“Il lungo viaggio verso la notte” di Sidney Lumet

(USA, 1962)

Nel 1956, tre anni dopo la morte del suo autore Eugene O’Neill – che lo avrebbe voluto pubblicato non prima di venticinque anni dalla sua dipartita – va in scena il dramma teatrale “Lungo viaggio verso la notte”.

Il successo è immediato in tutto il mondo e l’opera viene subito e giustamente considerata una delle pietre miliari della drammaturgia americana del Novecento al pari di “Un tram che si chiama desiderio” di Tenneesse Williams e “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller.

Nel 1962 Sidney Lumet realizza un indimenticabile adattamento cinematografico con un cast davvero memorabile.

Siamo nell’estate del 1912 in Connecticut, nella magione estiva dei Tyrone. Il capofamiglia, James Tyrone (Ralph Richardson) ha fatto una piccola fortuna in gioventù recitando in una lunga serie di commedie teatrali romantiche dove interpretava il protagonista, ruolo che però ha finito per bloccarlo segnando anche il declino della sua carriera. Le sue umili origini lo hanno portato poi ad essere assai parsimonioso col denaro.

Sua moglie Mary (una grande Katharine Hepburn) che lo ha conosciuto proprio al culmine del suo successo ancora studentessa di un austero convento cattolico, alla morte in culla del loro secondo genito è caduta in depressione tanto da portare il medico curante a somministrale dei medicinali a base di morfina. Alla nascita del loro terzo genito Edmund, Mary è caduta nuovamente in depressione ed è ricorsa alla morfina diventandone sempre più dipendente. Poco prima dell’inizio dell’estate è stata dimessa per l’ennesima volta da una clinica disintossicante.

Il primogenito Jamie Tyrone (Jason Robards, che interpretò lo stesso ruolo al primo allestimento del dramma a Broadway nel ’56) ha seguito le orme del padre senza mai avere successo però, cosa che ha contribuito a renderlo un alcolista.

Edmund (Dean Stockwell) che ormai ha vent’anni, è da poco tornato da un lungo viaggio intorno al mondo in nave come marinaio, e ora vorrebbe diventare uno scrittore. Ma la violenta tosse che spesso lo assale insinua in lui, e nei suoi familiari, il sospetto di essere malato di tubercolosi.

Un’uggiosa giornata di pioggia costringe i quattro Tyrone a passare insieme un’intera giornata in casa, cosa che metterà a nudo i rancori, le debolezze, le invidie e i tradimenti di ognuno dei componenti della famiglia.

Molto fedele all’opera di O’Neill, questo adattamento cinematografico ci regala il ritratto drammatico e amaro di una famiglia disfunzionale, dove non si consumano omicidi materiali, ma atroci massacri emozionali e personali. Così come Miller in “Morte di un commesso viaggiatore”, O’Neill ci parla di come la famiglia possa diventare l’inferno e la causa di angosce e gravi nevrosi.

Il motivo principale per cui O’Neill voleva la pubblicazione così tanto dopo la sua morte sono certamente i profondi riferimenti che l’opera ha in relazione alla vera famiglia di origine del suo autore. A partire dalla casa nel Connecticut dove si svolge il dramma (che è molto simile al Monte Cristo Cottage, la casa posseduta dagli O’Neill a New London), per passare alla carriera teatrale del patriarca James Tyrone (James O’Neill, padre di Eugene, fu un vero attore teatrale di successo in gioventù, che poi rimase “impantanato” nell’interpretazione del protagonista di una lunga serie di spettacoli teatrali dedicati al Conte di Montecristo) o come i nomi di battesimo dei protagonisti che ricalcano quelli veri di madre, padre e fratello di Eugene. Edmund, il figlio minore dei Tyrone, è malato di tubercolosi e alla fine del dramma si appresta ad entrare in sanatorio, cosa che accadde davvero allo stesso Eugene O’Neill nel 1912 e 1913, e che ne fa quindi un suo vero e proprio alter ego.

E’ curioso pensare che a partire dal secondo dopoguerra, la cultura italiana ha smesso quasi completamente di parlare dei lati oscuri della famiglia, che rimane ovviamente la base fondamentale della società, ma allo stesso tempo è anche il luogo di tragici eventi, come per esempio i femminicidi, che straziano il nostro Paese quasi quotidianamente. L’unico grande autore italiano che affronta le disfunzionalità della famiglia rimane l’immortale Eduardo De Filippo a partire dalla sua commedia “Natale in casa Cupiello”, che risale al 1931.

La Hepburn (che viene anche nominata agli Oscar come migliore attrice protagonista), Richardson, Robards e Stockwell ottengono al Festival di Cannes il premio come migliori interpreti.

“La costola di Adamo” di George Cukor

(USA, 1949)

Eccoci davanti ad uno dei film più importanti del Novecento. Si tratta di una delle più classiche sophisticated comedy di Hollywood, ma non solo. E’ al tempo stesso anche uno dei capostipiti del genere “court room drama”, ma soprattutto è uno dei primi grandi film incentrati sulle differenze sociali fra uomo e donna.

Differenze che non sono quelle solite stereotipate, dove fin troppo spesso l’uomo “ha sempre ragione”. Ma sono quelle fra i diritti e i doveri legali e sociali dei due sessi, che vedono da secoli soccombere sempre la donna.

In un’afosa giornata newyorkese seguiamo l’impacciata Doris Attinger (una deliziosa Judy Holliday) seguire furtivamente suo marito Warren Attinger (Tom Ewell) mentre esce dall’ufficio per recarsi nell’appartamento della sua amante. Lì Doris lo raggiunge e gli spara contro alcuni colpi di rivoltella.

L’evento – che, fortunatamente, grazie alla scarsa mira della signora Attinger ha lasciato solo ferito il signor Attinger – attira l’attenzione di tutto il Paese. Il caso viene affidato al capace vice procuratore Adamo Bonner, (un bravissimo Spencer Tracy) che già si sente in tasca la condanna della Attinger.

Proprio a causa delle discussioni casalinghe sul caso avute col marito Adamo, Amanda Bonner (una splendida e volitiva Katherine Hepburn) decide di accettare la difesa della Attinger. Così, con l’apertura del processo, si inaugura anche uno scontro epico e senza esclusione di colpi fra i due coniugi che va ben oltre il tentato omicidio del signor Attinger, visto che Amanda è decisa a dimostrare in aula tutta l’oppressione sociale, fatta di pregiudizi e subdolo maschilismo, che opprime le donne.

Ma attenzione: Adam Bonner non è certo il classico maschilista ottuso. Il vice procuratore, infatti, è un uomo che ama, rispetta e conosce molto bene le donne…

Strepitosa pellicola firmata da uno dei maestri indiscussi di Hollywood e interpretata da un cast davvero stratosferico. Oltre alla immortale coppia Tracy-Hepburn, il film ospita le deliziose interpretazioni della grande Judy Holliday (doppiata superbamente nella nostra versione da Rina morelli) e di Tom Ewell, che verrà definitivamente consacrato a star della commedia qualche anno dopo interpretando “Quando la moglie è in vacanza” del maestro Billy Wilder.

Scritto dalla coppia di drammaturghi e sceneggiatori Garson Kanin e Ruth Gordon (che conobbe il successo anche come attrice, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta in film come “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York“ di Roman Polanski o “Harold e Moude” di Hal Ashby) che si ispirarono ad un fatto di cronaca davvero accaduto in quegli anni i cui protagonisti furono due avvocati che divorziarono per poi sposarsi coi rispettivi clienti, “La costola di Adamo” è un film incredibilmente attuale. Da ricordare anche la splendida canzone “Amanda”, che il vicino di casa compositore dedica alla protagonista, firmata da Cole Porter.

Il Italia il film venne distribuito solo nel gennaio del 1951. E se pensiamo che il voto alle donne venne concesso nel nostro Paese solo cinque anni prima, alla sua uscita più che una commedia, molte persone lo avranno scambiato sicuramente per un film di …fantascienza.

“Scandalo a Filadelfia” di George Cukor

(USA, 1940)

Per quanto mi riguarda questa è una delle migliori sophisticated comedy della storia del cinema, di cui i maestri indiscussi sono stati Ernst Lubitsch e, appunto, George Cukor.

Basato sulla commedia teatrale di Philp Barry, con l’ottima sceneggiatura per il grande schermo firmata da Donald Ogden Stewart, “Scandalo a Filadelfia” possiede un cast fra i più affiatati e scintillanti di quegli anni. A partire da Cary Grant, per passare a Katharine Hepburn e arrivando a James Stewart, include anche una serie di grandi caratteristi di Hollywood (come Ruth Hussey, Mary Nash e Ronald Young i cui nomi magari dicono poco, mentre troviamo molto familiari i loro volti) tutti diretti magistralmente da Cukor.

La Filadelfia del titolo è quella delle grandi famiglie dell’upper class americana, che oltre ad ingenti patrimoni hanno dalla loro la “storia”. Sono fra quelle più antiche della città, simbolo dell’Indipendenza dal Regno Unito e quindi faro ed esempio per tutte le altre.

Non è un caso, quindi, che oltre cinquant’anni dopo il primo vero film hollywoodiano di denuncia sulla discriminazioni subite dagli omosessuali affetti dall’HIV (e non) venne ambientato in quella città, simbolo di di tutto il Paese, prendendone anche il titolo: “Philadelphia” di Jonathan Demme, appunto.

Ma torniamo al film di Cukor: proprio per mantenere immacolata la reputazione della sua storica famiglia, Tracy Lord (la Hepburn) decide di non invitare il padre alle sue seconde nozze. Seth Lord (John Halliday) poco tempo prima infatti ha lasciato suo moglie Margaret (Mary Nash) per una giovane e avvenente ballerina, suscitando l’ira incontenibile della figlia maggiore Tracy.

Il giornale scandalistico “Spy” ha in mano un servizio rovente su Seth e la sua amante, e per avere l’esclusiva sul matrimonio di Tracy, ricatta il suo primo marito C.K. Dexter Heaven (Cary Grant) o lui permetterà a un giornalista e una fotoreporter di intrufolarsi come falsi amici alle nozze, o il servizio su Lord senior verrà pubblicato.

Così, il giorno prima delle nozze, arrivano nell’immensa tenuta dei Lord C.K., Macaulay Connor (James Stewart) ed Elizabeth Imbrie (Ruth Hussey). Ma…

Con dialoghi ancora oggi memorabili, soprattutto fra Grant e la Hepburn (forse al massimo del suo fascino) il film viene candidato a sei Oscar: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. La Hepburn viene candidata come migliore attrice protagonista, mentre Stewart e la Hussey come miglior attore e attrice non protagonista. A portare a casa la statuetta saranno solo James Stewart e Donald Ogden Stewart per lo script.

“Agenzia Omicidi” di Anthony Harvey

(USA, 1985)

Grace Quigley (una straordinaria Katharine Hepburn) vive sola e immersa nei tristi ricordi della sua famiglia, di cui lei ormai è l’unica sopravvissuta, in un piccolo e modesto appartamento nella periferia di New York.

Suo marito e i suoi tre figli, fra la Seconda Guerra Mondiale e un incidente automobilistico, sono morti ormai da molti anni, e Grace non aspetta altro che raggiungerli.

Una mattina, casualmente, assiste all’omicidio del suo nuovo e perfido padrone di casa da parte di un killer (Nick Nolte). L’anziana, senza farsi soprendere, segue il sicario fin nel suo appartamento.

Senza il minimo tentennamento l’anziana suona alla porta e quando l’uomo, che si chiama Seymour Flint, apre lo incalza: ha visto tutto e, se non vuole essere denunciato, dovrà fare quello che chiede: ucciderla.

Flint pensa a uno scherzo, ma Grace non è mai stata così seria in vita sua. L’anziana gli offre tutti i suoi risparmi e l’uomo le promette di iniziare a organizzare il delitto. Pochi giorni dopo Grace bussa nuovamente alla sua porta: ha trovato nuovi clienti, tutti i suoi anziani amici stanchi di soffrire nell’attesa della morte…

Insolita commedia anni Ottanta con uno dei pilastri del cinema mondiale come la Hepburn, e un giovane attore che negli anni successivi diventerà una stella di Hollywood come Nolte.

Dalla seconda metà degli anni Settanta, con l’avvento dei farmaci di largo consumo, la terza età si allunga in maniera impensabile, diventando sempre più consistente rispetto alle altri parti della società.

La solitudine e l’emarginazione, purtroppo, diventano i compagni più comuni di molte persone che hanno solo la colpa di sopravvivere. E Grace Quigley (titolo originale del film) è uno dei simboli di questa nuova società. Toccante è la scena in cui la protagonista, per convincere Seymour a uccidere lei e i suoi amici, lo porta a visitare un’ospizio…

Ma nel 1985 siamo in pieno edonismo reaganiano e così i protagonisti di questo insolito film non potevano farla franca. Il finale ufficiale della pellicola stona non poco con la storia, ma se abbiamo la possibilità di vedere quello alternativo, tutto torna…

Un’altra testimonianza della grande arte di Katharine Hepburn, che per raccontare questa storia non teme di mostrare rughe e capelli bianchi.

“La regina d’Africa” di John Huston

(USA, 1951)

Tenetevi stretti e indossate il giubbotto di salvataggio: questo è uno dei capolavori della grande Hollywood di una volta.

Tratto dall’omonimo romanzo di C.S. Foster, il grande John Houston firma una splendida e insolita storia d’amore fra due emarginati della società: un vecchio pilota di barche alcolista e una “zitella” bacchettona, persi nel cuore del grande continente Nero.

Charlie Allnutt (un barbuto e trasandato Humprey Bogart) è il solitario e alcolizzato proprietario di una vecchia bagnarola, “La regina d’Africa”, che nell’Africa occidentale risale periodicamente uno dei numerosi immissari del lago Vittoria, portando generi di prima necessità e la posta ai villaggi presenti sulle sponde.

In uno di questi c’è la piccola missione metodista fondata dal reverendo inglese Samuel Sayer (Robert Morley) e da sua sorella Rose (Katherine Hepburn). Ma la grande guerra è alle porte e Charlie informa il reverendo e sua sorella che ufficialmente l’Inghilterra e la Germania sono entrate in guerra, e le truppe tedesche si stanno inesorabilmente avvicinando.

Ma i due Sayer non intendono abbandonare la loro missione e così, poco dopo che Allnutt è ripartito, assistono impotenti all’arrivo delle truppe tedesche che in poco tempo distruggono tutto il villaggio. Il prelato, per lo choc, cade in uno stato catatonico che in pochi giorni lo porta alla morte.

Quando Allnutt torna alla missione trova solo Rose e il corpo del fratello. Dopo averla aiutata a seppellirlo le offre ospitalità su “La regina d’Africa” e i due iniziano così una viaggio incredibile e indimenticabile attraverso il cuore del continente africano…

Meritatissimo Oscar a Humprey Bogart come miglior attore protagonista e candidatura per Katharine Hepburn, come miglior attrice protagonista, nonché doppia per John Huston: come miglior regista e come autore della sceneggiatura (insieme a James Agee).

Ancora oggi rimangono spettacolari i duetti fra i due giganti del cinema e il finale, romantico e al tempo stesso divertente, che si discosta, senza rovinare nulla all’alchimia della storia, da quello del romanzo di Foster.