“Ditegli sempre di sì” di Eduardo De Filippo

(Italia, 2022)

Nel 1927 Eduardo De Filippo scrive per il fratellastro Vincenzo Scarpetta la farsa “Chill’è pazzo!” che verrà messa in scena per la prima volta il 7 aprile del 1928 al Teatro Manzoni di Roma. Eduardo prende spunto da “O miedeco d’e pazze” (“Il medico dei pazzi”) farsa di grande successo scritta dal padre Eduardo Scarpetta nel 1908.

Ma Eduardo De Filippo sviluppa il tema “chi è pazzo e chi è normale?” e grazie all’influenza di Luigi Pirandello – drammaturgo tanto amato da De Filippo e con cui le stesso Eduardo assieme ai fratelli Titina e Peppino collaborò sul palcoscenico – va oltre la semplice farsa, e crea una commedia tragicomica, che domanda al pubblico, senza false ipocrisie: chi è sicuro di sapere con certezza che cos’è la pazzia e che cos’è la normalità?

Nel 1932 la compagnia del Teatro Umoristico De Filippo, composta dai tre fratelli ormai affrancatisi da Vincenzo Scarpetta, la ripropone col titolo “Ditegli sempre di sì” con la regia della stesso Eduardo che interpreta il protagonista Michele Murri, e alleggerisce il testo dei numerosi intrecci tipici della farsa eliminando anche alcuni personaggi secondari, centrando l’opera sulla dicotomia normalità/pazzia.

Nel 1982, alla Biennale di Venezia, Eduardo porta in scena una nuova importante edizione – dopo quella del 1962 ripresa dalla Rai – dove però cura solo la regia, a interpretare Michele Murri è suo figlio Luca De Filippo che purtroppo scompare prematuramente nel 2015. A possedere oggi i diritti del teatro di Eduardo è Carolina Rosi, ultima compagna di vita di Luca De Filippo, che nel 2019 decide di riportarla in scena impersonando Teresa Lo Giudice, sorella di Michele Murri. La regia è curata da Roberto Andò che rimane abbastanza fedele a quella di Eduardo.

Sulle note travolgenti de “La forza del destino” di Giuseppe Verdi entriamo in casa di Teresa Lo Giudice dove torna, dopo un anno passato in manicomio a causa di un grave esaurimento nervoso, il fratello Michele Murri (Tony Laudadio). Teresa ha nascosto a tutti il ricovero forzato del fratello che ha fatto passare per un non ben dettagliato viaggio all’estero di lavoro.

Secondo Teresa, il definitivo recupero di Michele non può che passare per un matrimonio combinato, e nello specifico con Evelina (Federica Altamura) figlia del suo vicino nonché padrone di casa Giovanni Altamura (Antonio D’Avino). Ma a complicare la situazione, oltre all’instabilità di Michele, c’è anche Luigi Strada (Andrea Cioffi) lo squattrinato e sfaccendato inquilino di Teresa che è costretto a lasciare la sua camera a Michele, ed è innamorato di Evelina ma inviso al padre Giovanni…

Grazie a tutto il cast e soprattutto alle interpretazioni di Tony Laudadio e Andrea Cioffi, nonché alla regia di Andò, riviviamo con piacere e gusto una delle prime commedie del maestro Eduardo. Sono passati quasi cento anni dalla sua stesura, ma l’opera del grande drammaturgo napoletano graffia e fa riflettere come se fosse stata scritta ieri. L’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, del genio assoluto e immortale di Eduardo.

Così come deve fare il teatro vero e sincero, questa commedia ci fa riflettere anche nello specifico sulla cura e la gestione delle persone con gravi problemi mentali. Purtroppo la Legge “Basaglia” del 1978, in quest’ultimo periodo, sta pericolosamente “passando di moda” visto che dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19 sono sempre di più quelli che vorrebbero una Sanità puntata esclusivamente al profitto.

Eduardo: …quanto ci manchi!

“Gli esami non finiscono mai” di Eduardo De Filippo

(Italia, 1976)

Il 21 dicembre del 1973, al Teatro della Pergola di Firenze – dopo due anteprime riservate ai giovani sotto i 21 anni – va in scena la prima della commedia con prologo in tre atti “Gli esami non finiscono mai” di Eduardo De Filippo. Finita di scrivere nel ’72, ma nata nella testa del suo autore già negli anni Quaranta, rappresenta l’ultima opera inedita rappresentata del grande drammaturgo napoletano.

Attraverso il racconto della vita del suo protagonista, Guglielmo Speranza interpretato dallo stesso autore, assistiamo alla storia della sua esistenza dal giorno in cui si laurea a quello della sua morte. Esistenza segnata implacabilmente dagli infiniti “esami” che la vita gli riserva in ogni campo. Con il diploma di laurea in mano – il “pezzo di carta” come lo ha sempre chiamato suo padre – Guglielmo festeggia con i suoi colleghi, fra cui spicca Furio La Spina (Luca De Filippo) il cui rapporto lo accompagnerà nel bene e soprattutto nel male per molti decenni, dichiarando ingenuamente certo che da quel giorno – …finalmente! – non dovrà più sottoporsi ad alcun esame.

Ma poco dopo, proprio andando a chiedere ufficialmente la mano della sua giovane fidanzata Gigliola (Angelica Ippolito), Guglielmo si dovrà sottoporre già ad un nuovo esame: quello della famiglia di lei. Così come raccontato nel prologo dallo stesso Guglielmo direttamente al pubblico, col passare degli anni – sancito anche da una cantante di strada, interpretata da Isa Danieli, che intona canzoni e indossa costumi del momento storico in cui si svolge l’azione – la vita lo sottopone a infinite prove e soprattutto al “giudizio” spietato degli altri, della “gente” che, come canta sublimemente il maestro Fabrizio De Andrè: “…dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”. Esami che, feroci e ipocriti, continueranno anche dopo la sua morte…

Eduardo ci regala un’opera indimenticabile che ci racconta il “consuntivo” della propria esistenza che traccia un uomo forse ingenuo, certamente non senza colpe, che però è stato sempre stretto e soffocato dalle apparenze. Apparenze delle quali è schiavo e alle quali, anche quando la vita sembra offrigli l’occasione di “cambiare”, non può sottrarsi.

La struttura a quadri de “Gli esami non finiscono mai” ricalca quelle già sperimentate da Bertolt Brecht in molte delle sue opere. La figura del narratore che racconta al pubblico il passare del tempo fra una scena e l’altra è presente in “Piccola città” di Thornton Wilder, opera della quale lo stesso Eduardo, negli anni Quaranta, aveva fatto una fortunata parodia.

Ma il dialogo diretto col pubblico, Eduardo lo ha sempre usato in tutte le sue opere. Un dialogo pacato ma sincero, spesso con voce bassa e rotta dalla commozione o complice e serena come quello immortale in “Questi fantasmi” in cui al professore/pubblico spiega la preparazione del caffè.

Altro elemento straordinario della commedia è il costume di Guglielmo. Le cronache del tempo ci raccontano di come Eduardo si sia consigliato con costumisti e scenografi per realizzare un costume il più astratto possibile, visto che per lui l’abito indossato da un’attrice o un attore sul palco era parte integrante del carattere del personaggio. E così Guglielmo Speranza, per tutta la commedia, indossa un abito che sembra molto anonimo e fuori dal tempo che scorre, così come dovrebbe essere l’anima di un essere vivente. Abito e trucco cambieranno solo alla fine, al suo funerale, quando non sarà più lui a decidere come vestirsi, ma gli altri – la gente! – gli metteranno la maschera che reputano la più adatta per fargli lasciare questo mondo.

Un capolavoro assoluto frutto di un genio assoluto del nostro Novecento.

Genio che oggi tutti ricordano e lodano – mai abbastanza – in tutti i campi della nostra cultura. Ma durante la sua esistenza Eduardo se ha sempre avuto l’affetto incondizionato del suo amato pubblico, di riconoscimenti ufficiali e “di palazzo” – come diceva lui – ne ha avuti pochi. Almeno fino agli inizi degli anni Settanta quando l’Accademia Nazionali dei Lincei gli conferisce il premio internazionale “Antonio Feltrinelli” 1972 per il Teatro, che consisteva in una somma di venti milioni di lire di allora. Premio che gli verrà consegnato alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone proprio nella sede storica dell’Accademia.

Nello stesso anno Eduardo viene invitato a Londra a presentare la sua “Napoli milionaria”. Nel 1973, sempre a Londra, Franco Zeffirelli mette in scena “Sabato, domenica e lunedì” con nel cast, fra gli altri, Lawrence Olivier e Joan Plowright, rappresentazione che vincerà l’Evening Standard Drama Award 1973, come miglior commedia dell’anno.

Ma c’è, comunque, chi nel “palazzo” storce il naso e non considera l’opera del nostro secondo drammaturgo più tradotto e rappresentato al mondo – secondo solo a Luigi Pirandello – cosa da poco e di basso rango – forse come le sue origini… – le sue opere, che ben poco hanno a che fare con quelle vette alte della “vera” cultura. Alcuni accademici, infatti, raccontò lo stesso Giovanni Macchia, borbottarono amareggiati: “Quest’anno abbiamo dato il nostro grande premio a …un guitto!”.

Nel 1974, al Teatro Eliseo di Roma, durante una rappresentazione della commedia Eduardo ha un malore causato da una grave insufficienza cardiaca e i medici gli propongono un pacemaker. All’inizio il drammaturgo è restio, ma alla fine acconsente per offrirsi “ancora un poco” al suo pubblico. Poco dopo Eduardo torna trionfalmente sulle scene. E sempre per tenere fede al suo rapporto profondo e sincero con platea e loggione, dopo ogni rappresentazione intrattiene il pubblico leggendo i messaggi d’affetto che riceve da tutto il mondo ogni giorno.

Al termine di due intense stagioni di repliche Eduardo realizza la versione per la televisione che è quella che noi oggi possiamo fortunatamente vedere, con le musiche di Roberto De Simone e che viene trasmessa dalla RAI nel gennaio del 1976. Nel cast è presente anche Paolo Graziosi nel ruolo del veterinario amico di Guglielmo, unico estraneo che lui ammette al suo capezzale da quando ha scelto di non parlare più.

Menomale che nel nostro Paese ci sono anche i guitti!

“Misera e nobiltà” di Eduardo Scarpetta

(Italia, 2009)

La notte di Natale del 1888 andava in scena al Teatro del Fondo, a Napoli, la prima della commedia “Miseria e nobiltà” scritta, diretta e interpretata da Eduardo Scarpetta. Il successo fu subito immediato tanto da diventare l’opera e l’interpretazione più famosa del suo autore. Autore che aveva scritto il testo creando il personaggio del piccolo Peppeniello per “battezzare” sul palcoscenico il suo secondogenito Vincenzo, destinato a diventare il suo erede artistico ufficiale.

Ma il tema dello scontro fra la miseria e la nobiltà, fra la fame e l’opulenza rende la commedia inossidabile e immortale così da essere rappresentata nel corso del tempo quasi senza sosta diretta e interpretata da grandi artisti come, ad esempio, Raffaele Viviani . Nel ruolo di Peppeniello così vengono battezzati tutti gli eredi dello stesso autore come accadrà qualche decennio dopo allo stesso Eduardo De Filippo e a suo fratello Peppino.

A partire dalla notte di Natale del 1931, quando va in scena la prima assoluta di “Natale in casa Cupiello” sarà definitivamente Eduardo ad essere considerato il suo vero erede artistico tanto da creare, qualche anno dopo, la compagnia stabile “La Scarpettiana” che rappresenterà molte delle opere del padre.

Nel 1953, per il centenario della nascita di Scarpetta, Eduardo riporta in teatro “Miseria e nobiltà”, e le celebrazioni approdano anche al cinema dove Mario Mattoli dirige gli irresistibili adattamenti “Un turco napoletano” e la stesso “Miseria e nobiltà” dove a interpretare il protagonista Felice Sciosciammocca c’è uno stratosferico Totò.

Ma in Italia è appena sbarcato un nuovo mezzo di comunicazione di massa che molti snobbano o guardano addirittura con disprezzo, ignorando completamente il suo vero potenziale e la sua ricaduta sociale e culturale: la televisione. Eduardo De Filippo, invece, da genio indiscusso quale era, intuisce subito la grande rivoluzione che quell’ingombrante e rumorosa scatola rappresenta e così, come il suo fratellastro Vincenzo Scarpetta che fu uno dei pionieri del cinema italiano degli inizi del Novecento, gli si avvicina curioso e ricco di aspettative.

Così, la sera del 30 dicembre 1955 dal Teatro Odeon di Milano, mette in scena in diretta per la Rai Radiotelevisione Italiana “Miseria e nobiltà”. Inizia così un connubio con la nostra televisione di Stato che di fatto durerà circa trent’anni e grazie al quale le generazioni future possono godere della sua immensa arte, non solo leggendola, ma assaporandola interpretata da lui stesso.

La diretta rappresenta anche il debutto ufficiale di suo figlio Luca che, naturalmente, veste i panni di Peppeniello. Nel cast ci sono anche Dolores Palumbo, che con Eduardo aveva esordito agli inizi degli anni Trenta, Ugo D’Alessio attore stabile nella compagnia De Filippo – nonché grande caratterista al cinema dove, per esempio, interpreta magistralmente l’italo-americano arricchito Decio Cavallo al quale Totò “vende” la Fontana di Trevi in “Totòtruffa ’62” e sarà sempre lui a dare il volto a Mastro Ciliegia nello splendido “Le avventure di Pinocchio” diretto, sempre per la RAI, da Luigi Comencini nel 1972 – e Isa Danieli nel ruolo di Gemma.

L’adattamento di Eduardo smorza i toni della farsa e li avvicina a quelli del suo teatro che provoca, più che sghignazzi, risate tristi e amare, proprio sulla scia delle opere di Luigi Pirandello, col quale lui stesso collaborò. E così De Filippo amplia il monologo dedicato alla miseria, sognando – lui, lo squattrinato Felice Sciosciammocca che non riesce a sfamare nemmeno suo figlio – un mondo senza poveri perché la povertà: “…fa schifo!”.

Immortale e preziosissimo documento storico e sociale che ci ricorda l’arte immensa del grande Eduardo De Filippo così come quella irresistibile di suo padre Eduardo Scarpetta.

“ANELANTE” di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

(Italia, dal 2015)

Antonio Rezza è una delle figure più interessanti e originali del teatro contemporaneo portando sul palcoscenico, ma anche davanti alla macchina da presa, spettacoli carnali e fuori i classici canoni, che ne fanno una figura tanto efficace quanto “canonicamente” inafferrabile, così come le sue messe in scena che – nella primaria e secolare tradizione teatrale che passa anche per la commedia dell’arte – vanno viste e soprattutto vissute, e il cui racconto lascia il tempo che trova.

Dal 1987 Rezza crea un prolifico sodalizio con l’artista e scultrice Flavia Mastrella, insieme alla quale scrive i suoi spettacoli. Spettacoli le cui scenografie, firmate dalla Mastrella, diventano parte integrante del testo. Ai numerosi premi vinti dal duo RezzaMastrella, nel 2018 il Festival di teatro della Biennale di Venezia attribuisce loro il Leone d’Oro alla carriera.

“ANELANTE” è andato in scena per la prima volta nel 2015, e adesso Rezza lo riporta sul palcoscenico dopo due tragici anni in cui la pandemia, oltre a falciare centinaia di migliaia di vite, ha messo in ginocchio la nostra cultura e soprattutto il nostro teatro.

Così riviviamo uno spettacolo che proprio per quello che è accaduto dal suo debutto, seguiamo con occhi e animo diversi, dove ogni risata o sorriso sardonico possiede un peso specifico molto più significativo di prima. Insomma, oltre novanta minuti di teatro viscerale, provocatorio e ironico nella speciale tradizione del suo autore e regista.

Sul palco, insieme a Rezza, recitano Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini ed Enzo Di Norscia.

“Ci vuole orecchio – Elio canta e recita Enzo Jannacci” di Giorgio Gallione

(Italia, 2022)

Enzo Jannacci (1935-2013) è stata una delle personalità più rilevanti della nostra cultura – e non solo – a partire dal Secondo Dopoguerra e fino al ridosso della sua scomparsa. Dopo essersi diplomato al Conservatorio di Milano in armonia, composizione e direzione d’orchestra inizia a frequentare scantinati e vecchi garage che stanno diventando cabaret nella Milano in piena esplosione del Boom dove conosce, fra gli altri, Dario Fo.

E’ lui il padre putativo di quello che diventerà il grande cabaret milanese, forgiando intere generazioni di comici (Cochi & Renato, Diego Abatantuono solo per citarne un paio) e partecipa anche ad alcuni film come “La vita agra” di Lizzani – dove canta in un bar “Ti te se’ no” e ambientato proprio nella sua Milano – o il caustico “L’udienza” di Marco Ferreri.

Musicalmente nel 1957 partecipa al primo “Festival italiano di rock & roll” che si tiene nel Palazzo del Ghiaccio del capoluogo lombardo con il gruppo dei Rock Boys su richiesta del cantante e leader del gruppo Adriano Celentano. Il successo è clamoroso tanto da aprire definitivamente le porte al nuovo ed esplosivo genere musicale nel nostro Paese.

Sempre in quegli anni Jannacci conosce un altro giovane musicista che come lui ha la passione per il cabaret e che come lui suona insieme a Celentano: Giorgio Gaber, con cui forma il duo “I due corsari”. Intanto proseguono i suoi studi in medicina e dopo la laurea nel 1967, Jannacci si trasferisce in Sud Africa e poi negli Stati Uniti per prendere la specializzazione, entrando nell’equipe di Christiaan Barnard, il primo cardiochirurgo nella storia ad eseguire un trapianto di cuore.

Il tutto “condito” da circa trenta album registrati da solista dove Jannacci interpreta le sue canzoni assieme a quelle di altri autori, spesso al momento non così famosi, come per esempio la strepitosa “Bartali” incisa nel 33 giri “Foto Ricordo” e scritta da Paolo Conte. Nella storia della musica italiana rimangono, assieme a molte altre come “Se me lo dicevi prima” del 1989, “Vengo anch’io, no tu no” e “Ho visto un Re” entrambe scritte insieme a Dario Fo, ed entrambe pesantemente perseguitate dalla censura, soprattuto quella della televisione, perché considerate “troppo politiche”.

Così Elio, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa, da buon milanese ma soprattutto da buon italiano – perché Enzo Jannacci appartiene al patrimonio culturale di tutto il nostro Stivale – canta alcune delle canzoni di Jannacci più famose e più significative per Milano, intervallando la musica con alcuni sketch nella grande tradizione del suo cabaret.

Uno spettacolo da ridere e cantare, scritto da Giorgio Gallione e arrangiato da Paolo Silvestri, ricordando un grande artista che davvero ci ha fatto e ci farà per sempre ridere, piangere e soprattutto pensare. A suonare, cantare e recitare sul palco con Elio ci sono Alberto Tafuri, Martino Malacrida, Pietro Martinelli, Sophia Tomelleri e Giulio Tullio.

“The Goes Wrong Show” del Mischief Theatre

(UK, dal 2019)

Nel 2015 lo spettacolo “The Goes Wrong Show” scritto da Henry Lewis, Jonathan Sayer e Henry Shields che lo interpretano insieme a Bryony Corrigan, Nancy Zamit, Charlie Russell, Chris Leask e Greg Tannahill sbanca nel Regno Unito.

Il gruppo di artisti appartiene al Mischief Theatre (o The Cornley Polytechnic Drama Society), fondato nel 2008 da alcuni di studenti della London Academy of Music & Dramatic Art, che dal suo esordio ha messo in scena, con ottimi riscontri, commedie e improvvisazioni sia in Gran Bretagna, che in Europa e Asia.

Visto il successo dello spettacolo del 2015, la BBC propone al gruppo di realizzare uno speciale “in presa diretta” per il Natale del 2016 e per quello del 2017. Gli ascolti sono così rilevanti che nel 2019 la stessa BBC produce la prima serie del “The Goes Wrong Show” composta da sei episodi da trenta minuti ciascuno.

In ogni puntata viene messo in scena un genere classico dell’intrattenimento, dall’horror al film di guerra, dal courtroom al melodramma, e ogni volta lo spettacolo naufraga per clamorosi errori o contrattempi di scena. Trenta minuti di esilaranti sbagli e incidenti.

La BBC ha trasmesso la prima serie dal 23 dicembre del 2019 al 31 gennaio del 2020.

In questo periodo così drammatico il teatro sta vivendo uno dei momenti più bui della sua storia millenaria. Come di molte altre cose, tutti noi abbiamo bisogno del teatro e della sua magia che presto tornerà ad incantarci dal vivo.

Per il momento su Prime Video è disponibile l’intera prima serie di “The Goes Wrong Show” in lingua originale, con sottotitoli in italiano. Al di là dei problemi logistici che questa dannata pandemia sta creando anche al mondo del doppiaggio, in questo caso avrebbe poco senso doppiare questi brevi spettacoli che si apprezzano al meglio in originale.

Dallo scorso aprile, vista l’esplosione della pandemia, il Mischief Theatre ha messo sui social gli spettacoli ripresi con l’hashtag #GoesWrongAlong.

Il Teatro resiste e combatte con noi questa maledetta pandemia!

“I 7 Re di Roma” di Luigi Magni

(Italia, 1989)

Per ricordare un grande artista come Luigi Proietti voglio parlare di una delle sue interpretazioni più indimenticabili, piuttosto che ricordarne semplicemente la vita o elencare il suo, seppur lungo e incredibile, curriculum artistico.

Nella grande tradizione italiana della commedia musicale, firmata soprattutto dallo storica “ditta” Garinei & Giovannini, debutta il giorno di San Valentino del 1989, ovviamente al teatro Sistina, “I 7 Re di Roma”.

Anche se siamo nella più classica commedia, sul cartellone il suo autore Luigi Magni la chiama “Leggenda musicale”. E per le musiche Pietro Garinei – che ne cura anche la regia – e lo stesso Magni si rivolgono al giovane Nicola Piovani che, poco più che quarantenne, ha già lavorato con registi del calibro di Marco Bellocchio, Mario Monicelli, i fratelli Taviani, Nanni Moretti e Federico Fellini.

Magni, da sempre fra i più bravi e ironici narratori della storia di Roma soprattutto quella papalina, stavolta vuole raccontare la fondazione della città Eterna. Basandosi sull’opera “Ab Urbe condita” di Tito Livio, ma anche compiendo ricerche personali su documenti e tradizioni, ci racconta fra miti e leggende la nascita di Roma e la storia dei suoi primi sette Re, che posero le basi di quella che sarebbe diventata il centro di un’impero durato millenni, e che sarebbe morta e risorta più splendente di prima innumerevoli volte. Insomma, i sette che gettarono le basi di un mito, ma che molti troppo spesso non ricordano tutti e nel giusto ordine.

Per interpretare Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Seperbo, ma anche Tiberino, Enea e il fauno Luperco, non poteva bastare un attore “normale”. Ci voleva un genio, un istrione ironico ed irresistibile, un classico e raro “animale” da palcoscenico come se ne vedono pochi: uno come Gigi Proietti.

Così, per oltre due ore e mezza, ripercorriamo la storia antica di Roma che trasformò un manipolo di pastori nei fondatori della città che più di ogni altra nel modo e nel tempo ha segnato la storia. E lo facciamo ridendo di gusto all’arte suprema di Proietti, alle battute di Magni – che ci ricorda giustamente come le donne, anche a quei tempi, erano schiacciate in ruoli marginali e stereotipati, del tutto funzionali agli uomini sia nei loro trionfi che nei loro fallimenti – e rapiti dalle splendide musiche di Piovani.

Reputo la canzone “E’ bello pende al filo” una delle più belle della nostra recente tradizione musicale, davvero indimenticabile, così come l’immenso Proietti.

Da vedere.

“Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams

(Einaudi, 2020)

Quando il 3 dicembre del 1947 va in scena al Barrymore Theatre di New York la prima di “Un tram che si chiama desiderio” il teatro contemporaneo cambia per sempre.

A dirigere la prima rappresentazione dell’opera di Tennessee Williams è Elia Kazan (che dirigerà anche l’omonimo adattamento cinematografico “Un tram che si chiama desiderio” del 1951). Gli interpreti sono Marlon Brando nel ruolo di Stanley Kowalski, Jessica Tendy nel ruolo di Blanche DuBois, Karl Malden in quello di Mitch e Kim Hunter in quello di Stella.

Neanche due anni dopo la prima a New York, “Un tram che si chiama desiderio” viene rappresentato in molti altri paesi. A Londra viene diretto da Laurence Olivier con Vivien Leigh nei panni di Blanche (panni che vestirà anche nell’adattamento cinematografico diretto da Kazan), mentre a Parigi è la divina Arletty che la interpreta. Sempre nel 1949 “Un tram che si chiama desiderio” debutta all’Eliseo di Roma, a dirigerlo è Luchino Visconti e gli interpreti sono Vittorio Gassman nei panni di Stanley, la grande Rina Morelli in quelli di Blanche, mentre Marcello Mastroianni è Mitch e Vivi Gioi è Stella.

Tennessee Williams (nato Thomas Lanier Williams III) cambia le regole della narrazione teatrale contemporanea racontando in maniera cruda e crudele la caduta agli inferi di una donna complessa e contraddittoria, quasi impossibile – allora – da codificare.

Blanche DuBois, con tutte le sue contraddizioni, diventa una delle icone femminili del Novecento vittima di se stessa e fagocitata dalla incontenibile voracità sessuale degli uomini, incarnata nel rude e carnale Stanley.

Ma Blanche rappresenta anche quell’anima decadente e decaduta del Sud che, a distanza di quasi un secolo, ancora non ha accettato la sconfitta inflittagli dal Nord nella sanguinosa guerra civile. E’ lei che, tentando di vivere nella vana illusione dei “tempi andati”, pagherà il prezzo più alto della sconfitta del Sud, fatto di antiche magioni il cui passare del tempo era dettato da quello delle immense piantagioni, conquistato e piegato dal Nord, centrato invece sul profitto l’efficenza e il progresso.

E se Blanche è un personaggio innovativo, lo è ovviamente anche il suo contraltare Stanley, l’uomo che ne determina la definitiva rovina. Ma soprattutto Stanley Kowalski, che come Blanche è un personaggio ambiguo con lati oscuri (e anche violenti visto che picchia sua moglie Stella incinta) rappresenta anche la sessualità animale e viscerale.

Insieme a “Lungo viaggio verso la notte” di Eugene O’Neill e “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, “Un tram che si chiama desiderio” è considerato, giustamente, uno dei maggiori testi teatrali americani, che ancora oggi conserva intatta tutta la sua potenza narrativa.

Per la chicca: tutti i riferimenti che nel testo Williams fa di New Orleans (città in cui si svolge l’azione) sono veri, compreso il tram che si chiama “Desiderio” che prende all’inizio Blanche per raggiungere la casa di sua sorella Stella.

“Potter Potted – L’esperienza potteriana non autorizzata in una parodia di Dan e Jeff” di Daniel Clarkson e Jefferson Turner

(UK, dal 2007)

Tutto nasce ovviamente dal genio planetario della grande J. K. Rowling.

All’uscita del “Principe Mezzosangue”, il sesto libro della mitica serie su Harry Potter, una delle grandi librerie di Londra ebbe la strepitosa idea di ingaggiare due attori per intrattenere le persone in attesa nelle lunghe file.

Alla base c’era un recap, una sorta di sintesi recitata dei libri precedenti, fatta in pochi minuti. Con il passaparola il piccolo spettacolo iniziò ad avere sempre più successo fra le file davanti alle librerie.

Con il passare degli anni e l’uscita dell’ultimo capitolo della saga, “Potter Potted” da pochi minuti arriva a superare l’ora. Nel 2007 approda in teatro e col passare del tempo, e girando in tutto il mondo, riscuote un enorme successo e vince numerosi premi.

Finalmente questo particolare, atipico e divertentete spettacolo teatrale è approdato anche nei nostri teatri, regalandoci oltre settanta minuti di esilerante parodia sul fantastico mondo di Harry Potter.

Davide Nebbia e Mario Finulli sono i bravissimi interpreti della nostra versione, fatta per amanti del mondo di Hogwarts, e non solo.

“Don Giovanni” di Mozart secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio

(Italia, 2018)

Da secoli il mito tetro ma sempre fascinoso del Don Giovanni attraversa la cultura planetaria. Alcune delle sue rivisitazioni sono diventate esse stesse capolavori immortali della musica, del teatro e del cinema.

Ma non è semplice confrontarsi con un tale “mostro sacro” del nostro immaginario collettivo. Non sono pochi, infatti, gli autori come gli interpreti di adattamenti poco credibili.

Quello, invece, che ha realizzato l’Orchestra di Piazza Vittorio va messo fra quelli più riusciti e innovativi realizzati negli ultimi tempi.

L’atmosfera è quella degli anni Venti e Don Giovanni (interpretato da Petra Magoni) ha le movenze e gli abiti molti simili a quelli del grande Cab Calloway del leggendario Cotton Club.

Con pianoforte, tastiere, basso, contrabbasso, batteria e chitarre ripercorriamo le arie più splendide e i momenti più drammatici dell’opera suprema di W.A. Mozart.

Più di un’ora e mezza di grande musica contemporanea, con grandi accenti sudamericani, struggenti e coinvolgenti, tutta dal vivo.

E se qualcuno mette in discussione che il “Don Giovanni” sia l’opera suprema di Mozart, può parlare direttamente con mio gatto, che si chiama Leporello…