“Lassù qualcuno mi attende” di John Boulting e Roy Boulting

(UK, 1963)

Peter Sellers è stata – e lo è ancora – una delle maggiori icone della cultura cinematografica degli anni Sessanta, e non solo. Cultura e cinema in senso internazionale, infatti la bravura e l’irresistibile ironia fisica e dialettica dell’attore inglese hanno attraversato i confini britannici per toccare prima gli Stati Uniti e poi tutto il mondo.

Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua scomparsa, vengono pubblicate biografie e prodotti documentari e film su di lui, come per esempio “Tu chiamami Peter” con un grande Goffrey Rush nei panni di Sellers e Charlize Theron in quelli della compagna Britt Ekland.

Ma allora perché questa deliziosa commedia realizzata nel 1963, venne distribuita nel nostro Paese solo nel 1965 e per giunta solamente in alcune grandi città? …Forse la sua trama, assieme alla tagliente bravura del suo protagonista, possono fornirci qualche indizio.

Approdiamo così nella piccola ma prospera – nonché fittizia – cittadina inglese di Orbiston Parva. L’economia della località, come quella di tutto il resto della contea, è basata sulla fabbrica di “Tranquillax” – un potente e assai redditizio antidepressivo – che ormai da due generazioni è di proprietà dell’aristocratica e facoltosissima famiglia Despard, vero e luccicante simbolo di Orbiston Parva.

Non c’è decisione pubblica, quindi, per quanto riguarda la cittadina e tutta la contea che non passi per la residenza Despard dove Lady Lucy (Isabel Jeans) e suo figlio Sir Geoffrey (Mark Eden) devono dare la loro serafica approvazione. Come nel caso della nomina del nuovo parroco cittadino, nomina per la quale l’Arcidiacono Aspinall (Cecil Parker) suggerisce il giovane ma già integerrimo John Smallwood (Ian Carmichael), tralasciando di rivelare poi che si tratta anche del figlio di un suo caro amico.

Avuto il benestare dei Despard, Aspinall si reca dal vescovo (George Woodbridge) che fa formalizzare al suo ufficio la nomina. Solo che una delle segretaria della Diocesi prende dallo schedario il primo “John Edward Smallwood” (Peter Sellers) non accorgendosi dell’esistenza di un omonimo (meccanica narrativa molto simile a quella dell’irresistibile “Hollywood Party” che Sellers girerà nel 1968).

Così la nomina a nuovo parroco di Orbiston Parva arriva in un carcere dove il John Smallwood “sbagliato” fa il cappellano. L’impatto dell’ecclesiastico con la sua nuova comunità è fragoroso, visto che Smallwood è un uomo forse un po’ troppo ingenuo, ma che basa la propria esistenza sui principi cardini del Cristianesimo, e soprattutto su quelli che indicano nel dare e nel donarsi agli altri la principale dottrina del Signore.

Ma oltre che aiutare incondizionatamente i più deboli, Smallwood sarà “reo” di un altro imperdonabile e gravissimo sopruso: con la sua ingenuità e la sua granitica fede porterà persino Lady Despard a rileggere la Sacra Bibbia e a comprendere meglio i veri doveri di un cristiano…

Naturalmente la Diocesi, non indifferente a certe “imperdonabili” mancanze, sarà costretta a intervenire…      

Deliziosa e pungente commedia, nella migliore tradizione di quelle satiriche tipiche del cinema britannico degli anni Cinquanta e Sessanta, con un grandissimo Sellers che interpreta magistralmente un pacato ma graniticamente convinto parroco che ha l’unica – e inammissibile – colpa di seguire alla lettera i dettami della Bibbia …e non quelli della Chiesa.

Nonostante il film parli e schernisca dichiaratamente la Chiesa Anglicana, evidentemente i nostri distributori hanno visto qualche collegamento spinoso o assai calzante con la società del Belpaese e così hanno preferito distribuirlo solo in alcune piazze e per breve tempo …ma naturalmente la mia è solo un’ipotesi fantasiosa e senza alcun vero riscontro storico.     

Per la chicca: nel ruolo di una casalinga volitiva e assai aggressiva c’è Joan Hickson, che diventerà famosa qualche decennio dopo impersonando Miss Marple in una lunga serie di film per la tv.  

“O ti spogli… o ti denuncio” di Alvin Rakoff

(UK, 1970)

L’8 aprile del 1967 andò in onda l’episodio “Call Me Daddy” della seria antologica “Armchair Theatre” (il cui titolo si potrebbe tradurre come “Una poltrona al teatro”), serie trasmessa sulla televisione britannica la domenica sera dal 1956 al 1974 e composta in tutto da 152 episodi, ognuno indipendente dall’altro e con ognuno i tratti classici del dramma teatrale televisivo. 

La sceneggiatura di “Call My Daddy” è opera dello scrittore irlandese di origini ceche Ernest Gébler (1914-1998) che prende spunto dal doloroso e duro naufragio del suo matrimonio con la scrittrice irlandese Edna O’Brien. A interpretare il protagonista, il grigio e antipatico Benjamin Hoffman, è Donald Pleasence. Il successo dell’episodio è notevole e la sceneggiatura viene premiata con un International Emmy Award, cosa che spinge Gébler a scrivere un romanzo ispirato ad essa che prende il titolo “Shall I Eat You Now?” e che viene pubblicato nel 1969.  

Sulla scia del successo del romanzo, il cinema decide di portare la storia di Ben Hoffman sul grande schermo e la parte viene offerta all’attore fra i più in voga nel momento: Peter Sellers. All’inizio lo stesso rifiuta, o al massimo è disposto a interpretarla recitando però con un’improbabile accento austriaco, sulla falsa riga dell’ispettore Clouseau. Ma alla fine sia la produzione che lo stesso Alvin Rakoff – regista anche di “Call Me Daddy” – riescono a convincere Sellers e il film prenderà il titolo originale proprio dal suo protagonista: “Hoffman”.

Così assistiamo alla falsa partenza della giovane e avvenente Janet Smith (Sinéad Cusack) che, accompagnata dal suo premuroso fidanzato Tom (Jeremy Bulloch) finge di prendere il treno che da Londra la porterebbe a Scarborough, dove l’aspetta sua nonna convalescente. Una volta congedato Tom, Janet lascia la stazione per raggiungere clandestinamente l’appartamento di Benjamin Hoffman (Sellers appunto) con il quale ha fatto un patto basso e maschino. 

Hoffman, infatti, ha scoperto che Tom è coinvolto nei furti che flagellano la compagnia per la quale anche lui come Janet lavorano. E così ha fatto una proposta all’avvenente ragazza, che il mese successivo ne diventerà la moglie: per non denunciare Tom lei dovrà passare una settimana a casa sua e dovrà essere sessualmente accondiscendente a tutte le sue voglie e fantasie.

La giovane, disperata per il destino del suo futuro marito, ha accettato senza dire niente a nessuno, e così si presenta alla porta di Hoffman che eccitato e “famelico” la fa accomodare. Ma dall’iniziale fantasia di una vendetta misogina del grigio e introverso Hoffman – che durante il suo soggiorno Janet scopre essere stato tradito e umiliato dalla sua “terribile” ex moglie – il rapporto fra i due lentamente prende pieghe inaspettate. Così assistiamo al cambiamento del padrone di casa che da viscido e silenzioso aguzzino diventa un uomo corretto leale e rispettoso, cosa che alla fine permette alla stessa Janet di crescere e comprendere al meglio di chi può fidarsi davvero…

Insolita e originale pellicola che ci offre l’ennesima ottima interpretazione del grande Peter Sellers, anche se fuori dai suoi soliti canoni, grazie anche a quella della bravissima Sinéad Cusack, non a caso membro dal 1967 della Royal Shakespeare Company.

Il film, forse proprio per l’insolito ruolo interpretato dal suo protagonista, non fu un successo al botteghino cosa che spinse Sellers a disprezzarlo pubblicamente e a cercare di acquistare e distruggere tutte le copie esistenti. Ma in molti, soprattutto quelli a lui vicino, dichiararono che tale avversione nasceva dai numerosi – e forse troppi… – punti in comune fra Benjamin Hoffman e il vero Peter Sellers.       

Per la chicca: cosa si può aggiungere al titolo con cui è stato distribuito nelle sale italiane e che richiama alla nostra peggiore tradizione di commedia pecoreccia?

“Uno sparo nel buio” di Blake Edwards

(USA, 1964)

Nel 1960 debutta a Parigi la commedia “L’idiote” del drammaturgo francese Marcel Achard, che ha come interprete principale Annie Girardot. Il successo è clamoroso tanto arrivare a interessare Hollywood quando, nel 1962, la commedia sbarca trionfalmente a Broadway, tradotta da Harry Kurnitz.

Per il suo adattamento cinematografico vengono scelti Anatole Litvak come regista, Sophia Loren e Walter Matthau come protagonisti. Ma il progetto rimane bloccato fino a quando non viene scritturato Peter Sellers al posto di Matthau. Lo stesso Sellers nota evidenti lacune nello script e chiede a Blake Edwards di occuparsi della sceneggiatura – cosa che farà insieme a William Peter Blatty – e della regia. “La Pantera Rosa” è stato appena terminato e non è ancora uscito nelle sale, ma i due decidono di adattare lo stesso il film come “seguito” delle avventure del maldestro ispettore Clouseau.

Il successo al botteghino de “La Pantera Rosa” accelera la produzione che individua come coprotagonista, per impersonare la procace italiana Maria Gambelli, la tedesca Elke Sommer. Per il ruolo dell’ispettore capo Dreyfus viene scelto Herbert Lom che aveva già recitato assieme a Sellers nello splendido “La Signora Omicidi” diretto da Alexander Mackendrick nel 1957.

L’altero George Sanders è il milionario Benjamin Ballon nella cui residenza viene commesso il primo di una lunga serie di omicidi, di cui è incolpata la bella Maria Gambelli. L’arrivo nella magione Ballon dell’ispettore di turno, l’ineffabile Clouseau, segna il film e la storia del cinema…

E pensare che per “La Pantera Rosa” in quel ruolo era stato scritturato Peter Ustinov che però a poche ore dall’inizio delle riprese lasciò per incomprensioni il set ed Edwards, come “ripiego”, chiamò in tutta fretta Sellers.

Ancora oggi le gag fisiche e verbali di Clouseau/Sellers sono irresistibili regalandoci momenti di puro divertimento. Nonostante il rapporto burrascoso fra l’attore inglese e il regista americano, i due realizzarono 5 film della seria “La Pantera Rosa”, tutti di enorme successo per non parlare poi del mitico “Hollywood Party“. Poco prima dell’inizio della lavorazione del sesto film con Clouseau – dal titolo provvisorio “L’amore della Pantera Rosa” – il 24 luglio del 1980 Peter Sellers morì a causa di un infarto.    

Così come l’interpretazione di Sellers, immortale è anche la colonna sonora firmata dal maestro Henry Mancini fra le più famose del cinema.

Noi italiani, inoltre, dobbiamo ricordare il grande Giuseppe Rinaldi che dona la voce a Sellers con un accento francese maccheronico ancora oggi inarrivabile.   

“Oltre il giardino” di Jerzy Kosinski

(Minimum Fax, 2014)

Per chi, come me, ama il film “Oltre il giardino” di Hal Ashby col grande Peter Sellers leggere il romanzo originale poteva essere molto deludente.

Ma l’opera di Jerzy Kosinski pubblicata per la prima volta nel 1970 – che nella prima edizione italiana del 1974 venne intitolata “Presenze” – anche a distanza di oltre 40 anni conserva tutto il suo grande e graffiante potere narrativo.

Kosinski, nato in Polonia nel 1933 e naturalizzato negli USA nel 1957, oltre a ritrarre un impietoso, ironico quanto imbarazzante affresco del jet-set finanziario a stelle e strisce – che in quel momento storico era messo sotto scacco da quello sovietico – nel 1970 ha già l’intuizione profetica di come la televisione influenzi e influenzerà la società.

Chance Giardiniere, nell’arco di poche ore, diventa il più importante opinion leader del Paese affermando di non leggere i giornali ma di guardare le televisione perché si fa prima! (ovviamente nessuno sospetta che il motivo di tale scelta è legato al suo analfabetismo).

Quando poi viene invitato in TV ci si trova a suo completo agio, visto che davanti quella piccola scatola magica ci ha passato quasi tutta la vita. E proprio grazie al suo grande ascendente televisivo le menti del jet-set lo individueranno come un prossimo e vincente candidato alla Casa Bianca…

La storia ci racconta che nel 1981 alla Casa Bianca salì l’ex attore Ronald Reagan, grande e carismatico comunicatore ma sul quale, anche l’avvocato Gianni Agnelli, espresse pubblicamente forti dubbi sulle sue capacità presidenziali. E se poi pensiamo che qualche tempo dopo in Europa… ovviamente dico questo nel pieno rispetto di tutti, soprattutto di Chance Giardiniere.

“Hollywood Party” di Blake Edwards

(USA, 1968)

Che Blake Edwards sia stato uno dei maestri indiscussi della più esilarante commedia americana è un dato di fatto.

Che fosse un mago, poi, a costruire nei suoi film scene di feste caotiche, surreali e irresistibili non lo si scopre oggi, quella di “Colazione da Tiffany” fa ancora storia.

E se Edwards decide di fare un intero film su una festa il cui protagonista è quel genio istrionico di Peter Sellers – che per l’occasione creerà un personaggio nuovo e strepitoso come fu per Clouseau – il risultato rimarrà negli annali del cinema e del costume planetario.

Hrundi Bakshi, l’indiano ottimista gentile e catastrofico, è ancora oggi un’icona comica potente ed efficace, basta pensare al Raj di “The Big Bang Theory” o anche a Mr. Bean, suo figlio diretto anche se non indiano.

Anche se lo conosci a memoria non riesci a non ridere rivedendolo la centesima volta, a partire dalla prima scena in cui suona la tromba… scommetto che anche adesso hai sorriso ripensandoci!

“Oltre il giardino” di Hal Ashby

(USA, 1979)

La biografia di Peter Sellers racconta di come l’attore abbia dovuto penare per molti anni prima di poter portare sullo schermo il romanzo “Oltre il giardino” scritto nel 1970 da Jerzy Kosinski, visto che si sentiva nel profondo portato a dare vita al suo protagonista Chance, ma nessun produttore era disposto a realizzare un film così tagliente con lui, icona della commedia leggera e per famiglie.

Ma se abbiamo dovuto aspettare tanto, comunque ne è valsa la pena! Hal Ashby, uno dei migliori registi “off Hollywood” di quegli anni, oltre a Sellers, dirige un cast strepitoso fra cui spiccano la bellissima e bravissima Shirley MacLaine e il grande “vecchio” Melvyn Douglas, che vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Con tutto il rispetto per Douglas, grida ancora vendetta la mancata statuetta a Sellers – che era candidato come miglior attore protagonista – che in questo film sfodera la sua più grande interpretazione regalandoci un personaggio indimenticabile e simbolo dei suoi tempi più di tanti saggi o articoli.

L’attore inglese pagò l’essere sempre visto come un semplice comico/clown (nel pieno rispetto delle due arti) e per questo molti considerarono la sua strepitosa interpretazione come qualcosa di casuale.

Ovviamente non era così: Sellers era un animale da palcoscenico e da macchina da presa come ce ne sono stati pochi altri.

Per comprenderlo meglio consiglio di vedere il film biografico “Tu chiamami Peter” di Stephen Hopkins con un grande Geoffrey Rush nei panni di Perter Sellers.

Tornando al film, ci sarebbe da commentare le mille battute e situazioni irresistibili che formano un fantastico crescendo, ma io rimango ogni volta estasiato anche dai ciak scartati e senza sonoro che Ashby usa come sfondo ai titoli di coda: memorabili.

Alcuni trovarono, all’uscita del film, la scena finale troppo surreale, ma quando un paio d’anni dopo salì alla Casa Bianca Ronald Reagan in molti – dicono le malelingue – …furono costretti a ricredersi.

“Tu chiamami Peter” di Stephen Hopkins

(USA, 2004)

Ci sono vite che rappresentano meglio di mille articoli o libri un’epoca, un mestiere e un momento storico, e una di queste è senza dubbio quella di Peter Sellers.

Tratto dall’omonima biografia “The Life and Dead Of Peter Sellers” il film di Hopkins – con un titolo italiano così insulso che difficilmente potrà essere superato – ricostruisce straordinariamente il Sellers uomo e attore come nessuno mai pubblicamente era riuscito.

Forse, a detta di chi gli è stato tanto tempo accanto, l’unica pellicola in cui si intravedono tratti del vero Sellers è “O ti spogli .. o ti denuncio” diretta da Alvin Rakoff nel 1970.

Tornando a questa pellicola, la strepitosa interpretazione di Geoffrey Rush (vergognosamente snobbato agli Oscar) arriva a far dimenticare quasi le vere fattezze del reale Peter Sellers.

Da vedere e rivedere, come alcuni grandi film interpretati da Sellers.