“L’occhio che uccide” di Michael Powell

(UK, 1960)

In una carriera costellata di capolavori, Michael Powell, nel 1960 raggiunge una vetta assoluta con “L’occhio che uccide” – il cui titolo originale è “Peeping Tom”, che si può tradurre col termine “guardone” – un film che ha suscitato sdegno e disapprovazione alla sua uscita, ma che oggi possiamo ammirare come una straordinaria opera di avanguardia e introspezione psicologica. Questa pellicola, al pari delle opere di Alfred Hitchcock, sfida e ridefinisce i confini del thriller e dell’horror.

La narrazione segue Mark Lewis, interpretato con gelida precisione da Karlheinz Böhm, un cameraman ossessionato dall’idea di catturare il terrore puro. Armato di una cinepresa modificata con una lama nascosta, Mark filma i suoi omicidi, trasformando la morte in un’arte visiva. La cinepresa non è solo un mezzo per documentare, ma diventa un’estensione della sua psiche disturbata, una finestra sulla sua anima tormentata.

Powell, maestro nel manipolare il linguaggio cinematografico, ci costringe a diventare complici di Mark, immergendoci nel suo punto di vista distorto. L’uso della soggettiva, l’intensità dei colori e l’illuminazione espressionista creano un’atmosfera di costante tensione, un’esperienza visiva che non permette distrazioni o distacco emotivo. La cinepresa, nelle mani di Powell, diventa uno strumento di introspezione e, al contempo, di condanna.

La tematica del voyeurismo, già esplorata in maniera sublime dallo stesso Hitchcock in “La finestra sul cortile” del 1954, trova qui una rappresentazione ancora più diretta e inquietante. “L’occhio che uccide” non solo ci fa osservare, ma ci interroga sul nostro stesso desiderio di guardare, mettendo a nudo la nostra complicità nel consumo visivo della sofferenza altrui. Questo gioco metacinematografico è condotto con una precisione chirurgica, rivelando la natura predatoria dello sguardo cinematografico.

La performance di Karlheinz Böhm è fondamentale nell’alchimia del film. Il suo Mark Lewis è un personaggio di grande complessità, che evoca al tempo stesso profonda compassione e grande repulsione. Böhm riesce a catturare le sfumature di un uomo intrappolato tra il trauma della sua infanzia funestata dal padre, e la sua ossessione per la paura. Anche Anna Massey, nel ruolo di Helen, offre un’interpretazione di grande sensibilità, rappresentando una luce di speranza nell’oscurità che avvolge inesorabilmente Mark.

Alla sua uscita, “L’occhio che uccide” fu frainteso e aspramente criticato, ma oggi emerge come un’opera visionaria che anticipa temi e stili che diventeranno centrali nel cinema degli anni successivi. Powell ci offre un’esplorazione coraggiosa e senza compromessi della psiche umana, realizzando un film che è al contempo un thriller avvincente e una profonda riflessione sull’atto stesso del guardare, che è l’essenza stessa del cinema.

Questa pellicola merita di essere riscoperta e celebrata, perché è un’opera che sfida le convenzioni e invita lo spettatore a un confronto diretto con i propri demoni interiori, e Powell è un maestro nel manipolare la luce e il colore per creare un’atmosfera di crescente tensione.

Ogni inquadratura è studiata per mettere a disagio lo spettatore, per farlo sentire intrappolato nello stesso incubo di Mark. È un film che non si limita a mostrare il terrore, ma lo fa sentire, lo fa vivere sulla pelle. Michael Powell – che non a caso sceglie di impersonare il padre aguzzino del piccolo Mark – dimostra ancora una volta di essere un maestro del cinema, capace di spingersi oltre i limiti e di esplorare territori inesplorati con una visione artistica unica e inimitabile.

Se avete il coraggio di affrontare le vostre paure, questo è un film che non potete perdere. Ma ricordate: una volta che avrete guardato nell’abisso, come dice Nietzsche, l’abisso potrebbe iniziare a guardare voi…

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