“Un uomo da niente” di Jim Thompson

(Einaudi, 2013)

“Big Jim” Thompson (1906-1977) – come lo chiama giustamente Stephen King – è stato uno dei maggiori e migliori autori di romanzi noir americani nell’epoca d’oro che va dagli anni Quaranta ai Cinquanta del secolo scorso.

La sua produzione supera i trenta romanzi – fra cui gli strepitosi “Nulla più di un omicidio“, “Colpo di spugna” e “L’assassino che è in me“, solo per citarne alcuni – e la sua penna ha lavorato anche per il cinema, e non solo per gli adattamenti dei suoi libri, firmando le sceneggiature di “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria” entrambi diretti da Stanley Kubrick.

La disperazione e l’odore di catastrofe imminente che si respirano nei suoi scritti, Thompson li aveva assaporati veramente nella sua vita reale. Figlio di uno sceriffo caduto in disgrazia, il giovane Thomson, refrattario all’istituzione canonica, iniziò a fare ogni tipo di mestiere. A vent’anni, in pieno Proibizionismo, lavorando come cameriere in un albergo, ne era diventato lo spacciatore ufficiale di alcol e stupefacenti.

A cambiare la sua esistenza furono le edizioni tascabili che a partire dagli anni Quaranta rivoluzionarono la storia dell’editoria planetaria. Nonostante lo sdegno e la rabbia di noti critici e alcuni scrittori, che vedevano l’avvento dell’edizioni tascabile come la rovina definitiva della letteratura mondiale – esattamente come qualche decennio dopo molti critici e autori fecero col coltello fra i denti per opporsi all’avvento del “male assoluto” che reputavano essere gli ebook, forse anche per paura di perdere la loro posizione privilegiata – le edizioni tascabili a basso costo, riempiendo le edicole di libri, espansero la voglia e la possibilità di leggere in maniera clamorosa.

Fra la facilità di fruizione – le edicole erano ovunque, in stazione, alla fermata dell’autobus, ecc… – e soprattutto il loro basso costo, in poco tempo i loro assidui lettori diventarono milioni. Così le case editrici iniziarono a cercare sempre più autori. Lo sconosciuto James Myers Thompson ebbe la possibilità finalmente di trovare i suoi numerosi lettori. Analogo percorso lo fecero altri ottimi autori che divennero dei veri e propri punti di riferimento nei decenni successivi, come ad esempio Philip K. Dick.

Ma come Dick, Jim Thompson venne apprezzato poco in vita, soprattutto dalla critica che di fatto, dato anche il suo complicato e indomito carattere, lo snobbò. Minato dall’alcol e caduto nel dimenticatoio, Thompson poco prima di morire disse profeticamente alla moglie che ci sarebbero voluto altri dieci anni prima che il mondo lo avrebbe rivalutato. E, infatti, a partire dalla metà degli anni Ottanta i suoi libri vennero sempre più apprezzati e letti dalle nuove generazioni, grazie anche a nuovi adattamenti cinematografici e ad autori di successo, su tutti il grande Stephen King, che ne consigliavano pubblicamente la lettura.

“Un uomo da niente” viene pubblicato per la prima volta nel 1954 col titolo originale “The Nothing Man”. Clifton Brown, detto Brownie, è un giornalista del piccolo quotidiano “Courier” di Pacific City, in Oregon, il cui formale e perbenista direttore è Austin Lovelace . Il suo capo redattore, invece, è Dave Randall che è stato anche il suo colonnello mentre entrambi combattevano al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il rapporto fra Brownie e Randall, nonostante la gerarchia, è complesso e irrisolto. Perché Clifton non perde occasione per punzecchiare e deridere pubblicamente il suo capo. Il motivo nasce proprio al fronte, dove Brownie, calpestando una mina ha perso la sua virilità. Anche se l’evento tragico non era direttamente imputabile a Randall, questo si sente comunque in colpa e sopporta le frecciate del suo ex commilitone che lo chiama sempre con poco rispetto: “colonnello”.

Ma la menomazione subita in guerra non influisce solo sul suo lavoro, ma ha devastato e devasta anche la sua vita privata. Clifton è stato sempre un bell’uomo molto affascinante, ma a sua moglie Ellen, tornato dal fronte, non è riuscito a raccontare la verità. E così l’ha lasciata senza troppe spiegazioni.

La donna, per mantenersi e forse anche per vendicarsi, ha iniziato a prostituirsi. Lo scandalo pesa come un macigno sulla carriera di Clifton che cerca in ogni modo di evitarla. Fortunatamente per lui Ellen è spesso fuori città, ma proprio mentre l’uomo sta iniziando a frequentare la ricca vedova Deborah Chasen, sua moglie torna.

Furioso, stanco e annebbiato dall’alcol, Brownie la va a trovare e la colpisce in testa con una bottiglia di whisky, per poi dare fuoco alla camera d’albergo. Convinto di averla uccisa, Brownie riesce ad evitare un accusa di omicidio da parte di Lem Stukey, il detective capo di Pacific City, che tentava di accusarlo.

Mentre in città è scattata la caccia all’assassinio, Brownie inizia a sentire sempre più opprimente la relazione con Deborah Chasen, visto poi che il momento in cui dovrà confessarle la verità sui suoi genitali si avvicina inesorabilmente. E allora non riesce a trovare altra soluzione che ucciderla…

Come gli altri grandi romanzi di Thompson, anche questo è una discesa agli inferi di un essere umano perso nella follia, nell’alcol ma soprattutto nella sua scarsa e manchevole autostima. I punti in comune fra Clifton Brown e il suo autore non sono pochi, a partire dall’alcolismo e della grande capacità di entrambi di essere degli ottimi scrittori. E forse la castrazione subita in guerra da Borwnie è per Thompson il mancato, unanime e pubblico riconoscimento del suo genio in vita.

“Big” Jim è sempre lui!

“The Truman Show” di Peter Wier

(USA, 1998)

Siamo alla fine degli anni Novanta, il nuovo millennio è ormai alle porte ma la società a molti non sembra pronta ad affrontare le sfide che il nuovo corso storico sembra presentare all’orizzonte.

A dominare la scena planetaria è senza dubbio la televisione che sta immettendo un nuovo – …ma poi era davvero così? – format: il reality, destinato a rivoluzionare il modo di fare e soprattutto di vedere la televisione.

E così lo sceneggiatore neozelandese Andrew Niccol – classe 1964, che poi scriverà e dirigerà il bellissimo “Gattaca – La porta dell’universo” – ispirandosi ad alcune memorabili puntate delle prime stagioni della straordinaria serie televisiva “Ai confini della realtà” creata da Rod Serling nel 1959, e al racconto di Philip K. Dick “Tempo fuor di sesto” pubblicato per la prima volta sempre nel 1959, firma uno script il cui protagonista ignora di essere il personaggio principale del reality show più famoso del globo.

Programma tv noto in ogni angolo del pianeta e conosciuto da tutti, tranne che dallo stesso Truman Burbank (un bravissimo Jim Carrey, forse alla sua migliore interpretazione e inspiegabilmente ignorato agli Academy Awards), adottato legalmente trent’anni prima dal network che ha costruito il set più grande del mondo dove lo ha fatto crescere e vivere, riprendendo ogni istante a sua totale insaputa.

Truman vive assieme ad attori e comparse, che lui crede essere invece veri parenti e amici, a partire dalla sua fidanzata Meryl (una sempre brava Laura Linney) o dal suo storico amico Marlon (Noah Emmerich, che vestirà i panni dello spietato colonnello Nelec in “Super 8” di J.J. Abrams).

Nonostante la sua esistenza apparentemente perfetta ed edulcorata, Truman cova dentro un crescente e incontenibile senso di oppressione e insoddisfazione, e così confessa ai suoi affetti più cari – e davanti a milioni di telespettatori… – che intende lasciare la sua piccola città natale per esplorare il mondo e trovare se stesso.

La cosa, naturalmente, non può che far preoccupare Christof (Ed Harris), il carismatico e dispotico creatore del “Truman Show”…

Con una battuta finale memorabile, questa pellicola supera il quarto di secolo di età conservando integra la sua potenza narrativa e caustica. A distanza di venticinque anni la nostra società è molto cambiata, ma i reality hanno ancora un seguito rilevante. Il centro nevralgico della vita quotidiana, però, non è più il nostro televisore ma è il nostro cellulare, dal quale osserviamo e cerchiamo di afferrare cosa accade nel mondo passando dentro e attraverso i social.

E allora, rivedendo questa sempre affascinante pellicola, la domanda – …come diceva Antonio Lubrano – sorge spontanea: ma non è che adesso siamo diventati tutti dei Truman Burbank che consumano la propria esistenza al centro di uno show planetario che è proprio il nostro social preferito?

….E che a differenza del vero Truman Burbank noi ne siamo totalmente, e colpevolmente, a conoscenza?

Chi non sbircia i social ogni tanto lanci la prima pietra, e ai posteri l’ardua sentenza…

“Electric Dreams” di Ronald D. Moore, Michael Dinner e Philip K. Dick

(USA/UK, 2017)

Che Philip K. Dick sia uno dei maggiori scrittori del Novecento ormai non è una novità. Così come non stupisce che le sue opere siano ancora attuali e affascinanti.

Ideata e prodotta da Ronald D. Moore e Michael Dinner, questa nuova trasposizione televisiva dei racconti di Dick coglie a pieno il suo spirito filosofico ed esistenzialista.

Attraverso la fantascienza lo scrittore di Chicago si pone e ci pone i quesiti più viscerali dell’essere umano …e come la pasta all’amatriciana, Philip Kindred Dick non passa mai di moda!

E pensare che lo scrittore fece in tempo solo a visitare il set di “Blade Runner” prima di morire e di poter assistere al suo trionfo al botteghino e alla sua definitiva consacrazione assoluta.

Con un cast davvero eccezionale che vede, tra gli altri, Bryan Craston (nel ruolo anche di produttore esecutivo) Geraldine Chaplin, Timothy Spall, Steve Buscemi, Anna Paquin e Vera Farmiga, “Electric Dreams” è sicuramente una delle serie più belle degli ultimi anni.

Fra i dieci episodi della prima serie – tutti davvero molto belli -, se proprio devo scegliere “Real Life” e “The Commuter”: davvero splendidi.

Da vedere e non solo per gli amanti della fantascienza.

Per la chicca: nei titoli di testa c’è un piccolo omaggio al grande Dick.