“La morte corre sul fiume” di Charles Laughton

(USA, 1955)

Questo capolavoro della cinematografia planetaria alla sua uscita nelle sale degli Stati Uniti venne accolto molto freddamente dal pubblico, tanto da decretare la fine della carriera dietro la macchina da presa del suo regista: il grande Charles Laughton (che avrebbe dovuto dirigere poi l’adattamento del romanzo “Il nudo e il morto” di Norman Mailer).

Così, la carriera del regista di uno dei film americani più gotici – con superbi richiami all’espressionismo tedesco – degli anni Cinquanta, si blocca ad una sola pellicola. La modernità della storia e soprattutto del deciso linguaggio visivo difficilmente poteva essere accolti caldamente del pubblico americano (e non solo) di allora.

L’inno contro il fanatismo religioso e puritano (tipico degli stati del sud) che il film rappresenta era davvero troppo precoce. D’altronde Rosa Parks, per non aver ceduto il posto ad un bianco sull’autobus, venne arrestata il 1° dicembre del 1955, pochi mesi dopo l’uscita nelle sale del film.

Laughton dirige superbamente un cast in cui spiccano un grande Robert Mitchum e una bravissima Shelley Winters. Nel periodo precedente all’uscita del film, la Winters era sposata con Vittorio Gassman, che in più di un’intervista ha ricordato le preziosissime disquisizioni che consumava con Laughton, nella piscina della sua villa hollywoodiana, su Shakespeare e la sua messa in scena.

La sceneggiatura è firmata da James Agee (vincitore del Premio Pulitzer e autore di splendidi adattamenti cinematografici come quello per “La Regina d’Africa” di John Huston) ed è tratta dal romanzo “The Night of The Hunter” di Davis Grubb, romanzo che is ispira alla vera storia di Harry Powers che nel 1932 venne giustiziato per aver ucciso due vedove e tre bambini. La condanna venne eseguita nel carcere di Moundsville (nella Virginia Occidentale) città nella quale Grubb, allora tredicenne, viveva.

Stati Uniti del sud, 1933. Harry Powell (un inquietante Mitchum) che si fa chiamare reverendo, è uno psicopatico con l’ossessione religiosa, dietro la quale si nasconde alla sua coscienza per giustificare gli assassini di vedove solitarie, alle quali poi toglie i pochi averi. Nonostante i numerosi delitti, Powell viene fermato casualmente per il furto di un’automobile e condannato ad un mese di carcere.

Il destino vuole che nella sua cella capiti Ben Harper (Peter Graves), condannato a morte per una rapina finita in tragedia. Harper, infatti, stanco e disperato per la fame che patiscono i suoi due bambini John e Pearl, ha rapinato una banca durante la quale però ha ucciso delle guardie. Prima di essere arrestato ha avuto il tempo di tornare a casa e consegnare a John (l’unico con vero buonsenso della famiglia…) i 10.000 dollari, frutto della rapina. Dopo avergli fatto promettere di badare alla sorella e mantenere il segreto, si lascia ammanettare.

Pochi giorni prima dell’esecuzione, nel sonno, Ben si lascia scappare delle parole sui soldi e su suo figlio e così Powell, finito di scontare la sua pena, parte alla ricerca dei 10.000 dollari. Quando raggiunge la casa di Harper, trova la vedova Willa (la Winters) messa all’indice dall’intera cittadina (puritana e bigotta) per il comportamento del marito.

Powell si spaccia come ex cappellano del carcere e col suo charme da (finto) uomo di chiesa conquista in breve tempo Willa e il resto della cittadina. Solo il piccolo John intuisce il male profondo nascosto nell’uomo che ha tatuate sulle nocche delle mani “Love” e “Hate”. Ma Powell è disposto a tutto per ottenere quei soldi e comprende che per averli deve passare su John e sua sorella…

Con un uso magistrale del bianco e nero, e con la riproduzione degli esterni in studio che crea un maggiore stato d’ansia e di oppressione, “La morte corre sul fiume” ci trascina fino all’ultimo fotogramma senza lasciarci un attimo di tregua. Inoltre, il ritratto che Laughton traccia dei due bambini, così innocenti ma così rassegnati nel dover affrontare adulti ipocriti, bugiardi o assassini ricorda quelli che solo il maestro Vittorio De Sica prima, e il grande Francois Truffaut dopo, hanno saputo cogliere.

Insomma, un capolavoro memorabile.

Il dvd riporta la versione col doppiaggio originale fatto quando la pellicola venne distribuita nelle nostre sale, con l’indimenticabile Giulio Panicali che dona superbamente la voce a Mitchum. Negli extra è presenta il trailer originale del film.

“Quinto non ammazzare!” di Robert Siodmak

(USA, 1944)

Tratto dal romanzo di James Ronald “This Way Out” questo film, il cui titolo originale è “The Suspect” – e non intendo parlare di quello in italiano che c’entra come i cavoli a merenda… – ci regala una delle migliori interpretazioni cinematografiche del grande Charles Laughton.

Londra, 1902. Philip Marshall (Laughton) è un uomo onesto e di cuore. Nel negozio, di cui è responsabile, tutti i dipendenti lo stimano e lo rispettano. Anche a casa il suo unico figlio lo ama e lo rispetta. L’unica persona che lo maltratta e non perde occasione per umiliarlo è Cora, sua moglie. Un giorno nel negozio arriva la giovane e Mary Gray (Ella Raines) in cerca di un posto di lavoro. Marshall non può assumerla nel negozio, ma le indica un’altra attività dove poi la raccomanda.

Fra i due nasce una tenera e innocente amicizia che alla fine Marshall decide di interrompere per evitare scandali. Cora, convita che fra i due ci sia un legame soprattutto materiale, una sera lo affronta dichiarandogli che il mattino dopo rovinerà la reputazione di entrambi urlando ai quattro venti la loro indegna relazione. Non tanto per la propria, ma per quella candida di Mary l’uomo getta la moglie per le scale fingendo poi un incidente.

Il commissario Huxley, intuisce la colpa di Marshall, ma non riesce a trovare uno straccio di prova che possa reggere in tribunale. E così stuzzica il vicino di casa Gilbert Simmons, un meschino ricattatore, che abbocca all’amo e si reca da Marshall per ricattarlo. Alla fine Huxley farà leva proprio sull’onestà morale di Marshall per far scattare la sua trappola finale…

Bella pellicola in bianco e nero d’atmosfera che con un cast superbo e una regia di primo livello segna il cinema noir degli anni Quaranta. Guardando la grande interpretazione di Laughton davanti alla macchina da presa possiamo solo immaginare quelle che faceva sul palcoscenico di un teatro.

Per palati fini.

“Tempesta su Washington” di Otto Preminger

(USA, 1962)

“Advise & Consent” di Allen Drury viene pubblicato nel 1959 e l’anno successivo vince del Premio Pultizer.

L’impatto sulla cultura americana è molto ampio, tanto che durante la campagna per le elezioni presidenziali del 1960 fu scattata una famosa foto che ritraeva i due candidati, Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy, intenti a leggere una copia del libro.

Due anni dopo, il maestro Otto Preminger ne dirige una splendida versione cinematografica – con lo stesso titolo in originale – la cui sceneggiatura è scritta dallo stesso Allen Drury insieme a Wendell Mayes.

Per la prima volta nella storia le macchine da presa di Hollywood entrano nel Senato degli Stati Uniti, e alcune delle scene cruciali vengono girate proprio nella stessa sala dove la Commissione contro le attività “antiamericane”, presieduta dal Senatore Joseph McCarthy, consumava le sue tristemente note sedute.

La scelta non è casuale, infatti, il romanzo di Drury – così come il film di Preminger – ci racconta delle feroci lotte interne che si consumano nel palazzo più importante degli Stati Uniti. Di come per ottenere la maggioranza in una votazione i rappresentati degli elettori siano disposti a tutto.

Ma, soprattutto, ci narra i modi infami del Senatore Fred Van Ackerman (interpretato da George Grizzard) che non disdegna il ricatto, le minacce e la calunnia pur di ottenere voti e consenso, ma che poi finirà isolato e schifato da tutti i suoi colleghi, indipendentemente dallo schieramento politico a cui appartengono.

Destino simile a quello che toccò al vero Joseph McCarthy, le cui accuse e insinuazioni provocarono non pochi suicidi (soprattutto a Hollywood) fra cui anche quello del Senatore Lester C. Hunt, avvenuto il 19 giugno del 1954 e riconducibile a una frase pronunciata pubblicamente dallo stesso McCarthy. Il Senato aprì un’inchiesta alla fine della quale McCarthy venne ufficialmente “censurato”, cosa che segnò la fine della sua carriera politica.

McCarthy morì il 2 maggio del 1957 a 48 anni, ufficialmente a causa di un arresto cardiaco, ma le cronache del tempo parlano di un’epatite legata all’alcolismo, conseguenza diretta del suo isolamento politico e personale (condizione che lui stesso aveva imposto a decine e decine di artisti sinistrorsi).

Ma torniamo al film.

Il Presidente degli Stati Uniti ha gravi problemi di salute, problemi che solo il suo staff ristretto conosce, e per questo decide di nominare a Segretario di Stato Robert Leffingwell (Henry Fonda) che considera l’unico in grado di prendere le redini – soprattutto in politica estera – che lui presto dovrà cedere.

Spetta a leader del partito di maggioranza Bob Munson (Walter Pidgeon) trovare i voti necessari alla nomina nella Commissione presieduta dal giovane Senatore Brigham Anderson.

L’ostacolo più grande è il rappresentante dell’opposizione, il Senatore veterano – visto che la sua prima elezione è avvenuta oltre quarant’anni prima – Seabright Colby (un gradissimo Charles Laughton) che trova Leffingwell troppo vicino all’ ideologia comunista per sedere su uno scranno così importante per il Paese.

Durante i lavori della Commissione esce fuori la testimonianza Herbert Gelman (Burgess Meredith) che afferma di aver partecipato ad alcune riunioni clandestine di una cellula comunista insieme a Leffingwell. Nel successivo interrogatorio lo stesso Leffingwell smonta con fermezza le accuse di Gelman che sembrano essere dettate solo dalla sua instabilità mentale.

Intanto, il Presidente della Commissione Anderson inizia a ricevere delle telefonate minatorie che vorrebbero fargli chiudere l’inchiesta per dare il nullaosta alla nomina proposta dal Presidente.

Lo stallo che si crea nella commissione porta Van Ackerman, la vera mente spregiudicata dietro il ricatto ai danni di Anderson, ad alzare il tiro e a inviare alla moglie del Presidente della Commissione foto e lettere che testimonierebbero una passata relazione omosessuale del marito. Devastato, Anderson si suicida nel suo studio. Ma…

Preminger, con un cast stellare, ci racconta una storia inventata – come sottolineano i titoli di testa – ma drammaticamente vera e attuale, inserendo nel cast uno dei simboli delle vittime del cosiddetto maccartismo: Burgess Meredith, che nel decennio successivo acquisterà fama mondiale interpretando Mickey Goldmill, il vecchio e non udente allenatore di pugilato del primo “Rocky”.

Lo stesso Meredith, infatti, finì alla fine degli anni Quaranta nella lista nera della Commissione contro la attività “antiamericane” e sedette come accusato nella stessa aula.

Nel 1949 fece in tempo però a realizzare il suo primo e unico film come regista: “L’uomo della Torre Eiffel” in cui – …guarda il caso… – Charles Laughton interpreta il commissario Maigret.

E, a proposito di Laughton, questa splendida pellicola deve essere ricordata anche perché fu l’ultima da lui interpretata, stroncato da un tumore pochi mesi dopo la fine delle riprese, mentre si preparava a interpretare Moustache in “Irma la dolce” di Billy Wilder, parte che poi venne affidata a Lou Jacobi.

Considerando i tempi e la morale di quando uscì nelle sale, anche “House of Cards” oggi sembra una serie per ragazzi.

Immortale.

“Il tempo si è fermato” di John Farrow

(USA, 1948)

Qui parliamo di uno degli esempi più riusciti di noir americano anni Quaranta.

La vicenda in cui viene coinvolto, suo malgrado, George Stroud (un bravissimo Ray Milland) si intreccia con quella del perfido e ambiguo magnate dell’editoria Earl Janoth (un Charles Laughton d’annata) che ricorda tanto – forse pure troppo – il famoso William Randolph Hearst, re dell’editoria scandalistica di quegli anni e ispiratore anche del Charles Foster Kane di “Quarto potere” di Orson Welles.

Stroud è il responsabile della rivista dedicata alla criminologia che fa parte dell’impero editoriale “Janoth”, fondato e guidato senza il minimo scrupolo dal perfido e glaciale Earl Janoth.

La mattina dell’ultimo giorno di lavoro prima di una vacanza che a casa moglie e figlio aspettano da cinque anni, Stroud viene convocato dallo stesso Janoth. Le ferie devono essere nuovamente rimandate: il giornale diretto da Stroud deve indagare su un nuovo caso.

Quando George si rifiuta di cedere Janoth lo licenzia. Prima di tornare a casa dalla moglie, George Stroud decide di bere un sorso in un affollato locale. Lì viene raggiunto da Pauline York (Rita Johnson), un’appariscente modella, anche lei in conflitto con Janoth. La bella donna ha un piano per vendicarsi…

Tratto dal romanzo di Kenneth Fearing e sceneggiato da Jonathan Latimer, “Il tempo si è fermato” è strutturato come il meccanismo perfetto di un orologio di alta precisione – non a caso il titolo originale è “The Big Clock” – condito da piani sequenza alquanto arditi per l’epoca grazie alla regia di John Farrow (papà di Mia), un meccanismo successivamente molto copiato (“Senza via di scampo” con Kevin Costner e diretto da Roger Donaldson nel 1987, solo per dirne uno).

Piccola e irresistibile parte anche per Elsa Lanchester, moglie nella vita di Laughton, che con la sua battuta fulminante chiude il film, tagliata nella vecchia versione italiana.

Un gioiellino, ancora oggi, perfettamente funzionante.

“L’uomo della Torre Eiffel” di Burgess Meredith

(USA, 1949)

L’immaginario collettivo si ricorderà per sempre di Burgess Meredith come interprete di Mickey Goldmill, l’anziano allenatore non udente di Rocky Balboa, personaggio che ha interpretato in quasi tutti i film della serie che ha Sylvester Stallone come protagonista.

Ma Meredith è stato un grande attore di teatro prima e un famoso caratterista di Hollywood poi, nonché proscritto nell’epoca buia del maccartismo per le sue idee vicine al Partito Comunista.

Proprio prima di finire all’indice, Meredith dirige il suo unico film, che interpreta anche e che gira a Parigi. Una Parigi che si sta rialzando dalla Seconda Guerra Mondiale al cui centro c’è la Torre Eiffel, simbolo del Paese e della libertà che questo, assieme ai suoi alleati, è riuscito a difendere.

E a Parigi chi difende meglio la giustizia dell’ispettore Maigret? Nessuno, e infatti il film è l’adattamento del romanzo di Georges Simenon  “La testa di un uomo”, e nei panni dell’ispettore più famoso di Francia c’è nientemeno che il grande Charles Laughton.

Tutta un’altra storia rispetto al Maigret di Gino Cervi o a quello di Jean Gabin, perché Laughton ne crea uno nuovo, fedele al testo, ma diverso dagli altri. Un grande attore lo si vede anche in questo.

Ma oltre all’interpretazione del grande attore inglese, il film di Meredith possiede un’atmosfera particolare, grazie anche alla sua fotografia e alle sequenze finali girate sulla Torre, davvero spettacolari. Non a caso, nei titoli di testa, fra gli interpreti principali del film c’è …l’intera città di Parigi.

Per fan di Maigret e non solo.

“Testimone d’accusa” di Billy Wilder

(USA, 1957)

Questo film, che è uno dei migliori adattamenti cinematografici in assoluto fra tutte le opere di Agatha Christie, per l’intensità e i colpi di scena è stato spesso attribuito ad Alfred Hitchcock, ma a firmarlo invece è uno dei maestri indiscussi della commedia: Billy Wilder, che dimostra ancora una volta tutte le sue doti dietro la MDP.

Se un bravissimo Tyrone Power ci regala uno dei suoi rarissimi personaggi oscuri, Marlene Dietrich incarna una dark lady memorabile.

Ma in questa pellicola ad incastro perfetto spicca a un palmo sopra agli altri il grande e indimenticabile Charles Laughton – primo attore inglese nella storia ad essere ammesso alla Comédie-Française, e uno dei massimi interpreti e conoscitori delle opere di William Shakespeare, con il quale, per esempio, si confrontava anche Vittorio Gassman per le sue regie teatrali – che veste i panni di Sir Wilfred avvocato difensore di Leonard Vole/Tyrone Power.

A Laughton viene assegnato il David di Donatello come miglior attore straniero dell’anno, mentre  ad Elsa Lanchester sua moglie nella vita, nel ruolo della combattiva infermiera che se ne prende cura, il Golden Globe come miglior attrice non protagonista.

Da vedere e rivedere anche se già si conosce il finale!

“Hobson il tiranno” di David Lean

(UK, 1954)

Del maestro David Lean si ricordano quasi sempre le solite pellicole – e intendo solite nel senso di stupende ma arci note – pochi infatti parlano di quelle realizzate nella sua prima parte della carriera – le cui sceneggiature erano spesso adattamenti di opere teatrali come questa che è l’adattamento di una pièce di Harold Brighouse – ma che hanno reso grande e immortale il cinema britannico.

Oltre a riferirmi a “Breve incontro” (che è stato il primo post che ho scritto) mi riferisco a questa divertente commedia ambientata in un’Inghilterra dickensiana in cui, come spesso succede nella cinematografia di Lean, le donne hanno un ruolo focale.

Salford, nei pressi di Manchester. Henry Horatio Hobson (un grandissimo Charles Laughton) è un dispotico padre vedovo, che tiranneggia le sue tre figlie, che devono occuparsi di tutto, soprattutto dell’antica bottega di scarpe di famiglia.

Se Maggie (Brenda de Banzie) la maggiore ormai è considerata troppo “vecchia” per trovare marito, le altre due Alice e Vicky – ancora ufficialmente in età – scalpitano sospirando ogni giorno pensando ai loro pretendenti.

Per il vecchio Horatio però nessuna delle sue figlie può sposarsi: devono tutte badare alla bottega, alla case e a lui, che torna tutte le sere sbronzo dal pub, oltre al fatto che egli stesso non ha la minima intenzione di cacciare un penny come dote.

Ma il vecchio tiranno sottovaluta la sua Maggie che, con l’aiuto del giovane lavorante dalle mani d’oro Willie Mossop (John Mills) ha in mente un piano…

Deliziosa commedia in costume da godere fino all’ultimo fotogramma, grazie anche al cast fatto tutto di grandi attori del teatro inglese, e a una storia che anticipa quelle lotte sociali – soprattutto quelle legate all’emancipazione della donna – che esploderanno nel decennio successivo.