“Vasco Rossi – Il Supervissuto” di Pepsy Romanoff

(Italia, 2023)

Che Vasco Rossi sia uno dei più grandi artisti italiani, e non solo, degli ultimi quattro decenni è ormai un dato di fatto. E non sono certo il primo né l’unico a sottolineare che geniale musicista ed interprete sia, visto che le sue canzoni attraversano gli anni e le epoche a cavallo di due secoli – …e due millenni – rimanendo sempre fresche, struggenti e attuali.

Ma con questa docuserie scritta da Igor Artibani, Guglielmo Arie e lo stesso Pepsy Romanoff (Giuseppe Domingo Romano) in cinque puntate da circa 50 minuti ciascuna, Vasco ci racconta, forse come non è mai accaduto prima, la sua storia artistica e personale, grazie anche a filmati originali che appartengono al suo archivio privato. Nato a Zocca agli inizi degli anni Cinquanta, un ridente comune dell’Emilia-Romagna in provincia di Modena, già nel 1960 il piccolo Vasco sale su un palco per cantare. Nel minuscolo cine-teatro della cittadina, infatti, fa tappa un concorso musicale per giovani talenti molto simile allo Zecchino d’Oro.

A neanche dieci anni Vasco vince il concorso itinerante e inizia ufficialmente la sua carriera artistica. Sua madre, una giovane casalinga, e suo padre che di mestiere fa il camionista assecondano senza remore le inclinazioni del figlio, e così Vasco può vivere al meglio il suo amore incondizionato per la musica.

Negli anni Sessanta, sulla scia della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, anche in Italia si formano numerosissime band, e Vasco ne crea diverse fino ad approdare, agli inizi degli anni Settanta, nel mass media che segnerà la cultura contemporanea: la radio. Anche se nel nostro Paese solo la RAI poteva trasmettere in modulazione di frequenza, nascono piccole radio private quasi ovunque e Vasco, insieme a un manipolo di storici amici, ne crea una che in breve tempo diventa il “punto” di riferimento delle nuove generazioni della zona.

Visto il successo della piccola emittente, Vasco viene chiamato come DJ nei locali più “in” della regione, ma la sua passione per la musica da scrivere e poi da interpretare aumenta fino a portarlo ad incidere il primo disco, prodotto da uno storico impresario del liscio. Oltre al vinile, per Vasco diventa sempre più importante esibirsi su un palco assieme alla sua band, e così nel 1978 inizia – in piccoli locali e piazze cittadine – la carriera professionistica del più grande e longevo rocker italiano che passa però anche per momenti duri e senza sconti, come la tossicodipendenza o il carcere per possesso di cocaina.

Ma nel corso delle cinque puntate Vasco ci racconta bene come abbia saputo sempre rialzarsi e affrontare la vita a viso aperto, rimanendo sempre fedele a se stesso e al suo pubblico, passando spesso momenti terribili fra lutti, depressioni e malattie.

Bellissimo e sincero ritratto di un fenomenale artista musicale che è anche un grandissimo maestro della parola cantata, che forse non trova paragoni neanche fra gli scrittori “ufficiali” suoi contemporanei per la maniera in cui riesce a raccontare se stesso e la nostra società, le nostre paure, i nostri sogni e i nostri miseri difetti.

Un grande autore che ha fra i suoi amici più cari Valentino Rossi come don Luigi Ciotti, e che come pochi disegna superbamente il nostro Paese e che, sapendolo, ci canta ironico e sornione: “…e menomale che non mi chiamo Mario”.

Da vedere, così come è da ascoltare tutta la sua musica.

“Irresistibile” di Jon Stewart

(USA, 2020)

Sono appena passate le elezioni presidenziale statunitensi del 2016 e salire alla Casa Bianca, smentendo la maggior parte dei sondaggi, è il repubblicano Donald Trump che ha battuto la democratica Hilary Clinton data da tutti la strafavorita.

Il consulente e stratega della campagna del Partito Democratico Gary Zimmer (Steve Carell) è ovviamente devastato e depresso. Ma nel pieno e vincente stile “americano” e soprattutto di Washington, Zimmer decide subito di ripartire e trovare il mondo di riportare un democratico al 1600 di Pennsylvania Avenue. E per farlo deve inesorabilmente ripartire dalla base.

Così, quando un giovane stagista gli mostra un video postato sulla rete in cui un ex marines parla di tolleranza e unità durante l’assemblea nel piccolo municipio di Deerlaken, un’altrettanto piccola località del Wisconsin, Gary Zimmer è certo di aver ritrovato il bandolo della matassa.

L’uomo nel video è Jack Hastings (Chris Cooper), un ex colonnello che ora assieme alla giovane figlia Diana (Mackenzie Davis) gestisce la sua fattoria. Il Wisconsin è uno stato perlopiù agricolo, e Hastings quindi lo incarna in pieno, ma soprattutto il Wisconsin è uno dei famigerati stati “incerti”, quelli che non hanno storicamente una tradizione democratica o repubblicana, e così spesso diventano un imprevedibile ago della bilancia nelle elezioni presidenziali.

Zimmer parte subito per Deerlaken dove intende convincere Hastings a candidarsi come sindaco democratico contro l’attuale primo cittadino repubblicano. L’ex marines è restio, ma alla fine accetta ad una condizione: che sia direttamente Zimmer ad occuparsi della campagna.

La permanenza del responsabile delle campagne elettorali dei Democratici a Deerlaken non può che attirare l’attenzione di Faith Brewster (Rose Byrne) sua omologa del partito Repubblicano che immediatamente corre a Deerlaken anche lei. In poche ore i due vengono raggiunti dal grande circo mediatico televisivo che pone all’attenzione dell’intero Paese l’elezioni municipali della piccola cittadina rurale. Ma…

Il poliedrico Jon Stewart scrive e dirige questa sfiziosa e caustica commedia ambientata nel dispotico e spietato mondo delle campagne elettorali fatto di sondaggi, proiezioni, studi sociali e attente analisi – molto spesso non autorizzate e illegali – sul web, che troppo spesso si scordano che alla fine gli elettori sono esseri umani, con i loro vizi e le loro debolezze.

E ci ricorda in maniera graffiante come la televisione, che può creare miti e fenomeni nel giro di ventiquattro ore, non solo può disintegrarli in un tempo ancora più breve, ma può essere sapientemente manipolata.

Di quanto la televisione influisca direttamente nella politica poi, noi italiani, ne sappiamo qualcosa…

“Yoga” di Emmanuel Carrère

(Adelphi, 2021)

Emmanuel Carrère è per me l’autore di uno dei libri più affascinanti e al tempo stesso terribili e inquietanti degli ultimi decenni come “L’avversario“, pubblicato per la prima vota nel 2000. Amo molto il suo modo di scrivere e raccontare le vicende e le storie degli altri. E così ho iniziato assai curioso la lettura di questo suo recente libro dove la storia narrata è, invece, la sua.

Il libro sostanzialmente è diviso in due parti, la prima è quella in cui ci racconta la nascita e lo sviluppo del suo rapporto decennale con lo yoga e la meditazione in generale. Il suo approcciarsi alla disciplina orientale quasi per caso fino a divenire un assiduo frequentatore di corsi e seminari sparsi in tutto il mondo, soprattutto da quando il pensiero orientale lo ha aiutato a trovare un equilibrio personale.

La seconda inizia proprio durante un seminario fra le montagne, dove era assolutamente proibito avere contatti col mondo esterno così come con gli altri partecipanti, ma nonostante ciò Carrére viene travolto dalla realtà e soprattutto dalla parte più oscura e abissale del proprio essere. Nei giorni in cui lui era immerso nella natura a meditare, due terroristi legati ad Al-Quaeda entrano nella redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” a Parigi e, armati di Kalasnikov, uccidono 12 persone e ne feriscono altre 11.

Carrère viene colpito profondamente dalla tragedia sia perché da ragazzo era un assiduo lettore del giornale satirico, sia perché conosceva e frequentava direttamente più di una delle vittime. Il ritorno brusco a una realtà violenta contribuisce a far vacillare l’equilibrio dello scrittore che lentamente, ma inesorabilmente, inizia a precipitare nel baratro della depressione, con la quale da sempre ha dovuto combattere.

Grazie a sua sorella viene ricoverato in una clinica parigina specializzata, dove però i farmaci non sembrano sortire l’esito sperato e così ai medici non rimane altro che la terapia elettroconvulsivante, una volta chiamata elettroshock. Fortunatamente per lui, e anche per noi lettori, le sedute di questa dura cura alla fine funzionano e riescono a ridare a Carrère una certa stabilità – grazie anche al supporto di nuovi farmaci – che gli permette di terminare il libro dedicato allo yoga, che da tempo aveva in mente.

Un viaggio crudo e doloroso in una patologia, come la depressione – termine naturalmente generico e superficiale per una malattia che ha invece numerose sfaccettature e intensità – la cui causa per lo scrittore rimane “sconosciuta”. Perché la vita di Carrère, sottolinea a se stesso come a noi lettori, è stata fortunata e piena di successi, anche economici, oltre che di affetti.

Non certo come quella di alcuni giovani migranti minorenni a cui lui stesso propone un corso di scrittura creativa mentre sono “ospiti”, in Grecia, in un centro di accoglienza per profughi in attesa di essere “ridistribuiti” in Europa.

E, guardando quei ragazzi che hanno dovuto lasciare tutto e vivere spesso esperienze terrificanti per raggiungere le porte del nostro continente in cerca solo di sopravvivere – come ci ha raccontato superbamente Matteo Garrone nel suo splendido “Io Capitano” – Carrère si chiede se davvero quella che per loro rappresenta la “Terra Promessa” alla fine non li tradirà lasciandoli soli senza speranza e senza dignità – come si è sentito lui, anche se per ragioni completamente diverse, travolto dalla depressione – rendendoli facili prede di fanatici e subdoli terroristi.

Tragicamente attuale.

“La Taverna di mezzanotte – Tokyo stories vol. 7 ” di Yaro Abe

(Bao Publishing, 2023)

Eccoci nuovamente, per la settima volta, nella taverna più originale e affascinante di Tokyo.

Nel quartiere di Shinjuku, nei pressi dell’omonima stazione, il nodo ferroviario più trafficato al mondo, tutti i giorni – o meglio tutte le notti – c’è un piccolo ristorante che apre da mezzanotte alla sette del mattino. Il proprietario, chef e allo stesso tempo cameriere, è un taciturno uomo di mezza età con una vistosa cicatrice sull’occhio destro.

Al muro del piccolo locale è affisso il menu fisso, ma lo chef è disponibile a cucinare qualsiasi cosa i clienti desiderino a patto di avere gli ingredienti o che gli stessi avventori li forniscano. E così, gli invitanti aromi ed effluvi del cibo preparato e servito nella taverna, non solo aprono lo stomaco dei clienti ma anche la loro anima: per ogni ricetta preparata lo chef ci racconta la storia di uno o più dei suoi clienti che, nel bene o nel male, ha uno snodo proprio dentro al suo locale e grazie o a causa ad un piatto lì elaborato.

Come nella vita, però, non tutte le storie finiscono bene e non sempre il lieto fine chiude la vicenda. Tanto che a volte alcuni clienti decidono di non mangiare più, per il resto della loro esistenza, una pietanza alla quale invece prima erano profondamente legati proprio perché ricordava loro una persona o un evento fondamentale nella loro vita. Yaro Abe ci sottolinea, se davvero ce ne fosse bisogno, che lo stomaco forse non sarà importante come il cervello, ma è lui spesso a indirizzarci nei bivi della vita.

Come gli altri tomi della serie dedicata alla Taverna, anche questo – in cui si parla pure di rugby, sport molto amato nella terra del Sol Levante – è da leggere e “assaporare” fino all’ultima pagina, e non è necessario aver letto tutte le passate ricette per goderselo a pieno. Anche se io le consiglio caldamente.

Su Netflix è disponibile la serie giapponese “Midnight Diner: Tokyo Stories” deliziosa e saporita come il manga da cui è tratta. Abe, nel corso degli anni, ha pubblicato anche: “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.1“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.2“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.3” e “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.4“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.5“, “La Taverna di mezzanotte – Tokyo Stories vol.6“.

“Racconti fantastici” di Daniele D’Anza e Biagio Proietti

(Italia, 1979)

Sulla scia del grande successo di numerosi sceneggiati televisivi realizzati – fra cui spicca senza dubbio lo storico “Il segno del comando” – Daniele D’Anza (1922-1984), insieme al suo collaboratore Biagio Proietti (1940-2022) propone alla RAI uno vero e proprio omaggio al grande Edgar Allan Poe, anche per farlo conoscere meglio alle nuove generazioni.

Ispirandosi liberamente ai suoi racconti più famosi, D’Anza e Proietti scrivono, attualizzandoli, quattro episodi che ruotano intorno e dentro alla gotica e oscura casa Usher – e allo splendido racconto “La caduta della casa degli Usher” – il cui padrone di casa, Roderick Usher (interpretato la Philippe Leroy) è il filo conduttore e unico personaggio ricorrente in tutti gli episodi.

Nel primo “Notte in casa Usher” – ispirato soprattutto ai racconti “Ritratto ovale” e “Il cuore rivelatore”, con un palese riferimento anche a “Manoscritto trovato in una bottiglia” – un giudice (Gastone Moschin) e un assassino (Vittorio Mezzogiorno) persi nella nebbia arrivano a casa Usher chiedendo ospitalità. Roderick la offre loro, ma la casa, così come il suo padrone, nascondono un terribile segreto che riguarda la compianta signora Usher (Maria Rosaria Omaggio). L’atmosfera e l’opprimente presenza della defunta costringeranno i due ospiti ad affrontare il lato più oscuro di loro stessi…

Nel secondo “Ligeia forever” – tratto dal racconto “Ligeia” con chiari richiami anche al romanzo “Rebecca, la prima moglie” di Daphne du Maurier – Roderick, osservando un vecchio grammofono abbandonato in un’ala della casa chiusa da decenni, con la mente torna indietro ai tempi in cui era suo padre Robert Usher (Umberto Orsini) il padrone della grande casa, nella quale aveva organizzato una festa in onore del debutto nel cinema sonoro della grande Ligeia (Dagmar Lassander) stella di prima grandezza della Hollywood del muto, che lui segretamente aveva sposato. Ma la voce originale della donna proprio non piacque al pubblico che sghignazzò rumorosamente alla prima. Ligeia, saputolo, si avvelenò morendo fra le braccia del marito. Sei anni dopo Robert torna a casa Usher con la sua nuova e giovane moglie Morella (Silvia Dionisio) che però deve scontrarsi con il ricordo ingombrante, opprimente e molto concreto della prima signora Usher…

Il terzo è “Il delirio di William Wilson” – tratto dal quasi omonimo “William Wilson” – in cui il protagonista (impersonato da Nino Castelnuovo) che è un pilota di automobili collaudatore di prototipi, arriva disperato a casa Usher dove confessa a Roderick di essere inseguito da un essere implacabile. Il padrone di casa lo ospita, vista poi la relazione che Wilson ha da anni con sua sorella Eleanor Usher (Janet Agren). A braccare il pilota è …William Wilson (Giorgio Biavati) un suo omonimo, anche lui pilota automobilistico, che da circa un anno lo perseguita mandandogli a monte tutti i progetti…

L’ultimo episodio è “La caduta di casa Usher” che oltre al racconto omonimo – o quasi – si ispira anche al grande “Il pozzo e il pendolo”, “La maschera della morte rossa” e “Il genio della perversione”. Mentre in casa Usher si tiene una festa danzante, Eleanor inizia a mostrare i segni di una grave quanto rapida e fulminea malattia che in poco tempo la conduce alla morte. Roderick chiede ai suoi ospiti di lasciare la casa ma, poco dopo, alcuni di questi tornano sconvolti e terrorizzati: una minacciosa nube nera sta avvolgendo tutto uccidendo chiunque ci finisca dentro. Chiusi fra le mura della grande casa gli ospiti, omaggiando anche il grande Boccaccio, iniziano a raccontare i loro più profondi e indicibili segreti. Berthe (Paola Gassman), per esempio, narra ridendo come sia stata molto vicina dall’uccidere volontariamente il marito mentre questo placidamente dormiva. Ma la secolare maledizione inizia ad abbattersi implacabilmente sulla casa degli Usher…

Naturalmente i tempi narrativi televisivi, rispetto a quelli di oggi, sono infinitamente più dilatati, visto anche che nel 1979 la pubblicità non ha ancora quel peso commerciale nel palinsesto che poi assumerà negli anni successivi. E poi, nonostante la grande maestria di D’Anza dietro la macchina da presa, sono evidenti i non pochi limiti produttivi dello sceneggiato, in cui gli effetti speciali sono fatti “a mano”, spesso sottolineati con frenetici zoom o fumogeni di vari colori.

Ma proprio per questo oggi è lampante ancora di più la bravura non solo delle attrici e degli attori, ma anche quella di tutti i tecnici e i componenti della troupe che con mezzi limitati – e nonostante tutto quello che è passato sul grande e sul piccolo schermo di genere fantasy o horror in questi ultimi quattro decenni – riescono ancora a regalarci momenti autentici di ansia e sorpresa. E proprio per sottolineare l’angoscia che percorre ogni storia raccontata, D’Anza sceglie di affidare le musiche ai Pooh che accompagnano quasi ogni fotogramma con assoli alla tastiera e alla chitarra elettrica efficaci e assai insoliti per gli standard televisivi del tempo.

Nonostante i suoi limiti, questo sceneggiato rimane un originale omaggio al grande Allan Poe fatto dalla nostra televisione in uno dei periodi più prolifici e al tempo stesso di qualità della sua storia.

“Nessuno ti salverà” di Brian Duffield

(USA, 2023)

Brynn (una bravissima Kaitlyn Dever) è una ragazza che vive da sola in una grande casa di campagna, fuori da una delle tante cittadine del midwest americano. Ama cucire e ampliare il piccolo villaggio in miniatura che ha costruito sul tavolo del grande salotto, villaggio che aveva iniziato a creare con sua madre, morta poco tempo prima.

Le sue visite in città sono molto veloci, anche perché nessuno dei suoi concittadini sembra tollerarla troppo. L’unico rapporto che ha con l’esterno è con la sua migliore amica Maude, alla quale scrive delle lettere quotidiane e della quale ha foto sparse in tutta casa. Una notte, però, Brynn viene svegliata da alcuni strani rumori e quando scende in salotto per caprine la causa si accorge che un alieno sta curiosando nel suo salone.

La ragazza prima cerca di fuggire in tutti i modi, ma alla fine è costretta a combattere contro gli alieni, che fra le altre cose hanno anche il potere della telecinesi. Ma oltre agli alieni Brynn deve vedersela contro il suo crudele passato…

Brian Duffield – che ha al suo attivo le sceneggiature di film come “Love and Monster” o “Underwater” – scrive e dirige un vero e proprio gioiellino di sci-fi. Nonostante il genere e l’ambientazione Duffield realizza un film dove non ci sono dialoghi, solo alla fine pochissime parole sussurrate, esercizio di stile davvero molto complicato. Ma non avere dialoghi non vuol dire non aver il sonoro, visto che la comunicazione fra gli alieni è spesso assordante così come lo è sovente la colonna sonora.

Davvero un ottimo esempio di “piccolo” film indipendente destinato a diventare un cult assoluto. Non è un caso, quindi, che il maestro Stephen King, proprio pochi giorno dopo la sua messa in streaming, lo abbia elogiato su Twitter. Nel post il Re lo paragona, giustamente, allo strepitoso episodio “Gli Invasori”, facente parte della seconda stagione della mitica serie televisiva “Ai confini della realtà“, andato in onda negli Stati Uniti il 27 gennaio del 1961.

L’episodio venne scritto da due veri e propri maestri: il grande Rod Serling, creatore della serie, e Richard Matheson, sceneggiatore e scrittore, autore fra le altre cose di uno dei romanzi di fantascienza più famosi e adattati di tutti i tempi: “Io sono leggenda”, pubblicato per la prima volta nel 1954.

Da vedere, e se lo dice il Re…

“Sospesi nel tempo” di Peter Jackson

(USA, 1996)

Agli inizi degli anni Novanta Peter Jackson e la sceneggiatrice Fran Walsh, sua compagna anche nella vita, scrivono il soggetto di un film fantasy/horror che alla fine riescono a sottoporre a Robert Zemeckis. Il regista di “Ritorno al futuro” e “Forrest Gump” ne rimane entusiasta e così parte la produzione della pellicola.

Jackson ottiene che il film venga girato negli esterni in Nuova Zelanda, il suo Paese natale, a patto che l’ambientazione e le scenografie ricordino quelle tipiche del mid-west statunitense, gli impone la produzione. Se allora la scelta del regista poteva sembrare solo il frutto di un legittimo sentimento patriottico, oggi invece è fin troppo chiaro che il regista si stava preparando a realizzare la trilogia de “Il Signore degli Anelli”, che ha anche negli splendidi panorami neozelandesi uno dei suoi punti di forza, oltre alla sceneggiatura scritta dallo stesso Jackson assieme alla stessa Fran Walsh e Philippa Boyens.

Zemeckis, da grande uomo di cinema qual è, sa che Jackson – allora… – e il cast artistico scelto, anche se ottimi professionisti, non sono così famosi al pubblico e convince il suo amico Michael J. Fox ad interpretare il protagonista per attirare l’attenzione su una pellicola così originale e innovativa visto che possiede i caratteri della commedia, del giallo e dell’horror sapientemente bilanciati.

Frank Bannister (Michael J. Fox) era un architetto di successo e, insieme a sua moglie Debra, stava costruendo la casa dei suoi sogni. Ma a causa di un grave incidente automobilistico, di cui Frank si assume tutta la colpa morale e materiale, Debra è morta. Sono passati oltre cinque anni, ma Frank non ha portato avanti la costruzione della casa che è rimasta di fatto un cantiere a cielo aperto.

Ha abbandonato il suo lavoro e ora vive di espedienti, soprattutto quelli legati al paranormale. Perché dopo l’incidente Frank riesce a vedere e a parlare con i fantasmi. E proprio con tre di questi ha creato una società a delinquere. Cyrus (Chi McBride), un piccolo criminale morto negli anni Settanta, Stuart (Jim Fyfe), uno studente modello perito negli anni Cinquanta, e il “vecchio” giudice (John Astin), un volitivo e uomo di legge del duro Far West, infestano la casa scelta appositamente prima da Frank che poi si presenta come “disinfestatore” dell’occulto dietro una lauta ricompensa.

Ma quando l’ex architetto si presenta a casa di Lucy (Trini Alvarado) e Ray Lynskey (Peter Dobson) oltre a vedere i suoi complici, che i padroni di casa non possono vedere, scorge i segni di un inquietante Tristo Mietitore affamato di vite umane…

Con effetti speciali allora davvero all’avanguardia, sequenze mozzafiato e una piacevole ironia “Sospesi nel tempo” – il cui titolo originale è “The Frighteners”, ovvero “Gli spaventosi”, che ha molto più senso di quello in italiano, soprattutto dopo aver visto il finale… – ci offre oltre 100 minuti di brividi e divertimento, firmate da un vero artigiano indiscusso della macchina da presa che riesce sempre ad inventare trovate visive originali e inaspettate.

John Astin – che nell’immaginario collettivo sarà sempre il primo grande Gomez nella serie televisiva degli anni Sessanta “La famiglia Addams” – è nella vita reale il padre di Sean Astin, già protagonista del mitico “I Goonies” e che poi, pochi anni dopo, interpreterà Samvise Gamgee nella trilogia de “Il Signore degli Anelli” diretta da Jackson, partecipando poi, fra le altre cose, alla seconda stagione della serie televisiva cult “Stranger Things“.

“Holly” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2023)

2021, Holly Gibney è la titolare dell’agenzia di investigazioni private “Finders Keepers”, fondata dall’ex poliziotto Bill Hodges, ormai defunto ma vero faro illuminante nella vita della donna che, grazie a lui, è riuscita a crearsi una vita emotivamente indipendente da sua madre.

Sono state sempre molti le considerazioni e le valutazioni diametralmente opposte fra lei e Charlotte, sua madre, le ultime delle quali sulla natura ed il pericolo reale del Covid. Così Charlotte, a differenza di sua figlia, non si è voluta vaccinare né tanto meno ha mai voluto prendere tutte quelle precauzioni necessarie per evitare il contagio. E quando l’infame virus l’ha attaccata, a Charlotte non è rimasto che il tempo di morire da sola nella Rianimazione di un ospedale, pieno di altri gravi pazienti affetti dalla polmonite fulminate come lei.

Ma la morte di Charlotte non chiude il rapporto irrisolto con la figlia, che dovrà fare i conti con un lascito ingombrante e inatteso, in tutti i sensi. Proprio mentre Holly si prepara ad affrontare questa nuova e dolorosa parte della sua esistenza, alla porta della “Finders Keepers” si presenta Penelope Dahl, che tutti chiamano “Penny”, con la foto di sua figlia Bonnie Rea Dahl, una giovane e avvenente studentessa universitaria.

Bonnie è scomparsa il 1° luglio, poco più di tre settimane prima, e di lei è rimasta solo la sua bicicletta abbandonata in strada, con sul sellino un laconico biglietto di addio. Penny naturalmente si è rivolta alla Polizia ma, vista la mancanza di prove di una qualsivoglia violenza e soprattutto la situazione che sta creando il Covid, che colpisce anche il personale della Polizia cosa che rende sempre più complicato gestire l’ordine pubblico, le indagine su Bonnie sono ad un punto morto.

Holly accetta il caso e inizia a ripercorrere e studiare le ultime settimane conosciute di vita della ragazza, prima che svanisse nel nulla, a partire proprio dal rapporto conflittuale con la madre, molto simile sotti alcuni punti di vita a quello che lei aveva con la sua. Ma l’indagine costringerà Holly ad affrontare un terrificante e insolito predatore che, purtroppo, molto prima della scomparsa di Bonnie ha iniziato ad assecondare la sua “fame” di sangue…

Il Re ci regala un altro grande libro che ci tiene inchiodati alla pagine fino all’ultima riga, post fazione compresa. Narrandoci della caccia a un serial killer, King ci pennella in maniera netta e cruda la metafora di un aspetto duro e doloroso della nostra società contemporanea: lo scontro fra le generazioni più mature e quelle più giovani. Scontro che negli ultimi anni sta acquistando toni e dinamiche nuove, anche perché le prime hanno privilegi e diritti che le seconde, molto probabilmente, non potranno ottenere mai.

E se qualcuno avesse ancora dubbi sulla grandezza di Stephen King come scrittore puro, e non solo come un superbo autore dell’orrore, si legga i brani in cui, in poche semplici righe, ci descrive con sublime tristezza e profondo rispetto il vile morbo dell’Alzheimer. Per non parlare del concetto di scrittura su cui il Re ci dona delle splendide e indimenticabili riflessioni grazie al personaggio di Olivia Kingsbury, una famosissima poetessa quasi centenaria. 

In poche parole: un vero e proprio Maestro della parola scritta.

La Gibney appare per la prima volta nel romanzo “Mr Mercedes” – dove incontra Bill Hodges – del 2014 e nel racconto breve “Se scorre il sangue”, compreso nell’omonima raccolta di racconti del 2020.

“Mosca a New York” di Paul Mazursky

(USA, 1984)

Vladimir Ivanoff (un bravissimo Robin Williams) è un sassofonista che lavora presso la banda di un circo di Mosca. Suo nonno è stato un grande comico e un grande artista, ma ormai è relegato nel piccolo appartamento nel quale vive Vladimir coi genitori e i fratelli.

Siamo agli inizi degli anni Ottanta e a Mosca, nonostante sia la capitale dell’Unione Sovietica, i beni di prima necessità, come la carta igienica, sono molto rari e si ottengono solo dopo lunghissime file e interminabili ore di attesa. Ma a Vladimir, infondo, va bene così, anche se sogna l’America, soprattutto quella del grande jazz.

Il suo amico e collega di lavoro Anatoly (Elya Baskin) che al circo fa il clown, invece, non riesce più a sopportare un’esistenza condizionata prepotentemente dal regime comunista che gli toglie ogni sogno e speranza, e ogni giorno promette a se stesso e a Vladimir che prima o poi fuggirà in Occidente.

L’occasione arriva quando il circo viene invitato per qualche giorno a New York per un’esibizione nell’ambito dei rapporti amichevoli fra USA e URSS. Proprio tornando all’aeroporto il pullman con gli artisti circensi si ferma da Bloomingdale’s per alcuni “souvenir” e Anatoly, nonostante la stretta sorveglianza degli agenti del KGB, confida a Vladimir di volere agire lì e chiedere asilo politico. Ma all’ultimo istante il clown non trova il coraggio di fare quel gesto che brama da tutta la vita e così, sconfitto, segue docilmente i suoi rigidi custodi.

La cosa, però, dona forza e volontà a Vladimir che grazie anche a Lucia (Maria Conchita Alonso) una commessa del reparto profumeria, e Lionel (Cleavant Derricks) un addetto alla sicurezza del grande magazzino, riesce a chiedere asilo politico alle autorità americane.

Inizia così una nuova esistenza per Vladimir che, volente o nolente, deve abbandonare per sempre quella passata, sapendo bene che non potrà mai più rivedere la sua famiglia. Ad aiutarlo ed accoglierlo saranno gli stessi Lionel e Lucia, ma soprattutto una folta schiera di immigrati come lui che negli Stati Uniti sono arrivati con ogni mezzo, sperando di realizzare i propri sogni. Ma la realtà non è sempre così rosea…

Scritto dallo stesso Mazursky assieme a Leon Capetanos, questo film ci racconta con i toni della commedia il dramma ed il dolore di un essere umano costretto a lasciare la sua casa e i suoi affetti per cercare un’esistenza migliore e più dignitosa, dove non dover passare l’interna giornata in fila per avere un paio di rotoli di carta igienica o poter suonare liberamente la musica jazz, senza paura di essere arrestato.

Inoltre, ci regala una bellissima interpretazione di Robin Williams, fra le sue migliori in assoluto, che dimostra – se davvero ce ne fosse ancora bisogno – che solo un grande comico può far piangere. Purtroppo il film venne completamente ignorato dall’establishment contemporaneo a stelle e strisce, che non gradì la critica che il film faceva alla società americana del tempo. E così Williams, anche se vinse il Golden Globe – votato dalla stampa straniera – per la sua performance, venne completamente ignorato agli Oscar.

In realtà “Mosca a New York” non critica tutta la (multietnica) società americana, ma quella parte che sguinzagliò il più feroce e incontrollato capitalismo pur di battere economicamente l’Unione Sovietica; parte che aveva il suo paladino nel presidente Reagan. Se è vero che quelle scelte economiche contribuirono fattivamente ad abbattere il muro di Berlino, è vero anche che alcune di esse, a distanza di tanti decenni, noi le stiamo ancora pagando.

E così, proprio a ridosso della rielezione di Reagan, questo film fu visto dalla parte più conservatrice e reazionaria della società americana come fumo negli occhi, tanto da rischiare di rovinare la carriera di Williams, che fu costretto ad interpretare, poi per molto tempo, solo ruoli più superficiali e leggeri.

Per la chicca: nel film Valdimir e Lucia vanno al cinema a vedere “Una donna tutta sola” diretto dallo stesso Marzusky nel 1978; bellissima e amara pellicola che venne candidata all’Oscar come miglior film e per la quale lo stesso regista venne candidato come miglior sceneggiatore.

“Le tentazioni del dottor Antonio” di Federico Fellini

(Italia, 1962)

Cesare Zavattini propone a Carlo Ponti un film ad episodi diretti dai quattro fra i più importanti registi italiani di allora: Mario Monicelli, Federico Fellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica, rispettivamente con “Renzo e Luciana“, “Le tentazioni del dottor Antonio”, “Il lavoro” e “La riffa”.

Federico Fellini sceglie di raccontare la parte più bigotta e ipocrita della società italiana del tempo che, con feroce violenza, si era scagliata solo qualche anno prima contro di lui ed i suoi film “La dolce vita” prima e “8 e 1/2” poi.

Il nostro Paese, da ormai quasi due decenni è guidato politicamente dalla Democrazia Cristiana che è per molti un punto di riferimento culturale e sociale, oltre che incarnare gli ideali cattolici della Chiesa Romana che in quegli anni ha un’ingerenza pesante nel nostro quotidiano.

E così all’uscita, ma soprattutto al clamoroso successo internazionale de “La dolce vita”, i più integerrimi benpensanti italici, convinti di essere gli unici detentori della “morale” e del “decente”, si scagliarono ferocemente, fregiandosi dello scudo crociato, contro il regista gli autori e gli attori. Oggi, fortunatamente, può far sorridere tale circostanza, ma in quegli anni essere “scomunicato” dal Vaticano aveva comunque le sue ripercussioni anche nella vita quotidiana.

Per esempio, più o meno nello stesso periodo, la grande Mina veniva insultata da alcuni passanti in strada, mentre faceva la spesa, solo perché aveva avuto l’ardire e la spudoratezza di fare un figlio con un uomo sposato e non vergognarsi pubblicamente…

Così Fellini, assieme ai suoi autori preferiti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, incarnano tutti questi tipici atteggiamenti italioti perbenisti ed ipocriti nell’integerrimo dottor Antonio Mazzuolo (un bravissimo Peppino De Filippo) custode e tutore dell’ordine morale, tanto da non avere scrupoli nello schiaffeggiare una sconosciuta in un bar solo perché questa indossava un abito leggermente scollato.

E proprio davanti alla finestra di casa Mazzuolo viene affisso un enorme cartellone pubblicitario con la bellissima e prosperosa Anita Ekberg che in uno abito da sera scollato, sdraiata, pubblicizza il latte.

Il dottor Antonio, turbato e scandalizzato cerca in ogni modo di farlo coprire, anche rivolgendosi ai politici di riferimento, ma la sua rabbia nasconde in realtà una morbosa e indicibile voglia di possedere quel corpo così procace e sessuale, voglia che alla fine riesce a dare vita al manifesto…

Per comprendere al meglio la nostra società di allora basta ricordare anche l’episodio dello schiaffo accadde veramente ai danni di una signora straniera che si era, da sola, seduta in un bar del centro di Roma per prendere un caffè e che venne aggredita e colpita da un giovane puritano Oscar Luigi Scalfaro – che poi diventerà Presidente della Repubblica – cosa che oggi, giustamente, sarebbe impensabile senza dure e implacabili conseguenze.

Fortunatamente non tutta l’Italia, allora, era così e ci furono molte parole pubbliche di biasimo che ebbero il loro culmine nel guanto di sfida che lanciò realmente il grande Antonio De Curtis in arte Totò, sfidando ufficialmente a duello Scalfaro per difendere l’onore della povera e innocente malcapitata. Duello che però, fortunatamente per tutti, non ebbe luogo.

Tornando all’episodio diretto da Fellini, che ha praticamente la durata di un film breve, colpisce ancora oggi la sua satira e la sua ironia verso una parte del nostro Paese che è dura a morire e che spesso, per mere ragioni elettorali, alcuni politici fomentano.