“Stop a Greenwich Village” di Paul Mazursky

(USA, 1976)

New York 1953, il giovane Larry Lapinsky (Larry Baker) aspirante attore cinematografico, si trasferisce dalla casa dei suoi genitori di Brooklyn, in un appartamento vecchio e trasandato nel Greenwich Village.

Sono solo venti minuti di metropolitana dalla casa paterna, ma sua madre (una bravissima Shelley Winters che interpreta un ruolo molto simile a quello che Monicelli le darà in “Un borghese piccolo piccolo”) vive il trasferimento come un vero e proprio lutto.

Ma Larry vuole fare l’attore e vivere e respirare al “Village” quell’aria da bohemien che si assapora in quell’angolo così particolare della Grande Mela agli inizi degli anni Cinquanta. Insieme alla sua ragazza Sarah (Ellen Greene), frequenta un gruppo di giovani che come lui è in cerca del proprio destino, fra cui spiccano Anita (Lois Smith) e il commediografo Robert (Christopher Walken).

Se il giorno lavora preparando centrifughe vegetali nell’alimentari del signor Herb (Lou Jacobi), la sera Larry frequenta in corso di recitazione, sognando di calcare le scene ed essere il nuovo Marlon Brando. Ma il destino, come spesso accade, ha programmi differenti…

Pellicola autobiografica scritta e diretta da Paul Mazursky (1930-2014) fra i più rilevanti sceneggiatori e registi indipendenti del cinema americano, che ripercorre il periodo precedente al suo trasferimento da New York a Hollywood, proprio in quegli anni. Infatti Mazursky, prima di approdare dietro la macchina da presa ebbe una carriera di attore, e la prima esperienza, il cui provino viene raccontato nel film, fu quella nella pellicola “Paura e desiderio” esordio ufficiale dietro la MDP del grande Stanley Kubrick.

Per la chicca: in una delle scene iniziali appare con i mustacchi e un grande sombrero il giovane e allora sconosciuto Bill Murray che scambia alcune battute con Lenny. Nel ruolo di un giovane attore presuntuoso e arrogante in fila come Larry per fare il provino c’è un’altra stella di Hollywood allora ancora sconosciuta: Jeff Goldblum. Nel ruolo di Bernstein Chandler, invece, uno degli amici di Greenwich Village di Lenny c’è Antonio Fargas che proprio quell’anno inizierà a recitare nei panni del fidato informatore Huggy Bear nella serie cult “Starsky & Hutch”. Serie in cui poi lo stesso Baker interpreterà un episodio.

“La morte corre sul fiume” di Charles Laughton

(USA, 1955)

Questo capolavoro della cinematografia planetaria alla sua uscita nelle sale degli Stati Uniti venne accolto molto freddamente dal pubblico, tanto da decretare la fine della carriera dietro la macchina da presa del suo regista: il grande Charles Laughton (che avrebbe dovuto dirigere poi l’adattamento del romanzo “Il nudo e il morto” di Norman Mailer).

Così, la carriera del regista di uno dei film americani più gotici – con superbi richiami all’espressionismo tedesco – degli anni Cinquanta, si blocca ad una sola pellicola. La modernità della storia e soprattutto del deciso linguaggio visivo difficilmente poteva essere accolti caldamente del pubblico americano (e non solo) di allora.

L’inno contro il fanatismo religioso e puritano (tipico degli stati del sud) che il film rappresenta era davvero troppo precoce. D’altronde Rosa Parks, per non aver ceduto il posto ad un bianco sull’autobus, venne arrestata il 1° dicembre del 1955, pochi mesi dopo l’uscita nelle sale del film.

Laughton dirige superbamente un cast in cui spiccano un grande Robert Mitchum e una bravissima Shelley Winters. Nel periodo precedente all’uscita del film, la Winters era sposata con Vittorio Gassman, che in più di un’intervista ha ricordato le preziosissime disquisizioni che consumava con Laughton, nella piscina della sua villa hollywoodiana, su Shakespeare e la sua messa in scena.

La sceneggiatura è firmata da James Agee (vincitore del Premio Pulitzer e autore di splendidi adattamenti cinematografici come quello per “La Regina d’Africa” di John Huston) ed è tratta dal romanzo “The Night of The Hunter” di Davis Grubb, romanzo che is ispira alla vera storia di Harry Powers che nel 1932 venne giustiziato per aver ucciso due vedove e tre bambini. La condanna venne eseguita nel carcere di Moundsville (nella Virginia Occidentale) città nella quale Grubb, allora tredicenne, viveva.

Stati Uniti del sud, 1933. Harry Powell (un inquietante Mitchum) che si fa chiamare reverendo, è uno psicopatico con l’ossessione religiosa, dietro la quale si nasconde alla sua coscienza per giustificare gli assassini di vedove solitarie, alle quali poi toglie i pochi averi. Nonostante i numerosi delitti, Powell viene fermato casualmente per il furto di un’automobile e condannato ad un mese di carcere.

Il destino vuole che nella sua cella capiti Ben Harper (Peter Graves), condannato a morte per una rapina finita in tragedia. Harper, infatti, stanco e disperato per la fame che patiscono i suoi due bambini John e Pearl, ha rapinato una banca durante la quale però ha ucciso delle guardie. Prima di essere arrestato ha avuto il tempo di tornare a casa e consegnare a John (l’unico con vero buonsenso della famiglia…) i 10.000 dollari, frutto della rapina. Dopo avergli fatto promettere di badare alla sorella e mantenere il segreto, si lascia ammanettare.

Pochi giorni prima dell’esecuzione, nel sonno, Ben si lascia scappare delle parole sui soldi e su suo figlio e così Powell, finito di scontare la sua pena, parte alla ricerca dei 10.000 dollari. Quando raggiunge la casa di Harper, trova la vedova Willa (la Winters) messa all’indice dall’intera cittadina (puritana e bigotta) per il comportamento del marito.

Powell si spaccia come ex cappellano del carcere e col suo charme da (finto) uomo di chiesa conquista in breve tempo Willa e il resto della cittadina. Solo il piccolo John intuisce il male profondo nascosto nell’uomo che ha tatuate sulle nocche delle mani “Love” e “Hate”. Ma Powell è disposto a tutto per ottenere quei soldi e comprende che per averli deve passare su John e sua sorella…

Con un uso magistrale del bianco e nero, e con la riproduzione degli esterni in studio che crea un maggiore stato d’ansia e di oppressione, “La morte corre sul fiume” ci trascina fino all’ultimo fotogramma senza lasciarci un attimo di tregua. Inoltre, il ritratto che Laughton traccia dei due bambini, così innocenti ma così rassegnati nel dover affrontare adulti ipocriti, bugiardi o assassini ricorda quelli che solo il maestro Vittorio De Sica prima, e il grande Francois Truffaut dopo, hanno saputo cogliere.

Insomma, un capolavoro memorabile.

Il dvd riporta la versione col doppiaggio originale fatto quando la pellicola venne distribuita nelle nostre sale, con l’indimenticabile Giulio Panicali che dona superbamente la voce a Mitchum. Negli extra è presenta il trailer originale del film.

“Incontro al Central Park” di Guy Green

(USA, 1965)

La scrittrice australiana di origini scozzesi Elizabeth Colina Katayama, con lo pseudonimo di Elizabeth Kata scrive il suo primo romanzo “Be Ready with Bells and Drums” nel 1959, che vede le stampe però solo nel 1961.

La storia è molto particolare e originale, e così il regista Guy Greene decide di portala sul grande schermo, scrivendo la sceneggiatura e cambiando il titolo in “A Patch of Blue” (titolo che poi prenderà il romanzo nelle successive ristampe).

La macchia di blu a cui si rifesce il titolo originale è l’unico ricordo “colorato” che ha la diciottenne Selina D’Arcy (una bravissima Elizabeth Hartman) da quando a cinque anni ha perso la vista.

L’incidente che l’ha resa non vedente è nato dall’ennesimo litigio fra il padre e la madre Rose-Ann (Shelley Winters) sorpresa con uno dei suoi tanti amanti occasionali. Per difendersi dall’ira del marito la donna gli lancia contro una bottiglia presa fra i suoi trucchi, che finisce però sugli occhi della figlia.

Da quel giorno Selina vive reclusa in casa, dove sbriga la faccende domestiche e lava i panni della madre e del nonno. Ma non solo, per contribuire alle spese di casa – che sono soprattutto gli alcolici per i suoi due parenti – Selina passa il tempo libero ad infilare perline di collane.

Un giorno riesce a farsi portare dal nonno al parco vicino casa, dove da tanto desidera passare la giornata lavorando le sue perline. Un piccolo bruco dall’albero a cui la ragazza è appoggiata le cade sul collo e lei viene presa dal panico, ma l’intervento di un passante risolve subito la questione. Si tratta di Gordon Ralfe (Sidney Poitier) che rimane colpito dalla enorme coraggio di Selina, che a sua volta ignora il colore della pelle del suo nuovo conoscente…

Bellissima pellicola che ci parla di tolleranza, rispetto e coraggio, con un grande cast a partire dalla brava e sfortunata Elizabeth Hartman che viene giustamente condidata all’Oscar e premiata col Golden Globe; passando per il grande Poitier anche lui candidato al Golden Globe, e arrivando alla Winters che meritatamente l’Oscar come migliore attrice non protagonista lo vince.

Incredibilmente oggi questa bella pellicola sembra caduta nell’oblio ed invece, anche a distanza di quasi sessant’anni, andrebbe fatta vedere a scuola. Non a caso il romanzo “A Patch of Blue” negli Stati Uniti è stato uno dei testi più frequentemente letti nelle biblioteche delle scuole primarie.

“Telefonata a tre mogli” di Jean Negulesco

(USA, 1952)

Comiciamo col parlare del titolo in italiano che non c’entra una soave mazza con quello originale “Phone Call from a Stranger”. Il nostro è – …guarda caso… – molto più perbenista e volgarmente maschilista, perché le telefonate che fa il protagonista di questo film sono in realtà quattro: a tre moglie e a un marito. Ma allora, nella simpatica Italia formale e bacchettona, una donna che lasciava il proprio marito non merita niente, neanche di essere citata nel titolo…

David Trask (Gary Merrill, nella vita reale marito della Davis) abbandona le sue due figlie e la moglie, quando questa le confida di aver avuto una relazione con un altro uomo, ora finita. Trask si reca all’aeroporto e prende il primo volo disponibile per Los Angeles. Nella sala d’attesa conosce Binky Gay (un’avvenente Shelley Winters) cantante e spogliarellista – che nella nostra versione è detta pudicamente “nudista” – che è al suo primo volo. Se Trask riesce a calmarla, l’arrivo di altri due viaggiatori invece la fa tornare preda dell’ansia. Il commessio viaggiatore  Eddie Hoke (Keenan Wynn) e il medico Robert Fortness (Michael Rennie), viaggiatori consumanti infatti scherzano un pò troppo sulle pessime condizioni metereologiche con cui il loro aereo dovrà volare. In pochi minuti i quattro – come capita a volte in viaggio con perfetti sconosciuti – si scambieranno brevi cenni delle propria vita, arrivando anche a confessare gravi sbagli. E Hoke sembra essere il più superficiale e scostante di tutti quando mostra orgoglioso la foto di sua moglie Marie (Bette Davis) in costume da bagno.

La nebbia che cala improvvisamente e il ghiaccio che si forma sulle ali del velivolo causano una sciagura aerea alla quale solo Trask sopravvive. Dimesso dall’ospedale l’uomo decide di incontrate le mogli e il marito dei suoi compagni di viaggio periti. Passa prima a casa Fortness, poi nel locale notturno dove il marito di Binky Gay si esibisce, e infine a casa Hoke, dalla signora Marie (una superba Bette Davis). E proprio dopo aver parlato con lei deciderà di telefonare a sua moglie (la terza, appunto).

Grande scena finale, nel segno della grande Hollywood d’annata. Jean Negulesco (già regista di pellicole come “La maschera di Dimitrios” o “Come sposare un milionario”) dirige una pellicola struggente, scritta da I.A.R. Wylie e Nunnaly Johnson.