“Open – La mia storia” di Andre Agassi

 (2011, Einaudi)

Di autobiografie, soprattutto nel mondo dello sport, ce ne sono molte ma questa, scritta da Agassi insieme ad Alfred A. Knopf, è una delle più interessanti.

E’ il lucido affresco di un’infanzia e un’adolescenza di un ragazzo come tanti, passata dietro una racchetta costretto da un padre fissato – in maniera maniacale – del tennis. Grandi vittorie e dolorose sconfitte sui campi di tutto il mondo, quasi sempre in un’amara e incredibile solitudine.

Il matrimonio con Brooke Shields e il suo naufragio, la nuova vita sentimentale con Steffi Graf e la nascita dei loro due figli, il tutto raccontato con uno stile lucido e coinvolgente. Indimenticabile il giorno della presentazione delle rispettive famiglie quando i due padri, il signor Agassi e il signor Graf, finiscono quasi per picchiarsi per dimostrare chi ha insegnato il tennis migliore al proprio figlio.

Finito il libro diventa fin troppo chiaro perché Agassi e la Graf auspicano che i loro figli di facciano tutto nella vita …tranne che giocare a tennis.

“I sette peccati capitali e le sette virtù capitali“ di Giorgio Scerbanenco

(2010, Garzanti)

Il formato racconto nella nostra cultura editoriale ha una scarsissima diffusione, soprattutto poi se l’autore è un italiano.

Non voglio dilungarmi troppo sul concetto che il racconto è stata la palestra dove hanno mosso i primi passi quasi tutti i più grandi autori mondiali, e che ignorarlo significa annullare di fatto l’ambito principe in cui si formano le nuove leve: la ricchezza di racconti è il sintomo principale di una letteratura viva e fresca (la quasi nullità di riviste italiane dedicate alla pubblicazione di racconti inediti la dice lunga sullo stato della letteratura del nostro Paese).

Ma torniamo a Scerbanenco: questi quattordici racconti segnano uno degli apici della narrativa italiana del secondo Novecento. Quattordici viaggi indimenticabili creati da un autore fin troppo spesso dimenticato.

Assolutamente da leggere.

“La spartizione” di Piero Chiara

(1964/2009 Oscar Mondadori)

Emerenziano Paronzini è un uomo volitivo, e adesso che è giunto alla decisione di prender moglie nulla può fermarlo.

Fra le donne in età da marito disponibili e con un’ottima rendita, nel piccolo paese di Luino, i suoi attenti studi lo portano a concentrarsi sulle tre sorelle Tettamanzi: Fortunata, Camilla e Tarsilla.

Dopo un’assidua frequentazione di casa Tettamanzi, il Paronzini sceglie e si dichiara a Fortunata, la maggiore. Ma con metodo e perseveranza riuscirà a diventare, di fatto, il marito anche delle altre due sorelle, costi quel che costi…

Un delizioso affresco della provincia borghese italiana del Ventennio. Da questo romanzo Alberto Lattuada, con la collaborazione alla sceneggiatura dello stesso Chiara, ha tratto il film “Venga a prendere il caffè da… noi” (1970) con un grande Ugo Tognazzi nel ruolo del Paronzini.

“Cloud Atlas – L’Atlante delle Nuvole” di David Mitchell

(2005/2012 Frassinelli)

Tutto è collegato.

Ogni battito di ali, ogni sorriso e ogni lacrima fanno parte di una rete di rapporti che collega ogni essere vivente all’altro, superando lo spazio e il tempo.

Dal viaggio di un giovane notaio nei mari del sud in pieno Ottocento, ai vezzi musicali di un promettente musicista degli anni Trenta, passando dalla voglia di giustizia di una giovane giornalista agli inizi degli anni Settanta fino a un futuro prossimo e a uno ancora più lontano.

Con una struttura circolare Mitchell costruisce un’infinita serie di storie e di vite nelle quali però non ci si perde mai.

Che poi Tom Tykwer e i fratelli Wachwoski ne abbiano voluto fare un film …è un’altra storia.

“L’uomo del banco dei pegni” di Sidney Lumet

(USA, 1964)

Sol Nazerman (un indimenticabile Rod Steiger) gestisce un banco dei pegni in uno dei quartieri più popolari di New York: Harlem.

Per la sua indole fredda e distaccata riesce ad approfittarsi al meglio dei disperati che entrano nel suo negozio. Sol, infatti, non prova più niente. Da quando, unico della sua famiglia, è tornato dai campi di sterminio nazisti, le sue emozioni sono letteralmente sparite.

Solo Jesus, il giovane commesso portoricano che lo aiuta nella sua attività, sembra riuscire ad avvicinarlo. E quando questo, per proteggerlo, cade sotto i colpi di un rapinatore, Sol decide di tornare a “sentire”…

Tratto dal romanzo di Edward Lewis Wallant e con le musiche di Quincy Jones, “L’uomo del banco dei pegni” è uno delle opere più emozionanti che il cinema ha dedicato all’Olocausto.

L’uscita della pellicola negli Stati Uniti suscitò numerose polemiche soprattutto per le scene di nudo di donna – allora inconcepibili in un film “drammatico” per il grande pubblico – e per gli stereotipi con cui, secondo alcuni, vennero ritratti gli afroamericani e i latinoamericani come i “soliti” criminali, e gli ebrei come i “soliti” strozzini.

Se la sceneggiatura del film forse possiede alcune lacune, è giusto ricordare la splendida interpretazione di Steiger e la riuscita di alcune scene indimenticabili come quella del flashback di Sol che viene quotidianamente straziato dal ricordo della morte del piccolo figlio che, sul vagone piombato che li stava portando in un campo di sterminio dopo infiniti giorni in piedi senza acqua né cibo e stretto agli altri deportati, non lo riesce più a tenere sulle spalle e lo lascia inesorabilmente cadere sul pavimento dove verrà inghiottito dal buio per sempre.

Così come quella in cui sempre Sol, davanti al cadavere di Jesus, disperato dal non provare più emozioni sbatte la mano volontariamente sul chiodo ferma bollette che ha sul bancone per tornare, almeno per qualche istante, un vero essere umano.

Una pellicola dura e tragicamente indimenticabile che è giusto riguardare di tanto in tanto, sia per ricordare tutti quelli che dai campi di sterminio non sono tornati, sia per mantenere bene in mente cosa accadde, chi lo fece, chi si oppose e chi, purtroppo, voltò lo sguardo da un’altra parte perché, come disse la maestra alla piccola Liliana Segre: “…le leggi razziali non le ho fatte io!”.

“Le storie degli altri” di Anne Tyler

(2011, TEA)

Barnaby Gaitlin ama osservare le cose e soprattutto le persone.

Osservare a volte può essere pericoloso, ma alla fine è più semplice e pratico che confrontarsi faccia a faccia. Per Barnaby la parola fiducia ha un significato pesante e doloroso, ma nonostante ciò fa un lavoro in cui la fiducia è tutto.

E’ uno dei migliori impiegati della “Due braccia per te”, una piccola società che offre ausilio fisico a persone anziane: dal fare l’albero di Natale a spostare mobili, dall’accompagnare il cliente al supermercato a riordinare la spesa in frigo.

Sembra un lavoro molto modesto, ma Barnaby le sue soddisfazioni se le prende, anche se è un Gaitlin, uno dei cognomi più importanti della città…

Struggente e intimista “Le storie degli altri” emoziona, e neanche poco. Anne Tyler ci regala uno dei romanzi più belli e crepuscolari degli ultimi anni. In una società fatta di contatti e incontri, Tyler ci racconta in maniera sublime la storia di un personaggio che vive di riflesso delle storie degli altri. E lo fa per nascondersi ed evitare il vero confronto che, nella sua di storia, è stato spesso molto doloroso.

Un grande romanzo, da leggere.

“I soliti sospetti” di Bryan Singer

(USA, 1995)

Ma esiste davvero? …E se esiste …chi è Kaiser Sӧze?

Con una splendida sceneggiatura ad orologeria (firmata da Christopher McQuarrie e vincitrice del premio Oscar) e un giovane ma esperto cast (tra cui spiccano Kevin Spacey, Gabriel Byrne, Benicio Del Toro, Chazz Palminteri e Pete Postlethwaite), “I soliti sospetti” ti inchioda davanti allo schermo fino all’epilogo finale, che neanche sotto tortura rivelerei.

Centrato sull’interrogatorio dell’unico testimone sopravvissuto, il vile e menomato informatore “Verbal” Kint (uno stratosferico Kevin Spacey, vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista), il film è un puzzle perfetto, dove ogni elemento combacia perfettamente con l’altro.

E che gusto rivederlo la seconda volta …diavolo di un Sӧze!

Fra i migliori noir di sempre.

“Situazione disperata ma non seria” di Robert Shaw

(1966, Garzanti)

Se di Robert Shaw ho sempre ricordato il suo volto prestato al cinico cacciatore Quint de “Lo squalo” di Steven Spielberg, al cattivo e biondissimo Grant che per poco non riesce ad uccidere Sean Connery in “007 – Dalla Russia con amore” (1963), o al claudicante Doyle Lonnegan che viene gabbato magistralmente da Paul Newman e Robert Redford ne “La stangata” (1973), ho sempre ignorato invece la sua carriera di scrittore.

Sul banco di un mercato di libri usati ho trovato per caso il suo incredibile romanzo d’esordio “Situazione disperata ma non seria”.

Durante la Seconda Guerra Mondiale due soldati alleati vengono paracadutati oltre le linee nemiche sul suolo tedesco, ma finisco per atterrare nel centro di una cittadina. Per salvarsi dal linciaggio accettano l’ospitalità di Frick, un signore tedesco affabile ed educato, che li rinchiude nella propria cantina.

Fra carcerati e carceriere si instaura un rapporto così particolare che alla fine del conflitto Frick continuerà a tenerli prigionieri, mentendo spudoratamente sul suo esito e sulla nuova situazione mondiale.

Se la “situazione” è destinata ad avere accenti drammatici e claustrofobici (che la cronaca reale riprende anche troppo spesso), i suoi protagonisti riescono a divertire, alleggerendo tutto lo sviluppo del racconto.

Nel 1965 Gottfried Reinhardt gira “Situazione disperata ma non seria” la versione cinematografica del romanzo, con Alec Guinness nei panni di Frick e Robert Redford in quelli di uno dei due prigionieri.

“L’avversario” di Emmanuel Carrère

(2000, Einaudi)

Jean-Claude Romand ha una bella moglie, due bambini piccoli, ancora vivi i propri genitori, e soprattutto un bel lavoro da medico.

Romand vive in un paesino francese nei pressi del confine con la Svizzera, che attraversa tutti i giorni per raggiungere il suo posto di lavoro. Ma il 9 gennaio del 1993 il villino dove abitano i Romand va a fuoco.

I soccorritori riescono a salvare solo lui, mentre non possono fare altro che recuperare i cadaveri di moglie e figli. L’evento sconvolge non solo la piccola cittadina, ma tutta la Francia quando gli inquirenti scoprono che la famiglia di Jean-Claude era stata sterminata prima dell’incendio.

Intanto, vengono ritrovati anche i cadaveri dei genitori di Romand: freddati con un fucile da caccia. Durante i primi controlli si scopre che Romand non ha mai lavorato come medico in Svizzera, anzi, non è neanche un medico: non si è mai laureato.

L’ipotesi della classica doppia vita prende subito piede, ma Jean-Claude Romand non aveva una doppia vita. Non ha falciato una famiglia per proteggerne un’altra. Nei diciotto anni di matrimonio Jean-Claude non ha mai lavorato, per inedia e viltà, ha semplicemente fatto passare il tempo stando nella propria macchina, fra i boschi, durante l’orario di lavoro.

Spesso ha finto di andare in trasferta, ma in realtà passava due o tre giorni chiuso nella camera di un hotel dell’aeroporto a guardare la televisione. Per mantenersi ha lentamente rosicchiato il patrimonio dei suoi genitori e quello di suo suocero. Quando alla fine sentiva di stare per essere scoperto ha preferito uccidere chi lo avrebbe giudicato.

La cosa più terribile è che Jean-Claude esiste e – al momento – sconta l’ergastolo in una prigione della Francia. Neanche Stephen King sarebbe riuscito ad immaginare un orrore tanto profondo.

“Il vedovo” di Dino Risi

(Italia, 1959)

Che Franca Valeri e Alberto Sordi siano due grandi attori non è una novità. Ma l’idillio fra due giganti della commedia (e del teatro) nel film di Dino Risi è davvero qualcosa di straordinario e irresistibile, anche a distanza di tanti anni.

Che poi lei sia una ricca industriale, lui uno sconclusionato con manie di grandezza, e che siano sposati – in un tempo in cui il divorzio non esisteva, almeno in Italia – crea una miscela davvero esplosiva e immortale (e non a caso il soggetto del film è ispirato liberamente a fatti realmente accaduti nel nostro Paese).

E se il successivo idillio Vitti-Sordi tocca grandi vette della comicità (come in “Amore mio aiutami” dello stesso Sordi), il Valeri-Sordi ha una valore in più: è il simbolo dello scontro, che allora rappresentava l’Italia del Boom, fra gli stereotipi della cultura milanese e quelli della cultura romana, fra l’eccessivo dinamismo lombardo e l’invincibile indolenza capitolina. Il “Cretinetti!” ne contiene tutto il sapore.  

E poi il finale: “Che fa marchese, spinge?” dove lo mettiamo!