“Chiamami aquila” di Michael Apted

(USA, 1981)

Questa deliziosa commedia è stata scritta da Lawrence Kasdan poco dopo aver terminato le sceneggiature di film come “L’impero colpisce ancora” e “I predatori dell’arca perduta”. A dirigerla avrebbe dovuto essere Steven Spielberg, ma visto il clamoroso flop della sua commedia “1941: allarme a Hollywood”, il cineasta preferì fare solo il produttore esecutivo.

Dopo gli strepitosi successi al botteghino di “Animal House” e “The Blues Brothers” – e quelli in televisione al “Saturday Night Live” – John Belushi decide di abbandonare la comicità surreale e demenziale per interpretare un ruolo sempre comico, ma più di spessore e particolareggiato.

Incarna Ernie Souchak, un giornalista d’assalto del Chicago Sun-Times che con la sua rubrica inchioda – o quantomeno tenta in ogni modo di inchiodare – i corrotti della città. E’ un animale tipico della metropoli, che fuma duecento caffè, conosce tutte le gang delle periferie così come ogni prostituta che batte in strada. Come il lago Michigan, Ernie Souchak è uno dei simboli di Chicago.

Le sue inchieste però provocano l’ira di alcuni potenti politici corrotti, e così Souchak viene fatto pestare a sangue. Il suo direttore, per la sua incolumità, lo obbliga a lasciare la città fino a quando “le acque non si saranno calmate”. La scusa è un servizio sull’ornitologa Nell Porter (una brava Blair Brown), paladina della aquile calve americane, che da anni vive isolata in una baita sulle Montagne Rocciose per studiare e proteggere i rari rapaci a rischio d’estinzione.

Ovviamente la vita dura e montanara che affronta ogni giorno la Porter è diametralmente opposta a quella che da sempre è abituato a fare Ernie, ma non solo. La deflagrazione provocata dall’incontro scontro di due mondi così differenti e agli antipodi, porterà a conseguenze imprevedibili…

Kasdan scrive una gustosa commedia nel segno delle più classiche degli anni Cinquanta e Sessanta che con gli anni non perde il suo carisma. Purtroppo questa pellicola naufragò al botteghino, probabilmente perché il pubblico che amava Belushi non era pronto all’evoluzione della sua comicità. Inoltre, la produzione dovette affrontare costi non previsti per le riprese in quota dei rapaci, che durarono più di un anno.

James Belushi, il fratello minore di John, ha sempre raccontato di come il flop di questo film colpì duramente l’attore. Già tossicodipendente da anni (come ha ricordato John Landis alla Festa del Cinema di Roma nel 2010 durante la presentazione del suo “Ladri di cadaveri- Burke & Hare”), John Belushi precipitò definitivamente nel baratro – tanto da necessitare di una “guardia del corpo” che gli impedisse di drogarsi …troppo – dell’autodistruzione che trovò il suo tragico epilogo in un’overdose a base di cocaina ed eroina che lo stroncò il 5 marzo del 1982, a soli 33 anni.

Nessun attore ama assistere al naufragio di un suo film, sopratutto se è quello che reputa di “svolta” nella propria carriera. Ma evidentemente Belushi era troppo fragile (e drogato) per affrontarlo. La sua morte però squarciò il velo ipocrita e molto pericoloso che allora aleggiava intorno all’uso degli stupefacenti, che molti vedevano “cool”, considerando obsoleti perbenisti quelli che invece denunciavano i suoi pericoli mortali.

Così molti attori della generazione di Belushi (e non solo) smisero di fare uso di droghe, come per esempio Robin Williams.

Per quelle imponderabili coincidenze che fanno parte della nostra esistenza “Chiamami aquila” uscì nelle nostre sale tre giorni prima della morte del suo protagonista, che echeggiò in tutto il mondo, cosa che decretò anche nel nostro Paese il suo insuccesso commerciale. Per questo, probabilmente, l’edizione riportata nel dvd ha una qualità mediocre, ma ci permette al tempo stesso di goderci la voce di Massimo Giuliani che doppia straordinariamente Belushi.

“Animal House” di John Landis

(USA, 1978)

Il 28 luglio del 1978 esce nelle sale cinematografiche americane “National Lampoon’s Animal House” che da noi viene distribuito semplicemente come “Animal House”.

Scritto da Douglas Kenney, Chris Miller e Harold Ramis (attore, regista e autore di numerosi script di commedie campioni d’incasso negli anni Ottanta e Novanta come “Ghostbusters – Acchiappa fantasmi”, “Ricomincio da capo” e “Terapie e pallottole”) e diretto dal giovane promettente John Landis, con un budget non particolarmente ricco per l’epoca (poco più di 3 milioni di dollari) il film sbanca al botteghino guadagnandone in totale oltre 140, e soprattutto consacra definitivamente a icona della nuova generazione di comici made in USA il grande e indimenticabile John Belushi.

A distanza di quarant’anni ancora fanno tendenza alcune scene, molti dialoghi – anche se nella nostra versione vennero censurati o riadattati per consentire la visione ai maggiori di 14 anni e non di 18 – e le espressioni facciali del diabolico John “Bluto” Blutarsky.

E, come in ogni altra commedia di Landis, c’è anche una grande critica a quella parte conservatrice e reazionaria della ricca società americana che vedrà il proprio simbolo ed eroe nel futuro Presidente Ronald Reagan.

Ma in “Animal House” c’è soprattutto tanta voglia di ridere e di divertirsi, di andare ai Toga Party e di non pensare allo studio e ai lati più noiosi della vita. Siamo alla fine degli anni Settanta, e ancora il sogno della rivoluzione e della fantasia al potere sembra possibile.

Nel 1962 due giovani matricole dell’Università di Faber cercano di entrare nelle confraternite più prestigiose dell’ateneo. Ma riescono solo a farsi accettare dalla “Delta Tau Chi”, la più balorda e incasinata di tutte…

Il resto è storia del cinema, come il discorso di Bluto “sui tedeschi che bombardarono Pearl Harbour”, il Toga Party, il cavallo ucciso da un colpo a salve nello studio del Preside, fino alla mitica parata finale.

La pellicola ospita quasi tutta la generazione di giovani attori che nel decennio successivo esploderà a Hollywood: da Kevin Bacon a Karen Allen, da Tom Hulce (poi premio Oscar come miglior attore protagonista nei panni di Mozart nello splendido “Amadeus” di Milos Forman) a Tim Matheson.

Per non parlare di John Vernon, grande caratterista hollywoodiano con la faccia da cattivo (che l’anno precedente aveva vestito i panni del marito di Sophia Loren in “Una giornata particolare” di Ettore Scola, e ancora prima quelli del perfido Maynard Boyle nello strepitoso  “Chi ucciderà Charley Varrick?” di Don Siegel) che qui impersona in ferreo Preside Dean V. Wormer.

Un vero e proprio cult planetario, che ha il suo pari solo nel mitico “The Blues Brothers“.

Ancora oggi inarrivabile.

“The Blues Brothers – I fratelli Blues” di John Landis

(USA, 1980)

Su questo capolavoro inossidabile che va dal musical alla commedia surreale è stato detto tanto. Ma mai abbastanza!

Oltre a incoronare definitivamente John  Belushi icona immortale di una generazione, questa pellicola diretta da Landis concilia quella stessa nuova generazione con un genere musicale che allora sembrava adatto solo alle precedenti epoche.

Oltre ai grandi interpreti, la grande musica e alcune spettacolari sequenze, il film è scritto davvero alla grande (la sceneggiatura è firmata da Dan Aykroyd e lo stesso John Landis), e anche per questo rimane immortale come i suoi due protagonisti  “Joilet” Jake ed Elwood Blues.

Grande piccolo cameo di Steven Spielberg nei panni dell’impiegato che alla fine emette la benedetta fattura per salvare l’orfanotrofio e di Frank Oz che, all’inizio, riconsegna gli effetti personali a Jake prima che questo esca dal penitenziario.

Immortale.