“Il pianeta delle scimmie” di Franklin J. Schaffner

(USA, 1967)

Cult indiscusso della fantascienza, e non solo quella cinematografica, degli anni Sessanta.

Tratto dal’omonimo romanzo del francese Pierre Boulle (1912-1994) – che nel 1952 aveva pubblicato il libro di grande successo “Il ponte sul fiume Kwai” che ispirò il famosissimo adattamento cinematografico diretto da David Lean nel 1957 con, fra gli altri, Alec Guinness e William Holden – che venne pubblicato per la prima volta nel 1963, e due anni dopo nel nostro Paese col titolo “Viaggio a Soror”, opera che molti considerano ispirata a “Gorilla Sapiens (Genus Homo)” scritto dagli statunitensi Lyon Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller nel 1941.

Il romanzo di Sprague de Camp e Schuyler Miller (che a sua volta si ispira indiscutibilmente allo splendido “La macchina del tempo” del maestro Herbert George Wells) però, non parla di viaggi nello spazio, ma di un gruppo di esseri umani che a causa di un incidente rimane intrappolato in un tunnel stradale. Grazie ad una sostanza chimica gli esseri umani cadono in un lungo letargo che li blocca nel tunnel per milioni di anni. Al loro risveglio il gruppo trova la Terra completamente cambiata: ricoperta quasi interamente da interminabili foreste fluviali, è dominata da quattro specie di scimmie intelligenti che sono in lotta fra loro…

Pierre Boulle, invece, nel decennio segnato della febbre per la conquista della Luna e allo stesso tempo dal terrore atomico, sposta la vicenda nello spazio dove una “particolare” coppia di viaggiatori interstellari trova una bottiglia con un messaggio che racconta l’incredibile viaggio sul pianeta Soror fatto dall’esploratore stellare Ulisse Mérou…

Nel 1967 la 20th Century Fox decide di realizzarne l’adattamento cinematografico e chiama due grandi esperti per scrivere la sceneggiatura: Michael Wilson (già premio Oscar per lo script de “Il ponte sul fiume Kwai”) e il grande Rod Serling, che con la sua serie immortale “Ai confini della realtà” ha cambiato per sempre il mondo di fare fantascienza. E la mano di Serling si vede tutta in quasi ogni fotogramma della pellicola, che abbandona alcuni snodi narrativi del romanzo originale – come ad esempio il finale che invece rispetterà quasi alla lettera Tim Burton nel suo “Il pianeta delle scimmie” del 2001 – per parlare dei temi bollenti nell’Occidente del momento: la piaga infame dell’intolleranza e del razzismo, e l’ombra tetra e oppressiva dell’olocausto atomico, che non sembrano poi così lontani l’uno dall’altro.

La regia viene affidata a Franklin J. Schaffner (che poi dirigerà pellicole come “Patton. Generale d’acciaio”, “Papillon” e “I ragazzi venuti dal Brasile”) che riesce a girare scene e sequenze d’azione davvero di primo livello, considerando i mezzi allora a disposizione, soprattutto quelli per realizzare gli effetti speciali.

Così ci troviamo a bordo della nave spaziale Icarus (nome che ce la dice lunga…) il cui equipaggio è composto da George Taylor (Charlton Heston) Landon (Robert Gunner), Dodge (Jeff Burton) e Stewart. La missione è quella di viaggiare nel cosmo per raggiungere un nuovo pianeta da popolare e colonizzare. Secondo la teoria della relatività del tempo, i sei mesi passati dal gruppo sulla Icarus – la cui velocità sfiora quella della luce – equivalgono a numerose decine di anni sulla Terra. I quattro, intanto, si ibernano per compiere un lungo viaggio nello spazio e raggiungere il pianeta simile alla Terra, loro obiettivo. 

Durante il viaggio però, la navicella naufraga su un pianeta ammarando in un lago salato nel centro di un deserto. Taylor, Landon e Dodge si svegliano in tempo per salvarsi e constatare che la cabina di Stewart era difettosa e che la donna è morta nel sonno ormai da molto tempo.

Raggiunta la riva, i tre astronauti iniziano a camminare nel deserto in cerca di acqua e cibo. Quando le loro riserve stanno per terminare, incontrano una tribù di esseri del tutto simili agli umani, ma senza la parola. Non hanno neanche il tempo di tentare una qualche comunicazione che tutti vengono attaccati da un gruppo di gorilla a cavallo che, con armi e reti, li cattura tutti, uccidendone molti.

Taylor, prima di essere preso insieme a Landon, viene ferito gravemente alla gola, mentre Dodge rimane ucciso. Quando Taylor riprende i sensi si ritrova in una gabbia guardato a vista da altri gorilla umanoidi – che evidentemente domina il pianeta – alcuni con in mano fruste e bastoni, altri con fogli di carta e penne.

L’astronauta non ci mette molto a capire che gli ultimi due, Zira (Kim Hunter, che nel 1952 vinse l’Oscar per la sua interpretazione di Stella ne “Un tram che si chiama desiderio” diretto da Elia Kazan, ruolo che aveva portato precedentemente in teatro) e Cornelius (Roddy McDowall), sono scienziati e gli altri semplici guardiani. A causa della ferita alla gola Taylor non riesce a parlare, ma Zira intuisce che quell’uomo non è come gli altri e così lo chiama “occhi vivi”. I due scienziati riferiscono del nuovo arrivato al professor Zaius (Maurisce Evans) che, oltre ad essere il responsabile della ricerca scientifica della comunità, è anche uno dei guardiani delle antiche scritture.

E proprio queste, da secoli, dicono che gli esseri umani oltre ad essere estremamente pericolosi non sono in grado di pensare e quindi di parlare, e per questo Zaius osserva e tratta Taylor con infinito disprezzo e sdegno, che forse dissimulano anche della paura…

Il resto è storia del cinema, che trova il suo apice nella scena finale che ancora oggi viene continuamente citata e omaggiata. Ma quello che colpisce sempre dritto al mento è la denuncia senza sconti che questa pellicola fa urlando contro il razzismo e la discriminazione, tema molto caro dal grande Rod Serling.

Il biondo, aitante e dagli occhi azzurri Charlton Heston viene picchiato e tenuto al guinzaglio da dei gorilla: cosa intollerabile per la parte più reazionaria, razzista e conservatrice dell’allora società benpensante americana, e non solo. E allo stesso tempo Serling ci ricorda che il peggior nemico dell’uomo …è se stesso.

Per comprendere al meglio la mano di Rod Serling in questo film basta andarsi a rivedere l’indimenticabile episodio “Gente come noi” della prima stagione di “Ai confini della realtà”, andato in onda nel marzo del 1960, con protagonista, guarda caso, lo stesso Roddy McDowall.

Immortale.  

“L’uomo venuto dall’impossibile” di Nicholas Meyer

(USA, 1979)

Herbert George Wells è stato uno dei più grandi scrittori di fantascienza della storia, uno dei più geniali e innovatori, proprio come Jules Verne. Molte delle invenzioni descritte nei suoi romanzi poi sono state realmente realizzate. Ma, a differenza di Verne, Wells preannunciò anche l’idea di socialismo, tema al centro della sua opera più famosa: “La macchina del tempo” del 1895.

Proprio dal suo romanzo più famoso lo sceneggiatore e regista Nicholas Meyer (autore del romanzo “Sherlock Holmes: soluzione sette per cento” e della sceneggiatura dell’omonimo film nonché di quelle di “Ster Trek II: l’Ira di Kahn” e “Rotta verso la Terra”) si basa per scrivere questo “L’uomo venuto dall’impossibile” di cui poi dirigerà l’adattamento cinematografico.

Nel 1893 le notti di Londra sono insanguinate dal feroce e misterioso Jack lo Squartatore a cui tutta Scotland Yard dà inutilmente la caccia. Intanto, nel suo studio, lo scrittore e scienziato Herbert George Wells (Malcom McDowell) presenta ai suoi più stretti amici la sua nuova invenzione: la macchina del tempo. E proprio quando giunge – in ritardo – l’ultimo ospite, il medico chirurgo John Stevenson (un cattivissimo David Warner che poi sarà il cattivo anche in “Tron“), Wells annuncia il suo prossimo viaggio inaugurale nel tempo.

Ma la Polizia irrompe: sono sulle tracce di Jack lo Squartatore che alcuni testimoni affermano di aver visto entrare in casa Wells. Ormai non ci sono dubbi: Stevenson è l’assassino più efferato nella storia dell’Inghilterra vittoriana, ma del medico non ci sono più tracce. Solo Wells intuisce dove è fuggito: nel futuro, usando la sua macchina del tempo. Allo scrittore e scienziato non rimane altro che inseguire il sanguinario assassino dove si è diretto: nel 1979…

Geniale thriller fantasy che anticipa non pochi elementi che saranno portanti del cinema anni Ottanta e Novanta. Il display della mitica Delorean di “Ritorno al Futuro” ricorda tanto quello della macchina del tempo di questo film. La caccia a un serial killer e le difficoltà di chi, suo malgrado, è costretto a cacciarlo, sono elementi che troveranno il loro apice ne “Il silenzio degli innocenti”. Ma, soprattutto, la decadenza e la corruzione dei costumi e della società che Wells, nei suoi scritti ha sempre temuto e contrastato col socialismo ideale, e che invece Meyer lo costringe a vivere per inseguire un mostro che credeva, illudendosi, figlio solo del suo tempo.

Oltre a questo, “L’uomo venuto dall’impossibile” – il cui titolo originale è “Time After Time” che ha un significato ben diverso – è davvero ancora affascinante con colpi di scena degni del grande cinema di fantascienza.

“La macchina del tempo” di Herbert George Wells

(1996, Mursia)

Qui parliamo di un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1895, lo stesso anno in cui i fratelli Lumière brevettarono il loro cinematografo!

Il suo protagonista, che viene chiamato semplicemente “Il Viaggiatore nel Tempo” costruisce una macchina che gli permette di girovagare nei secoli. E proprio durante una cena con pochi intimi amici, egli racconta dei suoi pellegrinaggi.

Grazie al suo marchingegno è riuscito ad arrivare al 802.701 dopo Cristo. La lotta di classe, che nell’Inghilterra di fine Ottocento cominciava a prendere forma, in quel futuro così lontano si è ferocemente estremizzata…

Oltre a essere un grande romanzo di fantascienza è un bellissimo romanzo politico che fotografa, senza filtri, la società capitalistica di quegli anni.

C’è tanto di questo Wells nello splendido “Metropolis” diretto da Fritz Lang nel 1927.

Da leggere, assolutamente.