“Mr. Mercedes” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2014)

E’ inutile borbottare, il Re è sempre il Re!

E anche in quest’ultima sua opera, che forse non ti inchioda alla poltrona come altre, esce fuori il grande scrittore che è.

King ci racconta un’anomala caccia a un serial killer – che indossa una maschera da …clown – da parte di un poliziotto in pensione, Bill Hodges, sovrappeso e in totale solitudine. Il killer, una volta fatta franca, sfiderà apertamente Bill tentando di distruggerlo emotivamente.

Ma sulla strada dell’ex poliziotto capitano l’adolescente e volitivo Jerome Robinson e Holly Gibney, cugina di una delle vittime del killer che, nonostante le sue grandi e profonde insicurezze di donna sola e schiacciata dalla figura materna, decide di aiutarlo.

Ma come sempre, in tutti i grandi romanzi del Re, i mostri che fanno più paura, quelli implacabili e senza pietà, sono quelli presi dalla vita reale e non dalla fantasia.

E poi, far ammazzare barbaramente dei disoccupati che hanno appena passato la notte in fila per sperare di trovare un posto di lavoro, oltre ad essere un tragico segno dei tempi, è la firma di un grande narratore.

Da leggere …naturalmente.

“Il miglio verde” di Frank Darabont

(USA, 1999)

Dopo lo splendido “Le ali della libertà”, Frank Darabont firma la regia del suo secondo adattamento di un’opera del Re Stephen King.

Questa volta si tratta di un romanzo a puntate, successivamente ricompattato per esigenze editoriali, fra i più duri contro la pena di morte scritti da King.

Come in “Rita Hayworth e la redenzione del carcere di Shawshank”, “Il miglio verde” è ambientato nell’America degli anni Cinquanta, periodo centrale nella narrativa del Re, e che lo stesso Darabont riesce a ricreare magistralmente sul grande schermo.

Ma la bellezza di questo film è dovuta anche a un cast straordinario fra cui spiccano ovviamente Tom Hanks – altro grande paladino a favore dell’abolizione della pena di morte negli USA -, Michael Clarke Duncan, David Morse e Sam Rockwell, davvero squilibrato e spietato.

Per la chicca: Darabont ha raccontato che Duncan (scomparso prematuramente nel 2012) era alto 1,94 centimetri, ma per renderlo “gigantesco” – come vuole il racconto – rispetto agli altri, l’attore dovette recitare la maggior parte delle scene su uno sgabello visto che Hanks è 1,84 e Morse 1,93.

“Doctor Sleep” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2014)

Esatto! Sono fissato di Stephen King e leggo tutti i suoi libri appena escono: e allora?!

Prima di iniziare questa sua ultima fatica non sono riuscito ad evitare di sbirciare alcune aspre critiche sull’attesissimo seguito di “Shining”.

Ognuno la pensa come vuole e ha tutto il diritto pure di esternarlo, ma dite quello che vi pare: il Re è sempre il Re.

Gli anni passano e le persone maturano (e come ho già detto parlando del Re, maturare non vuol dire sempre invecchiare) e Stephen King è uno scrittore che rimane fedele a se stesso, ai suoi lettori e, soprattutto, ai suoi mostri interiori.

Chi pensa di leggere le stesse cose che King scriveva trent’anni fa – alcolista e al limite della tossicodipendenza per sua stessa ammissione: nel suo splendido “On Writing – Autobiografia di un mestiere” racconta come, proprio a causa di alcol e anfetamine di cui faceva abbondantemente uso in quegli anni, abbia sol un vago ricordo della genesi del suo “Cujo”  – sbaglia completamente.

“Doctor Sleep” è un romanzo che parla di mostri, ma soprattutto di dipendenze autodistruttive e di come, raramente, ci si può salvare da queste.

Di come la vita di una persona possa essere influenzata drammaticamente dal comportamento autodistruttivo dei suoi genitori, ma anche di come la stessa persona possa salvarsi, o almeno tentare onestamente di farlo.

Come capita sempre dopo aver letto un libro del Re, appena terminato “Doctor Sleep”, ci si rende conto che i mostri più famelici e letali sono quelli dentro di noi.

W il Re!

“Fuga da Alcatraz” di Don Siegel

(USA, 1979)

Questo film mi è così rimasto impresso che ricordo ancora oggi molto bene il cinema in cui lo vidi nell’allora prima visione.

E’ tratto dal libro di J. Campbell Bruce che ricostruisce la vera fuga del detenuto Frank Lee Morris avvenuta nel 1962, primo evaso nella storia dell’allora fortezza inviolata che era la prigione di Alcatraz, nella baia di San Francisco.

La pellicola non ci dice se effettivamente Morris e i suoi due complici morirono affogati – come era capitato in precedenza – nel braccio di mare gelido che separa l’isola dalla costa, o la raggiunsero e si dileguarono liberi per sempre.

Sta di fatto che l’ingente spiegamento di forze che allora perlustrò la zona non trovò nessun corpo – primo caso nella storia – cosa che scatenò la fantasia e l’immaginario di molti.

A distanza di tanti anni, rivedere la pellicola diretta dal maestro Don Siegel, e interpretata da un glaciale Clint Eastwood, fa ancora effetto, nonostante tutto quello che è stato realizzato dopo sullo stesso argomento.

Per me poi, che sono un fan di Stephen King, i riferimenti e le citazioni a questo film nel suo racconto “Rita Heyworth e la redenzione di Shawshank” e nella successiva pellicola “Le ali della libertà” di Frank Darabont, mi mandano in sollucchero.

“Joyland” di Stephen King

(2013, Sperling & Kupfer)

E’ inutile tentare anche solo di alzare un dito per ribattere: il Re è sempre il Re.

In questo crepuscolare e sentimentale romanzo King ci racconta come nel 1973 un ragazzo – che all’epoca aveva più o meno la sua età, con il suo aspetto fisico e, molto probabilmente, con il suo carattere – a vent’anni è diventato grande. E come accade nella realtà, la cosa non è stata facile né indolore.

Ho letto alcune recensioni di lettori che si lamentano perché non ci sono i “bei mostri” di una volta. A parte che i mostri ci sono e fanno pure paura, e come sempre quelli più terrificanti non sono figli della fantasia ma presi pari pari dalla realtà.

Ma soprattutto non è un caso che fra i film di maggior successo – e incasso – tratti dalle opere letterarie di King ci siano “Le ali della libertà” (diretto da Frank Darabont nel 1994), “Stand By Me – Ricordo di un’estate” (di Rob Reiner del 1986) e “Shining” (del maestro Stanley Kubrick, 1980), e in nessuno di questi si parla di mostri fantastici o venuti da un altro mondo, ma di quelli – molti più temibili e spietati – che fanno parte della razza umana.

Un bel romanzo di formazione da leggere, per gli amanti di King e non solo.

“Colorado Kid” di Stephen King

(2005, Sperling & Kupfer)

Non avrebbe alcun senso raccontare la trama di questo lungo racconto di Stephen King: “Colorado Kid” va semplicemente letto e goduto.

Ci sono molti che trovano la seconda parte della produzione letteraria del Re triste e malinconica, soprattutto priva della suspense e dei brividi di cui invece è zeppa la prima.

Ma le persone cambiano (e non mi azzardo certo a dire “crescono”). E l’incidente nel quale King ha seriamente rischiato di morire nel giugno del 1999, oltre che fisici, probabilmente ha lasciato anche profondi segni interiori.

E siccome King è un grande scrittore anche per la totale onestà che usa per quanto riguarda tutto ciò che scrive, le storie tristi e malinconiche sono diventate forse le sue preferite.

Ma il Re è sempre il Re!

“Nulla più di un omicidio” di Jim Thompson

(1959/1994, Mondadori)

Fra i grandi maestri del noir americano (con la N maiuscola) Jim Thompson occupa un posto di riguardo, al pari di Raymond Chandler e James M. Cain. Pubblicato la prima volta nel 1949, questo romanzo ha una trama poi non così complicata: ci sono due donne e un uomo e, come accade quasi sempre, il triangolo non può durare a lungo…

Ma lo sviluppo del racconto e lo stile crudo e inesorabile di Thompson lo rendono davvero unico. Scommettiamo che la prima volta che lo leggi, quando arrivi all’ultima pagina, fai un salto sulla sedia?

Di Thompson, autore anche di “Getaway” e “Rischiose abitudini”, Stephen King ha detto: “Troppo spesso imitato ma mai eguagliato” …parola del Re.

Per chi non conosce bene Jim Thompson (1906-1977) è giusto ricordare che è stato l’autore di oltre trenta romanzi – fra cui “Colpo di spugna“, “Un uomo da niente” e “L’assassino che è in me” – che fra gli anni Quaranta e Cinquanta hanno segnato l’immaginario collettivo americano.

Ha lavorato anche come sceneggiatore per Hollywood, sia per i vari adattamenti cinematografici dei suoi libri che come autore collaborando, per esempio, con Stanley Kubrick negli script di “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”.

“On Writing – Autobiografia di un mestiere” di Stephen King

(2001, Sperling & Kupfer Editori)

Di manuali o raccolte di consigli dedicate ad aspiranti scrittori ce ne sono tanti. Ma questa scritta da Stephen King è quella che mi ha colpito e aiutato di più.

Io non sono un amante degli horror, ma amo profondamente i libri di King nonostante a fatica superi le pagine più splatter e demoniache.

E in questo libro il Re parla in maniera semplice ed efficace del suo mestiere, della genesi di alcune sue opere, delle grandi difficoltà affrontate, delle soddisfazioni e dei pericoli più nascosti nello scrivere, oltre a fornire una serie di semplici e fondamentali consigli utilissimi come ad esempio: “l’onestà nel raccontare compensa moltissimi difetti stilistici mentre mentire è il peccato irreparabile in assoluto”.

Fondamentale.