“Matrimonio in quattro” di Ernst Lubitsch

(USA, 1924)

Ernst Lubitsch (1892-1947) è considerato giustamente il padre fondatore della sophisticated comedy hollywoodiana che toccherà il suo apice negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, e che definirà il genere commedia nei decenni successivi. Nato a Berlino e figlio di un sarto, Lubitsch già adolescente si innamora del palcoscenico e decide di fare l’attore comico. Nel 1912 approda al cinema come apprendista e dall’anno successivo recita ruoli in alcune commedie di successo che gli iniziano a dargli una certa popolarità.

Intanto comincia a scrivere delle sceneggiature e nel 1918 esordisce dietro la macchina da presa col film “Gli occhi della mummia” che, a dispetto del genere per cui verrà ricordato nella storia del cinema, è un dramma. E’ nel 1919 che Lubitsch acquista notorietà internazionale con la commedia graffiante e ironica “La principessa delle ostriche”, dove interpreta anche una piccola parte.

All’inizio degli anni Venti si reca negli Stati Uniti per promuovere il suo film “Das Weib des Pharao”. Hollywood non si lascia scappare uno dei registi più sofisticati mitteleuropei e così viene assunto per dirigere due film: “Rosita” con Mary Pickford – allora star di prima grandezza – nel 1923 e “Un matrimonio in quattro” l’anno successivo.

Ed è soprattutto con quest’ultimo che Lubitsch pone la basi della grande sophisticated comedy americana. Grazie alla sua strepitosa regia – che ancora oggi viene studiata nelle scuole di cinema di tutto il mondo – Lubitsch crea un’atmosfera leggera ma la tempo stesso colma di allusioni, soprattutto sessuali, metafore e satira pungente che porta lo spettatore a seguire i protagonisti fino all’ultimo fotogramma, nonostante la totale assenza del sonoro che verrà collaudato solo tre anni dopo.

I passaggi e i movimenti seguono gli attori che si muovono nelle scenografie come se la macchina da presa fosse la partecipante ad uno dei classici e opulenti balli che in quegli anni si tenevano nell’Europa più altolocata. Lubitsch diventa quindi il più grande narratore di quell’idea decadente del vecchio continente che sogna e immagina il pubblico americano.

Così se Eric von Stroheim, negli stessi anni, racconta agli Stati Uniti in maniera più lucida e cruda la decadenza morale dell’Europa che inesorabilmente sta andando verso la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, Lubitsch la descrive con i toni classici della commedia colmi di ironia e satira.

Non è un caso quindi che la pellicola si svolga a Vienna, e non solo per rispettare l’opera originale.
Il Dottor Josef Stock (Adolphe Menjou) è stanco del suo matrimonio con Mizzi (Marie Prevost) e cerca in ogni modo di trovare una scusa per poter divorziare. Quando Charlotte Braun (Florence Vidor) le presenta suo marito il Dottor Franz Braun (Monte Blue) Mizzi se ne invaghisce subito e tenta in ogni modo di sedurlo. Ma Franz è perdutamente innamorato di Charlotte, anche se…

La sceneggiatura è scritta da Paul Bern ed è tratta dalla commedia teatrale – che ricorda in toni molto più leggeri “Girotondo” di Arthur Schnitzler – “Soltanto un sogno” di Lothar Schmidt (1862-1931) con una classica e intricata trama a base di equivoci e malintesi amorosi tipica dell’operetta, che però il regista tedesco riesce a trasformare superbamente in una pellicola divertente e graffiante che castiga i vizi e le ipocrisie dell’alta borghesia, non solo quella austriaca. Lubitsch girerà nel 1931 un’ottima versione sonora, sempre tratta dall’opera di Schmidt, con Maurice Chevalier come protagonista e come aiuto regista un giovane, e non accreditato, George Cukor.

Per comprendere al meglio l’impatto di Lubitsch nel cinema contemporaneo e la sua eredità in quello a lui successivo, basta rileggere ciò che uno dei suoi giovani assistenti, che molti considerano giustamente il suo erede, disse di lui in varie interviste.

Nel bellissimo “Conversazioni con Billy Wilder” di Cameron Crowe, per esempio, è lo stesso Wilder a raccontarci come Lubitsch fosse un regista quasi maniacale e che per ogni scena studiasse le soluzioni migliori e più incisive anche per i particolari meno rilevanti, sempre per rendere ogni fotogramma ricco di ironia e allusioni. Per questo lo stesso Wilder, divenuto sceneggiatore e regista, per risolvere problemi di scrittura o dubbi dietro la macchina da presa si chiedeva sibillino: “…Come la farebbe Lubitsch?”

“La costola di Adamo” di George Cukor

(USA, 1949)

Eccoci davanti ad uno dei film più importanti del Novecento. Si tratta di una delle più classiche sophisticated comedy di Hollywood, ma non solo. E’ al tempo stesso anche uno dei capostipiti del genere “court room drama”, ma soprattutto è uno dei primi grandi film incentrati sulle differenze sociali fra uomo e donna.

Differenze che non sono quelle solite stereotipate, dove fin troppo spesso l’uomo “ha sempre ragione”. Ma sono quelle fra i diritti e i doveri legali e sociali dei due sessi, che vedono da secoli soccombere sempre la donna.

In un’afosa giornata newyorkese seguiamo l’impacciata Doris Attinger (una deliziosa Judy Holliday) seguire furtivamente suo marito Warren Attinger (Tom Ewell) mentre esce dall’ufficio per recarsi nell’appartamento della sua amante. Lì Doris lo raggiunge e gli spara contro alcuni colpi di rivoltella.

L’evento – che, fortunatamente, grazie alla scarsa mira della signora Attinger ha lasciato solo ferito il signor Attinger – attira l’attenzione di tutto il Paese. Il caso viene affidato al capace vice procuratore Adamo Bonner, (un bravissimo Spencer Tracy) che già si sente in tasca la condanna della Attinger.

Proprio a causa delle discussioni casalinghe sul caso avute col marito Adamo, Amanda Bonner (una splendida e volitiva Katherine Hepburn) decide di accettare la difesa della Attinger. Così, con l’apertura del processo, si inaugura anche uno scontro epico e senza esclusione di colpi fra i due coniugi che va ben oltre il tentato omicidio del signor Attinger, visto che Amanda è decisa a dimostrare in aula tutta l’oppressione sociale, fatta di pregiudizi e subdolo maschilismo, che opprime le donne.

Ma attenzione: Adam Bonner non è certo il classico maschilista ottuso. Il vice procuratore, infatti, è un uomo che ama, rispetta e conosce molto bene le donne…

Strepitosa pellicola firmata da uno dei maestri indiscussi di Hollywood e interpretata da un cast davvero stratosferico. Oltre alla immortale coppia Tracy-Hepburn, il film ospita le deliziose interpretazioni della grande Judy Holliday (doppiata superbamente nella nostra versione da Rina morelli) e di Tom Ewell, che verrà definitivamente consacrato a star della commedia qualche anno dopo interpretando “Quando la moglie è in vacanza” del maestro Billy Wilder.

Scritto dalla coppia di drammaturghi e sceneggiatori Garson Kanin e Ruth Gordon (che conobbe il successo anche come attrice, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta in film come “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York“ di Roman Polanski o “Harold e Moude” di Hal Ashby) che si ispirarono ad un fatto di cronaca davvero accaduto in quegli anni i cui protagonisti furono due avvocati che divorziarono per poi sposarsi coi rispettivi clienti, “La costola di Adamo” è un film incredibilmente attuale. Da ricordare anche la splendida canzone “Amanda”, che il vicino di casa compositore dedica alla protagonista, firmata da Cole Porter.

Il Italia il film venne distribuito solo nel gennaio del 1951. E se pensiamo che il voto alle donne venne concesso nel nostro Paese solo cinque anni prima, alla sua uscita più che una commedia, molte persone lo avranno scambiato sicuramente per un film di …fantascienza.

“Scandalo a Filadelfia” di George Cukor

(USA, 1940)

Per quanto mi riguarda questa è una delle migliori sophisticated comedy della storia del cinema, di cui i maestri indiscussi sono stati Ernst Lubitsch e, appunto, George Cukor.

Basato sulla commedia teatrale di Philp Barry, con l’ottima sceneggiatura per il grande schermo firmata da Donald Ogden Stewart, “Scandalo a Filadelfia” possiede un cast fra i più affiatati e scintillanti di quegli anni. A partire da Cary Grant, per passare a Katharine Hepburn e arrivando a James Stewart, include anche una serie di grandi caratteristi di Hollywood (come Ruth Hussey, Mary Nash e Ronald Young i cui nomi magari dicono poco, mentre troviamo molto familiari i loro volti) tutti diretti magistralmente da Cukor.

La Filadelfia del titolo è quella delle grandi famiglie dell’upper class americana, che oltre ad ingenti patrimoni hanno dalla loro la “storia”. Sono fra quelle più antiche della città, simbolo dell’Indipendenza dal Regno Unito e quindi faro ed esempio per tutte le altre.

Non è un caso, quindi, che oltre cinquant’anni dopo il primo vero film hollywoodiano di denuncia sulla discriminazioni subite dagli omosessuali affetti dall’HIV (e non) venne ambientato in quella città, simbolo di di tutto il Paese, prendendone anche il titolo: “Philadelphia” di Jonathan Demme, appunto.

Ma torniamo al film di Cukor: proprio per mantenere immacolata la reputazione della sua storica famiglia, Tracy Lord (la Hepburn) decide di non invitare il padre alle sue seconde nozze. Seth Lord (John Halliday) poco tempo prima infatti ha lasciato suo moglie Margaret (Mary Nash) per una giovane e avvenente ballerina, suscitando l’ira incontenibile della figlia maggiore Tracy.

Il giornale scandalistico “Spy” ha in mano un servizio rovente su Seth e la sua amante, e per avere l’esclusiva sul matrimonio di Tracy, ricatta il suo primo marito C.K. Dexter Heaven (Cary Grant) o lui permetterà a un giornalista e una fotoreporter di intrufolarsi come falsi amici alle nozze, o il servizio su Lord senior verrà pubblicato.

Così, il giorno prima delle nozze, arrivano nell’immensa tenuta dei Lord C.K., Macaulay Connor (James Stewart) ed Elizabeth Imbrie (Ruth Hussey). Ma…

Con dialoghi ancora oggi memorabili, soprattutto fra Grant e la Hepburn (forse al massimo del suo fascino) il film viene candidato a sei Oscar: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. La Hepburn viene candidata come migliore attrice protagonista, mentre Stewart e la Hussey come miglior attore e attrice non protagonista. A portare a casa la statuetta saranno solo James Stewart e Donald Ogden Stewart per lo script.

“In viaggio con la zia” di George Cukor

(USA, 1972)

George Cukor è rimasto nella storia del cinema come uno dei più grandi narratori di donne di sempre. Le sue muse sono state dive come Greta Garbo, Kathrine Hepburn, Elizabeth Taylor, Marilyn Monroe, Ava Gardner, Rita Hayworth, Audrey Hepburn, Ingrid Bergman o Jane Fonda. E nel 1972 racconta quella assai originale di Augusta, protagonista del romanzo “In viaggio con la zia” di Graham Greene. Come protagonista sceglie Maggie Smith, notissima attrice di teatro inglese e già vincitrice dell’Oscar come miglior attrice per “La strana voglia di Jane” nel 1970.

Al solitario funerale della madre dell’austero direttore di banca Henry (Alec McCowen) arriva una strana e invadente signora anziana. E’ Augusta (Maggie Smith) che si presenta come la sorella della deceduta, e quindi zia di Henry. In poche ore la vetusta signora convince il nipote a seguirla a Parigi dove deve sbrigare certi affari poco chiari. Nella metropoli francese Henry conosce Wordsworth (Louis Gossett Jr.) amico intimo della donna, che gli confida che Augusta è in cerca di centomila dollari per salvare la vita a Visconti (Robert Stephens), suo antico primo amore.

La caccia ai soldi porta zia e nipote in giro per il mondo e, durante i lunghi spostamenti, Augusta racconta al nipote i fatti cruciali della sua lunga – e …discutibile – esistenza fatta soprattutto di amore e incoscienza. Alla fine i due riusciranno a trovare quello che hanno sempre cercato, …anche senza saperlo?

Agli spettatori l’ardua sentenza, visto che io non spolirezzo mai. Deliziosa e ironica commedia sopra le righe con una Maggie Smith fascinosa e carnale come poche.

Hai capito il buon vecchio Silente: e chi se l’ha aspettava a una giovane Minerva McGranit così sensuale e vempirona… e bravo Albus!

Per la chicca: Robert Stephens, l’attore che interpreta Visconti, è stato il primo marito della Smith, suo compagno – durante il loro matrimonio – di palcoscenico e anche di set.