“Buon compleanno Mr. Grape” di Lasse Hallström

(USA, 1993)

Peter Hedges (classe 1962) pubblica nel 1991 il romanzo “What’s Eating Gilbert Grape” che racconta, in maniera molto particolare, la drammatica storia di una famiglia della provincia rurale americana.

Due anni dopo Lasse Hallström, regista svedese ma ormai stabilitosi a Hollywood (dove ha firmato pellicole come “Chocolat” o “Le regole della casa del sidro”) dirige il suo adattamento cinematografico, la cui sceneggiatura è firmata dallo stesso Hedges.

Nella piccola cittadina di Eldora, nello stato dell’Iowa, tutti si conoscono da sempre. Ma la famiglia più chiacchierata è senza dubbio quella dei Grape, che vivono in una vecchia e malandata casa di campagna.

Il motivo è soprattutto la tragedia, consumatasi 17 anni prima, e le sue tristi conseguenze. Il signor Grape, infatti, si è impiccato nello scantinato della casa. La scomparsa del marito ha portato la signora Grape (Darlene Cates) a rifiutarsi di uscire di casa per rimanere tutto il giorno e tutta la notte seduta sul divano per vedere la televisione e per mangiare voracemente, ingrassando sempre di più.

I cinque figli, nonostante la giovane età, sono stati così costretti ad occuparsi della madre e gli uni degli altri. Il maggiore Gilbert (Johnny Depp), per portare i soldi a casa ha abbandonato gli studi per fare l’inserviente presso il grande negozio di alimentari di Eldora, dove si occupa anche delle consegne domiciliari.

Oltre che della madre e delle sue due sorelle, Amy (Laura Harrington) ed Ellen (Mary Kate Schellhardt), Gilbert si sente responsabile soprattutto di Arnie (uno stratosferico Leonardo DiCaprio) suo fratello minore, affetto da un ritardo cognitivo, che ha una incontenibile passione per l’alta cisterna dell’acquedotto della città.

Fra i pochi che aiutano Gilbert c’è il suo amico Tucker Van Dyke (John C. Reilly), ottimo carpentiere, che cerca in ogni modo di tenere in piedi la vecchia casa. Nel mondo di Gilbert ha un ruolo importante anche la signora Carver (Mary Steenburgen), assidua cliente del negozio di alimentari, che vuole regolarmente le consegne a casa visto che ha una relazione extraconiugale con lo stesso Gilbert.

Annualmente a Eldora passa una carovana di camper, cosa che rappresenta un vero e proprio evento per Arnie. Proprio accompagnando il fratello sulla statale per vedere la lunga fila di veicoli, Gilbert incontra Becky (Juliette Lewis) una ragazza che gira il Paese nel camper della nonna…

Insolita e struggente pellicola intimista, ottimamente diretta, che ci parla di come l’amore, quello vero, sia fondamentale nella vita. In un mondo fatto troppo spesso di egoismo, vigliaccheria e cattiveria, solo chi è veramente disposto ad amare e farsi amare, sapendo anche lasciare andare le cose – anche quelle più devastanti – forse alla fine può sopravvivere.

Con un ottimo cast composto da bravissimi giovani attori allora poco conosciuti – ad esclusione di Depp già abbastanza famoso – che però nel corso degli anni sono diventati delle vere icone di Hollywood, questo fil merita sempre di essere visto.

Su tutti però deve essere sottolineata la superba interpretazione di Leonardo DiCaprio che riceve, giustamente, la candidatura all’Oscar come migliore attore non protagonista, che però inspiegabilmente poi non vince.

“Benny & Joon” di Jeremiah S. Chechik

(USA, 1993)

Questa pellicola, apparsa sul grande schermo agli inizi degli anni Novanta, è divenuta nel corso del tempo una delle più rappresentative del giovane cinema americano di quel decennio.

E questo non solo perché alcuni dei suoi protagonisti, a partire da Johnny Depp, sono diventati vere e proprie star di Hollywood – come anche Julianne Moore – ma perché parla con sincerità e lucidità della generazione che quel decennio lo stava affrontando da poco più che adulta.

Inoltre, mi è già capitato di sottolineare come nel mondo anglosassone, e soprattutto nella cultura degli Stati Uniti, parlare di disabilità sia molto più semplice e onesto, rispetto che nella nostra, dove è difficile per qualcuno evitare compassione o pietà, che spesso nascondono poi ignoranza e pregiudizi.

Così, questa pellicola, ci parla senza ipocrisie dell’autismo e delle sue problematiche nella vita quotidiana di una ragazza di vent’anni.

In una piccola cittadina nella provincia degli Stati Uniti vivono Benny (Aidan Quinn) e Joon (Mary Stuart Masterson) Pearl. Abitano da soli in una grande casa sul fiume, perché poco più di dieci anni prima i loro genitori sono morti in un incidente automobilistico.

Benny è il proprietario di un’officina e la sua vita consiste, soprattutto, nel lavorare e badare a sua sorella minore Joon, che è afflitta dai disturbi dello spettro autistico. Col passare del tempo Benny ha sacrificato tutta la sua vita personale per la sorella, ma lo sente come un dovere irrinunciabile che i suoi genitori idealmente gli hanno lasciato.

Uno dei pochi svaghi del ragazzo è la partita settimanale a poker con gli amici, fra cui spicca Eric (Oliver Platt) il suo aiutante in officina. Le partite però non si giocano a soldi, ma a beni che ogni giocatore è pronto a scommettere. Proprio durante una di queste Joon, approfittando dell’assenza temporanea del fratello, decide di giocare una mano alla fine della quale vince la posta in gioco: Sam (Johnny Depp) il cugino “strambo” di Mike (Joe Grifasi), uno degli amici del fratello.

Benny è così costretto a portarsi a casa il ragazzo che, col passare del tempo, allaccerà con Joon un rapporto sempre più profondo. Intanto, nel locale dove va a fare colazione, Benny incontra Ruthie (Julianne Moore) un ex attrice di film dell’orrore che ha abbandonato i suoi sogni di gloria per fare la cameriera e la portinaia…

Commedia originale che ci regala dei veri momenti di poesia, soprattutto grazie all’interpretazione di Depp che cita e richiama le gag più famose di grandi artisti come Charlie Chaplin e Buster Keaton. Scritto da Lesley McNeil e Barry Berman, “Benny & Joon” ci ricorda quanto le piccole cose della vita siano fondamentali come le grandi, e che l’amore, la tolleranza e la fiducia sono le cose che ci permettono di consumare un’esistenza degna di questo nome.

“Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street” di Tim Burton

(USA, 2007)

“Chi si vendica dovrebbe scavare due fosse…” dice un antico detto che sintetizza al meglio come la brama rabbiosa di riparare a un torto porti fin troppo spesso alla rovina. Se lo splendido “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas è di fatto l’opera immortale per eccellenza sul tema della vendetta, le vicissitudini dell’ingenuo Benjamin Barker che torna dopo quindici anni a Londra col nome di Sweeney Todd per punire i fautori dell’ingiustizia subita, può simboleggiare quella cieca e sanguinaria.  

A ridosso della prima pubblicazione dell’opera di Dumas (1844), in Gran Bretagna nel 1846 viene stampato “The String of Pearls” che successivamente prenderà il titolo di “Sweeney Todd, the Demon Barber of Fleet Street” la cui attribuzione ancora oggi non è del tutto certa. Si tratta di un classico “penny dreadful”, una pubblicazione periodica scritta spesso con molta fretta e caratterizzata da temi cruenti e accenti spesso horror. Ma la cieca rabbia del protagonista la rende subito molto gradita al pubblico e per questo nel corso degli anni ne vengono stampate nuove edizioni. Nel 1936 Sweeney Todd approda per la prima volta al cinema nell’adattamento diretto dal britannico George King.

Nel 1973 l’inglese Christopher Godfrey Bond scrive l’omonimo dramma teatrale che riscuote un discreto successo tanto da portare Stephen Sondheim (musiche e testi) e Hugh Wheeler (libretto) a farne un musical il cui successo lo porta da Broadway a Londra e da lì in molti altri Paesi, in diverse edizioni nel corso degli anni e vincitore di numerosi Tony Award. L’adattamento cinematografico è passato fra le mani di Alan Parker e Sam Mendes fino ad arrivare in quelle di Tim Burton che fin dal 1980 aveva visto il musical.

Già nei titoli di testa, realizzati in grafica digitale, a squarciare le forti tonalità di bianco grigio e nero c’è il rosso porpora del sangue che i rasoi implacabili del barbiere faranno scorrere a fiumi. Così, una cupa notte, assistiamo all’approdo di una nave nel porto di Londra dalla quale sbarcano il giovane e innocente Anthony Hope (interpretato da Jamie Campbell Bower) il cui nome la dice lunga, assieme all’oscuro Sweeney Todd (un bravo Johnny Depp). I due si separano e il primo poco dopo intravede una splendida ragazza che triste osserva il mondo da dietro una finestra, ragazza che poi scoprirà chiamarsi Johanna (Jayne Wisener) ed essere la pupilla prediletta e intoccabile del terribile giudice Turpin (Alan Rickman) guardata a vista dal suo fedele Messo Bamford (Timothy Spall).

Sweeney Todd, invece, torna dove una volta, in un’altra vita e quando si chiamava ancora Benjamin Barker, aveva una bottega da barbiere e soprattutto una bella moglie e una piccola figlia. Tutto era cambiato quando il famigerato giudice Turpin aveva messo gli occhi sulla donna e, grazie alla collaborazione del Messo Bamford, lo aveva fatto arrestare con una falsa accusa e deportare oltremare.

Nella bottega Todd vi trova Nellie Lovett (Helena Bonham Carter, dark lady per eccellenza) che subito lo riconosce e lo ospita, aggiornandolo sulla triste fine della moglie suicidatasi dopo essere stata abusata da Turpin. Lo stesso Turpin, poi, ha adottato ufficialmente sua figlia che con incontenibile gelosia tiene reclusa in casa. Per ottenere vendetta Sweeney Todd decide di tornare a fare il barbiere, e per farlo deve sfidare quello che al momento è il più rinomato della città: Adolfo Pirelli (Sacha Baron Cohen). Inizia così l’irrefrenabile discesa agli inferi di Benjamin Barker alias Sweeney Todd…

Film gotico per eccellenza, che non lesina sangue e violenza, ma che regala alcuni momenti di ottimo cinema, grazie al cast di primo livello, a delle belle musiche e alla regia di uno dei cineasti più visionario di sempre.

Per la chicca: e disponibile in commercio un’edizione del 1982 con Angela Lansbury nei panni di Nellie Lovett, naturalmente prima che indossasse i panni della mitica e inesorabile acchiappa criminali Jessica Fletcher…

“La sposa cadavere” di Mike Johnson e Tim Burton

(USA/UK, 2005)

Tim Burton è davvero un geniaccio visionario, e ha iniziato la sua carriera come disegnatore e animatore per la Disney. Cresciuto guardando i più classici B movie anni Cinquanta e Sessanta, shakera in maniera sublime queste sue due anime, regalandoci spesso pellicole indimenticabili come questa “La sposa cadavere” girato in stop-motion.

Proprio le sue due anime vengono richiamate simbolicamente all’inizio del film, quando sui titoli di testa appare un gatto del tutto simile a Vincent, il protagonista del suo primo cortometraggio datato 1982. Così come quando Victor e Victoria si incontrano per la prima volta, lui suona un pianoforte marca “Harryhausen”, marca che è un omaggio al genio degli effetti speciali e dei mostri cinematografici più inquietanti dei film anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta Ray Harryhausen.

Per scrivere la sceneggiatura John August, Pamela Pettler e Caroline Thompson si basano sui personaggi creati dallo stesso Burton assieme a Carlo Grangel (disegnatore e animatore di film come “Madagascar”, “Kung Fu Panda”, “Bee Movie” e “Hotel Transylvania”) che a loro volta prendono spunto da un racconto folkloristico della cultura ebraica del Seicento.

I Van Dort possiedono una pescheria grazie alla quale sono diventati la famiglia più ricca del paese. L’unica cosa che gli manca è far dimenticare le umili origini dalle quali la signora e il signor Van Dort provengono. Gli Everglot, invece, sono la famiglia più blasonata del paese, ma che però è ormai sul lastrico. Per assecondare le rispettive esigenze, le due famiglie organizzano un matrimonio combinato fra i rispettivi figli unici: Victor Van Dort (che nella versione originale è doppiato da Johnny Depp) e Victoria Everglot (Emily Watson).

Ma il carattere timido e impacciato di Victor cozza con la rigida formalità che un evento del genere esige, e così il ragazzo preso dal panico fugge nel bosco. Lì, suo malgrado, risveglierà il cadavere di Emily (Helena Bonham Carter) una giovane donna uccisa il giorno del suo matrimonio…      

Come capita spesso, Burton ci racconta una storia dove i mostri più orrendi non sono i cadaveri che riprendono vita, ma i vivi eleganti e di bell’aspetto…

Da vedere.  

Per la chicca: il personaggio di Bonejangles, lo scheletro che cantando e ballando accoglie Victor nel regno dei morti, è ispirato al grande Sammy Davis Jr.

“Il mistero di Sleepy Hollow” di Tim Burton

(USA, 1999)

Basandosi sul racconto “La leggenda della valle addormenta” di Washington Irving (scrittore statunitense nato a New York nel 1783, morto nel 1859, e sepolto nel cimitero di Sleepy Hollow, davvero!) Tim Burton ripropone in maniera fantasticamente visionaria una delle leggende più tradizionali della cultura americana, quella di Ichabod Crane e del mitico cavaliere senza testa (che Walt Disney invece raccontò con tutti altri toni nel 1949). Proprio dallo scritto di Irving, infatti, Kevin Yagher (maestro degli effetti speciali) e Andrew Kevin Walker scrivono il soggetto e Walker da solo poi la sceneggiatura di questo film, forse il più gotico di Burton.

New York 1799, il giovane detective della Polizia Ichabod Crane (Johnny Depp) a causa dei suoi metodi empirici e innovativi che aborrano la tortura, viene mandato a Sleepy Hollow, un piccolo paesino di agricoltori, dove un fantomatico cavaliere senza testa ha ucciso e decapitato già tre persone.

Il giovane Ichabod a Sleepy Hollow oltre a risolvere il caso troverà molte cose, come l’amore, ma soprattutto ritroverà una parte di se stesso che credeva perduta…

Con il 99% dei set artificiali, “La leggenda di Sleepy Hollow” è uno dei film più riusciti di Tim Burton, con un Depp d’annata così come un diabolico Christopher Walken che indossa i panni sanguinari del cavaliere senza testa.

Ma Burton, che cura l’aspetto visivo dei suoi film in ogni particolare, è attento anche a quello artistico e così affianca ai due protagonist Depp e Christina Ricci, una serie di attori di teatro britannici molti bravi e famosi come Michael Gambon, Miranda Richardson e Richard Griffiths.

Attori di indiscusso talento tanto da partecipare anche alla saga cinematografica di Harry Potter: il primo nei panni di Albus Silente (dopo la morte di Richard Harris), la seconda in quelli di Rita Skeeter e il terzo in quelli di zio Vernon.

“Animali fantastici e dove trovarli” di David Yates

(UK/USA 2016)

Il genio della Rowling non ha limiti. Già famosa a livello planetario, scrisse un piccolo libro ambientato nel mondo di Harry Potter – ma ambientato qualche decennio prima della nascita di colui che sconfiggerà Lord Voldermort… – i cui profitti andarono tutti in beneficenza. Ma una grande scrittrice, è sempre e comunque, una grande scrittrice. E così da quel piccolo libro nasce questo film che ha già incassato nel mondo oltre 700 milioni di dollari, tanto che sono già in lavorazione quattro sequel.

Il giovane mago inglese Newt Scamander (Eddie Redmayne) sbarca a New York con una strana e agitata valigia fra le mani. Siamo nel 1926 e l’ombra del tracollo finanziario che a breve travolgerà gli Stati Uniti comincia ad affacciarsi all’orizzonte. In gravi momenti di crisi si riaccendono paure e antiche superstizioni – che noi purtroppo al momento conosciamo bene… – e così fra i predicatori di strada, quella che sembra aver più seguito è la direttrice di un orfanotrofio Mary Lou Barebone (Samantha Morton), leader del movimento integralista Secondi Salemiani, il cui intento è dare la caccia spietata a maghi e streghe.

Scamander incappa proprio in un comizio della Barebone e nei pochi secondi in cui è tristemente distratto dalla oratrice, dalla sua valigia evadono strane creature. Per riprenderle il mago dovrà chiedere aiuto, suo malgrado, al No-Mag – che in Gran Bretagna chiamano Babbani – aspirante pasticcere Kowalski (Dan Fogler), all’ex-Auros Tina Goldstein (Katherine Waterston) e a sua sorella Queenie (Alison Sudol).

Le difficoltà aumenteranno, e pure in maniera molto pericolosa, visto che sulla città incombe un Obscurus, un essere malvagio e spietato che nasce della violenta repressione dei poteri magici di maghi e streghe in tenera età, a cui l’Auror Percival Graves (Colin Farrell) dà strenuamente la caccia.

Fantastico viaggio, con effetti speciali da urlo, nel mondo incantato della Rowling che sa raccontare molto bene, e come pochi, l’antica quanto il mondo lotta fra il bene e il male.

Da ricordare i “perfidi” e “arroganti” camei di Jon Voight, Ron Pearlman e Johnny Depp. Vincitore dell’Oscar per i migliori costumi, con una candidatura per le migliori scenografie.

“La vera storia di Jack lo squartatore” di Albert e Allen Hughes

(USA, 2001)

E’ una delle pellicole più gotiche che amo (paragonabile, per esempio, al grande “Dracula” di Francis Ford Coppola), anche perché rivela quello che i documenti secretati per quasi un secolo, una volta pubblicati, hanno permesso di ricostruire sui terrificanti omicidi che sconvolsero Londra nel 1888, creando di fatto nell’immaginario comune l’idea del primo sanguinoso serial killer.

I fratelli Hughes (che poi firmeranno il post-catastrofico e sfizioso “Codice: Genesi” del 2010) ricreano in studio un’inquietante e fascinosa Londra oscura e cupa, teatro ideale per i delitti più truci.

Per fermare la strage di giovani prostitute viene chiamato l’ispettore Frederick Abberline (un gotico quanto fascinoso pure lui Johnny Depp) che in breve tempo intuisce il vero movente “politico” degli omicidi…

Con scene cruenti che lasciano poco all’immaginazione, e una splendida e rossa Heather Graham, “La vera storia di Jack lo squartatore” (ispirato al fumetto “From Hell” firmato da Alan Moore e Eddie Campbell) ci regala due ore di puri brividi farciti da una storia d’amore struggente.

Da vedere, anche da dietro le dita della mano che mettiamo per coprire gli occhi…