“Harriet” di Kasi Lemmons

(USA, 2019)

Harriet Tubman non sapeva né leggere e né scrivere.

Harriet Tubman non possedeva nulla, neanche se stessa. Perché Harriet Tubman era una schiava, nata da una schiava i cui figli sarebbero sempre stati schiavi. Harriet Tubman aveva solo due cose che nessuno poteva portarle via: la fede in Dio e, soprattutto, in se stessa.

Araminta “Minty” Ross (Cynthia Erivo) è nata agli inizi degli anni Venti del XIX secolo nella Contea di Dorchester, nello stato del Maryland (che ha ancora oggi nel suo stemma ufficiale ha il motto in italiano arcaico: “Fatti Maschi Parole Femine“) ed è parte integrante dei beni della famiglia Bordess in qualità di schiava. A tredici anni, per difendere uno dei suoi fratelli, viene colpita da un pezzo di metallo che le rompe la fronte. Rimane quasi due mesi in coma e quando si sveglia inizia a soffrire di emicranie vertigini e di epilessia.

Per Minty le crisi che la colpiscono sono mistiche, le considera dei veri e propri messaggi del Signore. A circa vent’anni Minty è sposata con un uomo libero e grazie ad una clausola relativa all’acquisto di sua nonna è nel pieno diritto di reclamare la propria libertà. Ma Bordess oltre a rifiutare, la mette in vendita con l’intenzione di sbarazzarsi di una schiava scomoda e attacca brighe. Minty, così, decide di fuggire in cerca della libertà, ripentendosi : “O libera, …o morta”.

Incredibilmente, in ventisei giorni, Minty raggiunge Philadelphia, in Pennsylvania, stato che ha abolito la schiavitù e che ospita molti schiavi riusciti a scappare. Sceglie Harriet Tubman come nome di donna libera, ed inizia una nuova vita. Ma le notizie che arrivano dalla Contea di Dorchester non le danno pace. Così decide di tornare per liberare i suoi cari, ma…

Harriet Tubman (1822-1913) nelle sue “incursioni” da donna libera nel Maryland, nonostante i feroci cacciatori di schiavi, libererà oltre settanta fra donne bambini e uomini conducendoli verso la libertà. Durante la Guerra di Secessione comanderà un plotone che libererà oltre settecentocinquanta persone dall’indegno giogo della schiavitù. Sarà poi una delle più impegnate personalità attive a favore del suffragio femminile.

Questo film, con una sceneggiatura – scritta da Gregory Allen Howard e dalla stessa Kasi Lemmons – scorrevole ma non particolarmente brillante, ha comunque il merito di raccontarci la storia di una donna coraggiosa e libera che, anche senza saper leggere o scrivere, saprebbe raccontarci molto bene le radici della tragica e ottusa intolleranza razziale che ancora oggi affligge gli Stati Uniti.

“Enola Holmes” di Harry Bradbeer

(UK/USA, 2020)

Nel 1929 la grande Virginia Woolf nel suo splendido “Una stanza tutta per sé”, descrivendo le immense e troppo spesso insormontabili difficoltà che una donna scrittrice – e non solo – ha incontrato nel corso dei secoli in una società spudoratamente maschilista come quella britannica – …e non solo – ci parla di Judith, l’ipotetica sorella dell’immortale William Shakespeare che, anche dotata del suo stesso inarrivabile ingegno, non sarebbe mai potuta diventare famosa o scrivere tutte le opere che firmò il fratello perché stritolata e soffocata “a causa” della sua condizione di bambina prima, e donna dopo.

La scrittrice americana e docente di scrittura creativa Nancy Springer nel 2006, sulla scia ideale della Judith Shakespeare della Woolf, pubblica “The Case of the Missing Marquess” (primo di una serie, ad oggi, di sei romanzi) la cui protagonista è la giovane Enola Holmes, l’ipotetica sorella minore di Mycroft e Sherlock Holmes.

La sedicenne Enola Holmes (Millie Bobby Brown) vive felicemente con la madre Eudoria (Helena Bonahm Carter) nella grande villa in campagna della famiglia Holmes. Il padre è morto poco prima che lei nascesse e i suoi fratelli Mycroft (Sam Caflin) e Sherlock (Henry Cavill) hanno lasciato la magione da anni. In realtà il vero proprietario è Mycroft, il primogenito, che però ha concesso alla madre e alla sorella di vivere nella villa fino al sedicesimo compleanno di Enola.

Così, proprio la mattina del suo sedicesimo compleanno, Enola scopre che sua madre se ne è andata per sempre. Ma Eudoria non l’ha educata come le altre ragazze (a differenza di Judith): le ha insegnato il combattimento corpo a corpo, la chimica, la scienza e soprattutto la voglia di imparare e scoprire. Grazie ad alcuni indizi la giovane ipotizza che la madre si sia trasferita a Londra. Quando tornano nella villa i suoi due fratelli maggiori, con Mycroft che vuole rinchiuderla in un austero collegio femminile, Enola decide di ritrovare la madre da sola. Ma sulla sua strada inciamperà in un ragazzo…

Sfizioso e godibilissimo film con una protagonista insolita e avvincente, anche per i pignoli amanti del grande Sherlock Holmes come me. La sceneggiatura è firmata da Jack Thorne (autore di quella dell’ottimo “Radioactive” di Marjane Satrapi) ed evidenzia in maniera ironica e intelligente il geniale contrasto creato dalla Springer nel dare all’investigatore più misogino della letteratura planetaria una sorella bella e intelligente come lui …o forse di più.

Insieme a “Vita privata di Sherlock Holmes” di Billy Wilder, “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, “Piramide di paura” di Barry Levinson, “Senza indizio” di Thom Eberhardt e alla serie “Sherlock” di Mark Gatiss, Steven Moffat e Steve Thompson, “Enola Holmes” è una delle migliori opere liberamente ispirate al personaggio immortale creato dal grande Arthur Conan Doyle.

“La sfida del samurai” di Akira Kurosawa

(Giappone, 1961)

L’amante del genere western e “fordiano” dichiarato – nel senso di appassionato del regista John Ford – Akira Kurosawa nel 1961 realizza uno dei suoi capolavori assoluti ambientando una vicenda classica da Far West nel Giappone della fine dell’Ottocento.

Un ronin senza nome (un grande Toshiro Mifune) fa tappa casualmente, nel suo eterno girovagare, in un piccolo paese dilaniato dalla lotta fra le due yakuza Sebei e Ushitora che lo dominano. Il samurai decide di liberare la piccola popolazione dalla doppia tirannia cercando di mettere le due famiglie una contro l’altra.

Il fratello minore di Ushitora, unico nella regione, possiede una pistola e con quella è convinto di annientare qualsiasi katana. Ma il ronin non la pensa allo stesso modo…

Epica e indimenticabile pellicola che è di fatto una delle vere pietre miliari della cinematografica planetaria, scritta dallo stesso Kurosawa – che proveniva da una famiglia di antichi samurai – e Ryûzô Kikushima. La pellicola viene giustamente premiata alla Mostra del Cinema di Venezia dove Mifune vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione e Kurosawa candidato al Leone d’Oro. Il film, però, è rimasto negli annali della storia del cinema anche perché è di fatto la pellicola che ha ispirato Sergio Leone per il suo “Per un pugno di dollari” del 1964.

Probabilmente Leone non pesava che il suo primo film con Clint Eastwood potesse riscuotere un successo così clamoroso in tutto il mondo, e così girò una sorta di remake senza la minima autorizzazione. I produttori fecero causa a Leone alla fine della lite legale fu costretto a stornare a Kurosawa e ai suoi produttori parte dei guadagni e a cedergli i diritti di distribuzione del suo film in Asia.

Questo ovviamente non toglie nulla all’opera di Sergio Leone che rimane comunque un’altra pietra miliare del cinema mondiale, visto poi che se la storia e alcuni particolari sono davvero molto simili (Mifune appare per la maggior parte del film con uno stecchino in bocca, che diventa un sigaro per Eastwood; così come lo scontro epico fra katana e pistola di Kurosawa, si trasforma in pistola e fucile per Leone) la potenza visiva di Leone è ancora oggi difficilmente eguagliabile (per non parlare delle musiche del maestro Morricone).

Da vedere, che amiate il sushi o gli spaghetti …western.

“Il giovane Wallander” di Ben Harris

(UK, 2020)

Nel 1991 viene pubblicato in Svezia “Assassinio senza volto” di Henning Mankell, in cui appare per la pima volta fra le righe di un libro il commissario Kurt Wallander. Dopo Martin Beck, nato dalla penna geniale della coppia Maj Sjöwall e Per Wahlöö, Kurt Wallander è senza dubbio il commissario più famoso della Scandinavia, protagonista di una dozzina di libri che nel corso degli anni sono stati tradotti in quasi tutte le lingue.

Purtroppo Mankell è scomparso nel 2015 dopo aver combattuto strenuamente contro un cancro, facendo fede al credo del suo personaggio più famoso: “…non arrendersi mai”. Così, noi tristi lettori, ci eravamo già rassegnati a non vivere più una nuova indagine del suo commissario, ma dallo scorso 3 settembre è disponibile su Netflix la serie, di produzione inglese e in sei puntate, “Il giovane Wallander” ideata da Ben Harris.

Sulla scia del maestro Andrea Camilleri che in maniera geniale ha donato nuovo spunto e fascino al suo già intramontabile commissario televisivo ideando “Il giovane Montalbano”, Harris torna alle origini. La serie inizia infatti quando il “giovane” Kurt è ancora un semplice agente della Polizia svedese che ha scelto di vivere in una delle periferie più disagiate di Malmö, nella Scania meridionale.

Una sera, proprio sotto il piccolo e solitario appartamento in cui vive Wallander (Adam Pålsson), davanti ai suoi occhi, viene fatta esplodere una granata nella bocca di un ragazzo. La tragedia non fa altro che alimentare la feroce e reazionaria protesta di alcuni svedesi, che vedono negli immigrati che la città sta accogliendo la ragione di ogni male e violenza nel loro Paese.

Proprio perché sul posto al momento del delitto e residente nel quartiere, Wallander viene trasferito quasi di peso nella sezione Grandi Crimini della Polizia di Malmö. A volerlo è il responsabile, il sovrintendete Hemberg (Richard Dillane) che per primo intravede nel giovane le sue grandi doti investigative. Ma…

Gradevole e intrigante serie giallo/noir che centra l’animo del Wallander di Mankell, che in “Assassino senza volto” esterna il suo credo: “Il concetto di giustizia non significa solo che le persone che commettono reati vengano condannate. Significa anche non arrendersi mai”. Così come all’attenzione che Mankell poneva in favore dei più deboli della società come gli immigrati o il sub proletariato urbano.

Ottimo connubio artistico fra la Gran Bretagna e la Svezia che di fatto sono i genitori storici del grande giallo europeo.

“Odio implacabile” di Edward Dmytryk

(USA, 1947)

Il 15 agosto del 1947 esce nelle sale statunitensi “Crossfire”, che da noi verrà distribuito a partire dal 14 febbraio del 1948 col titolo “Odio implacabile”. La sceneggiatura è firmata da John Paxton ed è tratta dal romanzo di Richard Brooks “The Brick Foxhole” pubblicato la prima volta nel 1945.

Brooks (1912-1992) è ancora oggi considerato uno dei più rilevanti sceneggiatori di Hollywood, autore di script di film come “L’ultima minaccia“, “La gatta sul tetto che scotta”, “Il figlio di Giuda” o “A sangue freddo” (questi ultimi due li dirige anche), pubblica con “The Brick Foxhole” un romanzo dedicato all’odio fanatico contro il diverso, rappresentato da un omosessuale. Paxton e la produzione però, per ragioni non solo di censura, cambiano la vittima in un uomo di religione ebraica.

Gli Stati Uniti sono il Paese che più di tutti, fra gli Alleati, sta ottenendo economicamente e strategicamente i migliori risultati per la vittoria conseguita nel Secondo conflitto planetario. Ma gli uomini che poco prima erano al fronte, ora si trovano spaesati e incapaci di reintegrarsi nella società civile che, grazie anche al loro sacrificio, è molto cambiata.

Così molti di loro sono preda di ansie, depressioni e profonde paure, tutte amplificate e fomentate dall’improvvisa scomparsa di un grande nemico. Se i Paesi dell’Asse di Ferro sono stati ormai sconfitti, adesso dove si nasconde il nuovo e implacabile avversario?

Come accade spesso, purtroppo, in tempi di crisi ci sono alcuni che cavalcano le paure degli altri pur di ottenere consenso o sedare le proprie. Come il soldato Montgomery (interpretato ottimamente da Robert Ryan) che ha trovato il suo nuovo nemico in Samules (Sam Levene) uno sconosciuto incontrato in un bar, e che ha l’unica colpa di essere ebreo, e che per questo pesta a morte.

In una serie di flashback concatenati seguiamo l’inchiesta del commissario Finlay (Robert Young) che grazie all’aiuto del sergente Kelley (un granitico Robert Mitchum) riesce ad inchiodare Montgomery. Finlay, per convincere un commilitone dell’omicida a collaborare, gli racconta di come suo nonno, qualche decennio prima, è stato massacrato in quello stesso modo solo perché di religione cattolica in una Paese, come gli Stati Uniti, a maggioranza protestante.

Purtroppo Richard Brooks, da vero intellettuale, aveva il “pessimo” vizio di anticipare tristemente i tempi. E così, pochi mesi dopo l’uscita nelle sale di questa ottima pellicola, proprio a Washington – città dove si svolge il film – inizierà quella triste e infame “caccia alle streghe” contro i famigerati fautori delle cosiddette attività “anti-americane” guidata dal senatore Joseph McCarthy.

Il film viene candidato a cinque Oscar: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e migliori attrice e attore non protagonista a Gloria Grahame e a Robert Ryan. Al Festival di Cannes viene premiato come miglior pellicola d’interesse sociale.

Da vedere e da far vedere a scuola.

“Little Fires Everywhere – Tanti piccoli fuochi” di Liz Tigelaar

(USA, 2020)

Basta essere bella e avere una bella casa per essere una buona madre?

Questa provocatoria domanda è alla base di “Little Fires Everywhere” una serie in otto puntate disponibile ora su Prime Video. Tratta dal romanzo “Tanti piccoli fuochi” dell’americana Celeste Ng e pubblicato nel 2017, la serie entra nella storia personale di due madri che, loro malgrado, rappresentano una congrua parte della società statunitense, e non solo.

1997: Elena Richardson (una davvero brava Reese Witherspoon) è la raffinata moglie dell’avvocato di successo Bill Richardson (Joshua Jackson), madre sempre disponibile e inappuntabile di quattro figli adolescenti: Trip, Lexie, Moody e Izzy. Ma soprattutto Elena vive con la sua famiglia in una delle case più belle e lussuose di Shaker Heights (dove Celeste Ng è veramente cresciuta), un sobborgo di Cleveland, in Ohio.

Nonostante i quattro figli e la grande casa da curare, Elena riesce anche a fare la giornalista per il giornale locale, lo “Shaker Heights Times”. La non poco ostentata anima liberale dei Richardson li ha portati ad essere una delle poche famiglie bianche ricche a non aver abbondato il sobborgo quando questo, qualche anno prima, ha iniziato ad accogliere una sempre più folta comunità per famiglie di colore.

Il governo di Cleveland è arrivato anche a pagare una somma mensile alle famiglie bianche pur di farle rimanere e sostenere l’integrazione. Ma i Richardson sono diversi: per esempio Lexie, la loro figlia maggiore, è fidanzata con Brian, il quarterback di colore del liceo. Elena, quindi, è il simbolo dell’upper class americana benevola e impeccabile che trascina e indirizza il resto del Paese. O così almeno sembra.

Perché quando sulla sua strada “inciampa” in Mia Warren (Kerry Washington), una misteriosa madre single e di colore che insieme a sua figlia Pearl girovaga il Paese con la sua vecchia auto, nella splendida casa di Elena si accendono …tanti piccoli fuochi.

Ideata da Liz Tigelaar (sceneggiatrice di serie come “Dawson’s Creek” o “Brothers & Sisters”) “Little Fires Everywhere” vanta un cast davvero di qualità, fra cui spiccano la Witherspoon e la Washington. E ci racconta, attraverso continui flashback concatenati, la storia di due donne che hanno lottato, senza tregua e con ogni mezzo a disposizione, per far sopravvivere la loro anima. Mezzi che però la vita “restituirà” loro con tutti gli interessi.

Davvero una bella serie di qualità.

“Il filo della memoria” di Paolo Levi

(Rizzoli, 1984)

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice, invece, lo è a modo suo…» con questa grande ed immortale massima il maestro Tolstoj inizia lo splendido “Anna Karenina”; ed è appunto di una grande famiglia che, come tutte le altre ha avuto periodi felici e momenti tristi e tragici, che ci parla questo bellissimo romanzo di Paolo Levi (1919-1989).

Tutto parte da una grande fotografia color seppia scattata a Roma nel 1913, dove sono immortalati tutti i rami di un’antica e storica famiglia italiana di religione ebraica. Sandra, l’io narrante, grazie a pazienti studi di antiche lettere e racconti personali, ricostruisce le dinamiche e gli eventi salienti di ogni ramo, a partire dai primi dell’Ottocento e fino al 1984.

Ovviamente, la grande linea di demarcazione per tutti è la tragedia della Seconda Guerra Mondiale con la persecuzione nazi-fascista delle persone di religione ebraica e non solo. Sandra ci parla dei suoi genitori e della famiglia che lei ha creato insieme ad Enrico, conosciuto mentre era in esilio in Svizzera per scampare ai campi di concentramento.

Sandra ci racconta anche come, proprio a causa della guerra e della vile caccia spietata subita, la sua generazione sia la prima che si rifiuta di continuare a subire le persecuzione figlie dell’antisemitismo e a reagire. Quando lentamente i lutti e le profonde ferite fisiche e morali iniziano ad alleggerirsi, Sandra insieme a figli e marito, affronta il famigerato Boom economico e la società del “Benessere”, per poi approdare al ’68, ai bui anni Settanta e alla prima parte dei “luminosi” Ottanta, che però…

Levi ci regala un’indimenticabile romanzo storico e sociale, che ripercorre quasi due secoli di storia italiana, e che ci racconta da dentro l’essenza – croce e delizia… – dell’elemento alla base della nostra cultura: la famiglia.

Da leggere, anche se attualmente questo bel romanzo italiano è incredibilmente – e aggiungo pure vergognosamente – fuori catalogo, e reperibile solo nel mondo dell’usato.

“L’inchiesta dell’ispettore Morgan” di Joseph Losey

(UK, 1959)

Tratto dal romanzo del giornalista ed editore Lee Howard e scritto per lo schermo da Ben Barzman e Millard Lampell, “L’inchiesta dell’ispettore Morgan” è un thriller noir d’annata, fra i migliori del cinema britannico degli anni Cinquanta e Sessanta estraneo agli adattamenti dei due maestri assoluti del mistero quali Arthur Conan Doyle e Agatha Christie.

Se il generico titolo in italiano ci anticipa solo che assisteremo alle indagini di un ispettore di Polizia, quello in inglese “Blind Date” – che è il titolo originale del romanzo di Howard – è molto più accattivante.

Ci troviamo così per le strade di una solare Londra – quella che di lì a poco diventerà la “Swinging London” – e seguiamo il giovane Jan (un bravissimo Hardy Krüger) vagare felice ed emozionato per strada, comprare un mazzetto di fiori e salire le scale che portano in un riservato appartamento nel cuore della capitale britannica.

L’ambiente sembra deserto e Jan, dopo aver chiamato più volte il nome di “Jacqueline”, mette un disco jazz e si sdraia sul divano ad aspettarla. Poco dopo però viene interrotto dall’arrivo di un agente di Polizia seguito da un sergente (che ha il volto di Gordon Jackson, probabilmente il più famoso attore comprimario scozzese) che lo intima di non muoversi. Jan pensa ad uno scherzo, ma le cose precipitano all’arrivo dell’ispettore Morgan (Stanley Baker) che lo accusa dell’omicidio dell’inquilina dell’appartamento Jacqueline Cousteau, il cui corpo giace senza vita sotto alcuni cappotti all’ingresso.

Inizia un duro e scontroso interrogatorio fra Morgan e Jan che, in una lunga serie di flashback, ricostruisce la sua problematica storia d’amore con Jacqueline (Micheline Presle), ma…

Losey, anche attraverso il viso e la mimica del suo attore britannico preferito Stanley Baker, ci parla di perbenismo e ipocrisia, e soprattuto di come nella Gran Bretagna di quegli anni la legge poteva non essere uguale per tutti, realizzando un film insolitamente carnale per quegli anni (anche se ovviamente tutto ciò che riguarda il sesso è decisamente dissimulato) come sottinteso dall’efficace locandina originale.

Un piccolo gioiellino in bianco e nero per amanti del genere.

Il dvd, che riporta fortunatamente la versione col doppiaggio originale fatto quando la pellicola venne distribuita nelle nostre sale (1961) con l’indimenticabile Nando Gazzolo che doppia Baker, è privo della sezione extra.