realtà la signora non è proprio senza un tetto sulla testa, visto che vive in un vecchio e arrugginito furgone, che parcheggia in strada e sposta a cadenza trimestrale.

Miss Shepherd è tollerata più o meno da tutti nel quartiere, anche se è una vera e propria bisbetica brontolona. Una mattina però la donna viene presa dal panico: degli operatori del Comune iniziano a dipingere accanto al marciapiede le strisce gialle che vietano il parcheggio.

Bennett, che con la signora ha instaurato un rapporto molto formale ma al tempo stesso colmo di affetto, si offre di ospitare il furgone nel suo vialetto. Miss Shepherd rimarrà a casa di Bennett per oltre quindici anni. E solo alla fine del loro rapporto lo scrittore scoprirà la vera storia tormentata della donna.

Bella commedia intimista, con due attori in stato di grazia, che ci racconta come la vita – e troppo spesso anche l’integralismo religioso – possano essere crudeli.

Da sottolineare, nella nostra versione, il doppiaggio di Jennings/Bennett eseguito da un eccezionale Roberto Chevalier, soprattutto nei dialoghi (geniali!) che il protagonista ha con se stesso.

Da vedere.

“California Suite” di Herbert Ross

(USA, 1978)

In alcune lussuose suite di un grande albergo di Beverly Hills si consumano le più basse, dure ma anche divertenti miserie umane di alcuni suoi ospiti. Neil Simon firma la sceneggiatura di questo ennesimo adattamento di una sua opera teatrale diretto da un grande artigiano del cinema come Herbert Ross.

Hannah (una splendida, in tutti i sensi, Jane Fonda) e il suo ex marito Bill (Alan Alda) si incontrano dopo quasi dieci anni dal divorzio, per discutere l’affidamento dell’ultimo anno da minorenne della loro unica figlia Jenny (Dana Plato).

Diana Barrie (una strepitosa Maggie Smith, che vincerà l’Oscar come miglior attrice non protagonista, il secondo nella sua lunghissima carriera) arriva a Los Angeles per partecipare alla notte degli Oscar, è la favorita per la statuetta come miglior attrice non protagonista (il fato è sempre il fato…). Ad accompagnarla c’è suo marito Sidney Cochran (un forse ancora più bravo Michael Caine) ex attore e ora antiquario, con il quale ha un lungo e problematico rapporto personale. Nonostante tutto Sidney sarà l’unico capace di raccogliere i pezzi di Diana sconfitta alla cerimonia…

Marvin (un irresistibile, come sempre, Walter Matthau) arriva a Beverly Hills per la prima comunione del figlio di suo fratello Harry (Herb Edelman). Marvin non viaggia mai in aereo assieme alla moglie Millie (una grande Elaine May) per paura di rendere con un solo incidente i loro figli orfani. Così lei lo raggiungerà il giorno dopo, qualche ora prima della cerimonia. La sera i due fratelli la passano ricordando i bei vecchi tempi e quando Marvin torna alticcio nella sua suite ci trova una sorpresa di Harry: una escort (che allora si chiamavano squillo). Il problema arriva la mattina dopo quando Marvin si sveglia accanto alla ragazza, ancora totalmente ubriaca, mentre alla porta bussa Millie…

I medici Gump (Richard Pryor) e Panama (Bill Cosby), colleghi di ospedale a Chicago, con le rispettive consorti stanno passando gli ultimi giorni di una vacanza insieme. I numerosi piccoli incidenti avvenuti nel corso delle ferie hanno fatto venire a galla la grande competizione fra i due dottori che esplode incontenibile quando la prenotazione della suite dei coniugi Gump non risulta. Mentre i Panama si godono la loro splendida suite, i Gump devono passare la notte in una piccola e allagata camera di servizio…

I vari episodi non sono così nettamente divisi, ma temporalmente incastrati uno dentro l’altro. L’ordine è quello dal più drammatico a quello più comico. Tutti gli attori dimostrano indiscutibilmente la loro bravura recitando un testo che non perde smalto col passare degli anni.

“In viaggio con la zia” di George Cukor

(USA, 1972)

George Cukor è rimasto nella storia del cinema come uno dei più grandi narratori di donne di sempre. Le sue muse sono state dive come Greta Garbo, Kathrine Hepburn, Elizabeth Taylor, Marilyn Monroe, Ava Gardner, Rita Hayworth, Audrey Hepburn, Ingrid Bergman o Jane Fonda. E nel 1972 racconta quella assai originale di Augusta, protagonista del romanzo “In viaggio con la zia” di Graham Greene. Come protagonista sceglie Maggie Smith, notissima attrice di teatro inglese e già vincitrice dell’Oscar come miglior attrice per “La strana voglia di Jane” nel 1970.

Al solitario funerale della madre dell’austero direttore di banca Henry (Alec McCowen) arriva una strana e invadente signora anziana. E’ Augusta (Maggie Smith) che si presenta come la sorella della deceduta, e quindi zia di Henry. In poche ore la vetusta signora convince il nipote a seguirla a Parigi dove deve sbrigare certi affari poco chiari. Nella metropoli francese Henry conosce Wordsworth (Louis Gossett Jr.) amico intimo della donna, che gli confida che Augusta è in cerca di centomila dollari per salvare la vita a Visconti (Robert Stephens), suo antico primo amore.

La caccia ai soldi porta zia e nipote in giro per il mondo e, durante i lunghi spostamenti, Augusta racconta al nipote i fatti cruciali della sua lunga – e …discutibile – esistenza fatta soprattutto di amore e incoscienza. Alla fine i due riusciranno a trovare quello che hanno sempre cercato …anche senza saperlo?

Agli spettatori l’ardua sentenza, visto che io non spolirezzo. Deliziosa e ironica commedia sopra le righe con una Maggie Smith fascinosa e carnale come poche.

Per la chicca: Robert Stephens, l’attore che interpreta Visconti, è stato il primo marito della Smith, suo compagno – durante il loro matrimonio – di palcoscenico e anche di set.