“Renzo e Luciana” di Mario Monicelli

(Italia, 1962)

Il film “Boccaccio ’70” prodotto da Carlo Ponti nasce da un’idea di Cesare Zavattini, che prevedeva quattro differenti episodi: “Il lavoro” diretto da Luchino Visconti, “La riffa” diretto da Vittorio De Sica, “Le tentazioni del dottor Antonio” diretto da Federico Fellini e “Renzo e Luciana” diretto da Mario Monicelli.

Al Festival di Cannes, dove il film sarebbe stato presentato in anteprima mondiale fuori concorso, Ponti decise di tagliare il segmento di Monicelli perché la pellicola risultava troppo lunga e non commerciabile all’estero secondo gli standard cinematografici di allora. In realtà, secondo le cronache e le testimonianze dell’epoca, fra cui quella dello stesso Monicelli, il suo episodio era quello più graffiante e al tempo stesso malinconico, con un cast sconosciuto – per questo poco vendibile all’estero – e una critica dura alla nostra società tanto ingenuamente ancora incantata dal Boom economico.

Così lo stesso regista si rivolse ad un magistrato francese che obbligò il Festival a proiettare la pellicola nella sua versione integrale, così come era stata presentata. Poche ore prima della proiezione però, Ponti riuscì ad impugnare la vertenza, con l’appoggio dell’organizzazione del Festival, e il film venne presentato senza “Renzo e Luciana”.

La cosa provocò non poche proteste, tanto che altri registi presenti a Cannes con un loro film, per solidarietà a Monicelli, non parteciparono alla kermesse e non rilasciarono interviste come Michelangelo Antonioni con il suo “La notte” e Pietro Germi con “Divorzio all’italiana”. A pensare oggi a quel 1962, con la situazione del nostro cinema contemporaneo …vengono le coliche.

Sulla scia delle polemiche, che alla fine fecero un’enorme pubblicità, nelle nostre sale il film arrivò con tutti e quattro gli episodi, e si apre proprio con “Renzo e Luciana” scritto dalla grande Suso Cecchi D’Amico, Italo Calvino, Gianni Arpino e lo stesso Monicelli.

Luciana (Marisa Solinas) e Renzo (Germano Gilioli) lavorano in una grande ditta a Milano. Lei è una addetta alla computisteria mentre lui è un magazziniere. Nella loro azienda però è vietato sposarsi fra colleghi e, per una donna, rimanere incinta: pena il licenziamento immediato.

Così i due nascondono a tutti i loro amore e, soprattutto, il loro matrimonio “clandestino” avvenuto nella pausa pranzo di un giorno feriale, nella baracca che ospita provvisoriamente la parrocchia del loro quartiere cantiere che si sta espandendo in maniera esponenziale.

Luciana ha fatto tutti i calcoli al centesimo e così, anche prima del matrimonio, i due sono riusciti a comprare, dopo aver firmato una montagna di cambiali, i mobili e gli elettrodomestici per il loro nido d’amore. Ma senza una base economica non si possono permettere ancora un appartamento.

La volitiva Luciana è riuscita, comunque, a convincere i suoi genitori a cedere loro la camera da letto, ma a partire proprio dalla prima notte di nozze la convivenza sembra molto difficile. Un forte ritardo fa temere a Luciana di essere incinta, e a complicare definitivamente le cose ci si mette il Ragioniere capo di Luciana – un prepotente arrogante ed antipatico Don Rodrigo dal colletto bianco – che, convinto che lei sia ancora nubile e senza fidanzato, inizia a farle insistentemente la corte.

I due, così, dovranno scegliere fra la loro dignità o un lavoro ben retribuito…

Tratto dal racconto “L’avventura di due sposi” scritto da Calvino nel 1958 e che appartiene alla prima parte de “Gli amori difficili”, questo “Renzo e Luciana” richiama, con ironia, l’opera massima di Alessandro Manzoni. Ma se “I promessi sposi” si chiude con il coronamento del sogno d’amore di Renzo e Lucia che ottimisti guardano al loro futuro, i loro successori Renzo e Luciana vengono fagocitati dal Boom.

Il profitto e il capitalismo spinto all’eccesso, rendono loro delle “semplici” forza lavoro ad uso e consumo di chi ha in mano i cordoni della borsa del nostro Paese. E così per loro l’importante non è più vivere il loro sogno d’amore, ma arrivare a fine mese, senza poter pensare ad altro.

Sono passati oltre sessant’anni dalla realizzazione di questa pellicola, e in questo lasso di tempo nel nostro Paese sono accadute molte cose. Ci sono state rivoluzioni ma nulla è cambiato, e forse le cose sono pure peggiorate, è crollato il Muro di Berlino, è cambiato drasticamente il panorama politico e si sono succeduti Governi di colori differenti.

Ma nell’ultimo periodo la maggior parte delle famiglie italiane, soprattutto negli ultimi due anni, ha lavorato soprattutto per pagare le utenze arrivando in bilico a fine mese. E pure siamo uno degli 8 paesi più industrializzati del Pianeta. E allora come è possibile?

Forse perché alla fine la famigerata “lotta di classe” l’hanno vinta i “ricchi”, molti dei quali protestavano ferocemente in strada nel ’68. E quello che rende immortale questo episodio è proprio la sua incredibile lungimiranza, anche prima della “contestazione” e dell’inizio “ufficiale” della lotta di classe, Cecchi D’Amico, Calvino, Arpino e lo stesso Monicelli lo avevano lucidamente intuito. Forse per questo venne così osteggiato alla sua presentazione.

A fare da sfondo a questa storia così tristemente attuale, c’è una Milano in piena espansione, un grande cantiere a cielo aperto pieno di sogni e pronto ad accogliere chi è convinto di trovare nella città meneghina un futuro migliore.

Non è un caso, quindi, se Monicelli inserisce nella colonna sonora del film “La ballata del Cerutti” interpretata da Giorgio Gaber e scritta da questo assieme a Umberto Simonetta, che è una delle canzoni simbolo di quegli anni, anni in cui Milano si trasforma, senza controllo, in una metropoli con i suoi lati positivi e purtroppo negativi.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Lo sbarbato” di Umberto Simonetta

(Baldini & Castoldi – La Nave di Teseo, 2021)

Pubblicato per la prima volta nel 1967 questo “Lo sbarbato” rappresenta l’esordio letterario di Umberto Simonetta (1926-1998) tra le figure più rilevanti della nostra cultura del secondo Novecento. Nato in Svizzera, dove il padre esule antifascista si era trasferito, Umberto Simonetta dopo la fine del conflitto mondiale diventa milanese d’adozione e approda nel mondo della rivista e, assieme a Guglielmo Zucconi, scrive numerose commedie per i divi dell’epoca come Gino Bramieri e Tino Scotti.

Inizia anche a collaborare con “I due Corsari”, il duo formato da Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, e proprio insieme a quest’ultimo nel 1960 scrive la canzone “La ballata del Cerutti” che racconta con sagacia e ironia le fortune e le sfortune di chi nasce e vive nell’immensa periferia milanese, allora in pieno e incontrollato sviluppo.        

Sette anni dopo Simonetta col suo “Lo sbarbato” torna a raccontare la fauna che popola i famigerati bar nella periferia meneghina, dove passano la maggior parte delle loro giornate gli appartenenti al sottobosco della piccola criminalità cittadina.

Ma i tempi sono cambiati e all’orizzonte si staglia quel famigerato ’68 – anno che lo stesso Simonetta prenderà deliziosamente in giro in alcune delle sue commedie più caustiche – che porterà con sé oltre a giusti e intramontabili ideali – la stragrande maggior parte dei quali però rimarrà solo nelle idee ma non nei fatti… – anche il lato più oscuro della violenza urbana.

Così assistiamo a circa un anno nell’esistenza del sedicenne Mario Mereghetti, figlio della ricca borghesia milanese che ha preso a frequentare uno dei classici bar di periferia. Nonostante suo padre sia un alto dirigente di una famosa fabbrica di automobili meneghina e lui frequenti uno dei licei più aristocratici della città, Mario non si sente a proprio agio nel suo ambiente.

Un pomeriggio a un biliardo, per caso, incappa in un diciannovenne dall’ottima stecca che tutti chiamano “Mangia” (che non a caso ricorda tanto quel Cerutti Gino de “La ballata del Cerutti”). Fra i due nasce una particolare amicizia e per Mario diventare complice del Mangia nei piccoli furti che questo compie per sopravvivere diventa vera e propria ragione di orgoglio. Lui certo non ha problemi economici, con tanto di cameriera fissa a casa, ma sogna lo stesso di comprarsi una Lambretta – forse la stessa che qualche anno prima ha tentato di rubare il Cerutti Gino… – che suo padre, il volitivo e “nostalgico” Ingegner Mereghetti, si guarda bene da regalargli.   

Ma se il Mangia, nonostante l’età, si rifà alla vecchia e casalinga tradizione della storica “mala” milanese, Mario invece vuole di più, e così riesce a rimediare oltre che un coltello a serramanico anche un “cannone”…

Amaro e bellissimo romanzo di formazione di un appartenente a quella generazione che qualche decennio dopo verrà battezzata “Boomer”. Ma soprattutto “Lo sbarbato” è un lucido, calzante e inquietante ritratto antesignano di quello che qualche anno dopo sarebbe potuto diventare un terrorista.   

Come con l’indimenticabile “I viaggiatori della sera”, anche ne “Lo sbarbato” Simonetta ci narra con tagliente e a volte feroce ironia i lati più spinosi e oscuri della nostra società.


“La Patria che ci è data” a cura di Umberto Simonetta

(Bompiani, 1974)

Nel 1974 Umberto Simonetta (1926-1998), uno dei nostri più rilevanti umoristi nonché scrittore – autore dell’ottimo “I viaggiatori della sera” – drammaturgo, paroliere nonché giornalista, raccoglie e pubblica alcuni dei più graffianti testi comici contemporanei del cabaret italiano.

Nella prefazione lo stesso Simonetta fa il punto sulla – allora – “breve” storia del nostro cabaret che ormai da tempo si discosta da quel teatro di rivista e avanspettacolo che fino a poco tempo prima faceva da padrone nel comico nostrano.

Naturalmente il “puro” cabaret italiano nasce a Milano agli inizi degli anni Sessanta in locali come il “Derby Club” e successivamente nel “Nebbia Club”. Nel 1965 il cabaret approda anche a Roma grazie a Maurizio Costanzo che apre il “Cab 37” in via della Vite. A recitare sui palchi arriva una nuova generazione che sempre più spesso non è mai stata sulle tavole storiche del teatro leggero italiano. Oltre che quella di attori si forma una nuova generazione di autori – molti dei quali fanno parte di entrambe le categorie – che a metà del decennio successivo Simonetta riunisce in questo volume.

Sono, in ordine di pubblicazione: Silvano Ambrogi, Felice Andreasi, Sandro Bajini, Roberto Brivio, Mario Castellacci e Pierfrancesco Pingitore, lo stesso Maurizio Costanzo, Giorgio Gaber, Roberto Mazzucco, Maurizio Micheli, Franco Nebbia, Enzo Robutti, Nanni Svampa, Enrico Vaime, Walter Valdi, Paolo Villaggio e Saverio Vollaro.

L’anno di pubblicazione di questo volume la dice lunga sulla lungimiranza di Simonetta, visto che di lì a breve verranno liberalizzate le frequenze televisive e nasceranno le cosiddette tv private che nel corso degli anni porteranno il cabaret e i suoi interpreti dagli scantinati dei piccoli locali direttamente nelle case di tutto il Paese. Cosa che farà, naturalmente, anche il cinema con un nome su tutti: Paolo Villaggio.

E’ innegabile che molti sketch contenuti nel libro risentano dei decenni passati, visto soprattutto in relazione a come e quanto è cambiata la nostra società, come per esempio quelli firmati da Castellacci e Pingitore molto più vicini alle semplici parodie e alle facili allusioni sessuali tipiche del “vecchio” avanspettacolo che a quello verso cui punterà negli anni successivi il vero cabaret italiano.

Immortali rimangono invece alcuni i cui autori, non a caso, restano scolpiti nella nostra cultura come Giorgio Gaber o Paolo Villaggio. Ancora divertenti e graffianti gli scritti di Maurizio Micheli, Felice Andreasi, Enrico Vaime e Saverio Vollaro.

Al di là del piacere di ridere, questo libro è davvero un importante documento storico della nostra cultura e soprattutto della nostra società.

Per la chicca: il titolo di questa antologia prende spunto da una battuta dello sketch “Sdegno de frate Jacopone sopra li scandoli” di Saverio Vollaro, contenuto nel libro.

“Ci vuole orecchio – Elio canta e recita Enzo Jannacci” di Giorgio Gallione

(Italia, 2022)

Enzo Jannacci (1935-2013) è stata una delle personalità più rilevanti della nostra cultura – e non solo – a partire dal Secondo Dopoguerra e fino al ridosso della sua scomparsa. Dopo essersi diplomato al Conservatorio di Milano in armonia, composizione e direzione d’orchestra inizia a frequentare scantinati e vecchi garage che stanno diventando cabaret nella Milano in piena esplosione del Boom dove conosce, fra gli altri, Dario Fo.

E’ lui il padre putativo di quello che diventerà il grande cabaret milanese, forgiando intere generazioni di comici (Cochi & Renato, Diego Abatantuono solo per citarne un paio) e partecipa anche ad alcuni film come “La vita agra” di Lizzani – dove canta in un bar “Ti te se’ no” e ambientato proprio nella sua Milano – o il caustico “L’udienza” di Marco Ferreri.

Musicalmente nel 1957 partecipa al primo “Festival italiano di rock & roll” che si tiene nel Palazzo del Ghiaccio del capoluogo lombardo con il gruppo dei Rock Boys su richiesta del cantante e leader del gruppo Adriano Celentano. Il successo è clamoroso tanto da aprire definitivamente le porte al nuovo ed esplosivo genere musicale nel nostro Paese.

Sempre in quegli anni Jannacci conosce un altro giovane musicista che come lui ha la passione per il cabaret e che come lui suona insieme a Celentano: Giorgio Gaber, con cui forma il duo “I due corsari”. Intanto proseguono i suoi studi in medicina e dopo la laurea nel 1967, Jannacci si trasferisce in Sud Africa e poi negli Stati Uniti per prendere la specializzazione, entrando nell’equipe di Christiaan Barnard, il primo cardiochirurgo nella storia ad eseguire un trapianto di cuore.

Il tutto “condito” da circa trenta album registrati da solista dove Jannacci interpreta le sue canzoni assieme a quelle di altri autori, spesso al momento non così famosi, come per esempio la strepitosa “Bartali” incisa nel 33 giri “Foto Ricordo” e scritta da Paolo Conte. Nella storia della musica italiana rimangono, assieme a molte altre come “Se me lo dicevi prima” del 1989, “Vengo anch’io, no tu no” e “Ho visto un Re” entrambe scritte insieme a Dario Fo, ed entrambe pesantemente perseguitate dalla censura, soprattuto quella della televisione, perché considerate “troppo politiche”.

Così Elio, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa, da buon milanese ma soprattutto da buon italiano – perché Enzo Jannacci appartiene al patrimonio culturale di tutto il nostro Stivale – canta alcune delle canzoni di Jannacci più famose e più significative per Milano, intervallando la musica con alcuni sketch nella grande tradizione del suo cabaret.

Uno spettacolo da ridere e cantare, scritto da Giorgio Gallione e arrangiato da Paolo Silvestri, ricordando un grande artista che davvero ci ha fatto e ci farà per sempre ridere, piangere e soprattutto pensare. A suonare, cantare e recitare sul palco con Elio ci sono Alberto Tafuri, Martino Malacrida, Pietro Martinelli, Sophia Tomelleri e Giulio Tullio.

“Il minestrone” di Sergio Citti

(Italia, 1981)

Questo film, prodotto dalla RAI e scritto dalla coppia Sergio Citti e Vincenzo Cerami, è stato presentato al Festival di Berlino nel 1981, ma è stato trasmesso dalla nostra rete nazionale solo nel 1985, diviso in tre puntate.

Negli edonistici anni Ottanta la storia dei “morti de fame” Giovannino (Ninetto Davoli) e Francesco (Franco Citti), che si accodano al Maestro (Roberto Benigni) genio del mangiare a quattro ganasce nelle trattorie per poi scappare (fare il “vento”) prima di pagare il conto, sembrava vecchia e obsoleta.

Ma oggi, purtroppo, è pesantemente tornata attuale.

Con un cast di primo livello, tra cui spicca Giorgio Gaber (che nella scena finale è d’applauso) e con quegli elemeti surreali tipici della cinematografia di Citti, “Il minestrone” rimane una delle migliori commedie all’italiana degli anni Ottanta.

Per la chicca: Giampiero Galeazzi interpreta se stesso, telecronista straordinariamente coinvolgente, nel sogno in cui Giovannino immagina di partecipare alle Olimpiadi nella categoria “mangiatori di spaghetti” …e non aggiungo altro.