“Nessuno ci può fermare” di Sidney Poitier

(USA, 1980)

La collaborazione artistica fra Gene Wilder e Richard Pryor inizia ufficialmente nel 1974 quando si trovano entrambi nella produzione di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” diretto da Mel Brooks. Infatti, a scrivere la sceneggiatura lo stesso Brooks vuole il giovane Pryor, caustico esponente della stand up comedy che sta riscuotendo molto successo in numerosi locali del Paese. Dati i suoi clamorosi ritardi e le sue discusse abitudini la produzione, però, lo reputa troppo inaffidabile e non lo vuole nel sul set sostituendolo con Cleavon Little nel ruolo del protagonista Bart, lo sceriffo afroamericano di Rockridge.

Ma negli anni successivi l’affermazione delle carriere cinematografiche di entrambi li porta finalmente a recitare insieme in “Wagon-lits con omicidi” diretto a Arthur Hiller nel 1976. Il successo della pellicola consacra definitivamente la coppia come una delle più esilaranti ed efficaci del cinema americano.

Nel 1980 i due tornano a recitare insieme in “Nessuno ci può fermare”, che rappresenterà il maggior incasso americano dell’anno solo dopo “Star Wars: L’impero colpisce ancora” e “Dalle 9 alle 5 orario continuato“.

Dietro la macchina da presa c’è una vera e propria leggenda di Hollywood: Sidney Poitier. Scritta da Bruce Jay Friedman e Charles Blackwell, la pellicola ha per protagonisti Skip Donahue (Wilder) e Harry Monroe (Pryor), rispettivamente un commediografo e un attore che sognano di conquistare Broadway, ma che in realtà non riescono a mantenere un lavoro, lontano dalle assi di un palcoscenico, per più di qualche settimane.

Il fatto che la Grande Mela “non li voglia aiutare”, fa venire in mente a Skip di fare come gli antichi pionieri: attraversare l’intero Paese per raggiungere la California e lì tentare la fortuna a Hollywood. L’idea all’inizio non piace a Harry, che non è un ingenuo sognatore come l’amico, visto poi che essendo afroamericano ha dovuto affrontare prove che Skip, grazie al roseo della sua epidermide, ha potuto serenamente evitare. Ma l’insistenza dell’amico e l’impossibilità di sfondare a Broadway alla fine lo convincono.

Ma sulla strada che li porta in California i due vengono presi per due spietati rapinatori di banche, catturati e condannati a 30 anni da scontare in carcere. L’impatto dietro le sbarre è devastante, e al tempo stesso irresistibile.

Ma, in maniera del tutto inaspettata, Skip viene selezionato dal direttore del carcere per gareggiare nel rodeo annuale delle prigioni, dove girano molti soldi soprattutto legati alle scommesse clandestine. Grazie all’amicizia di alcuni detenuti, Skip e Harry intravedono una insperata occasione nel rodeo…

Questa esilarante commedia, nonostante l’apparenza del classico meccanismo dello scambio di persone, ci parla in maniera anche poco velata dell’atroce piaga del razzismo negli Stati Uniti. Se a dirigerla è uno dei volti simbolo della lotta al razzismo come Sidney Poitier, ad interpretarla c’è quello ironico ma anche segnato dal dolore di una vita passata a lottare contro l’arroganza del razzismo in un Paese che allora, come purtroppo in buona parte ancora oggi, doveva fare i conti con la parte più ottusa e violenta dell’integralismo razziale.

Non è un caso quindi che nei suoi spettacoli, già dagli anni Settanta, Richard Pryor parlasse dei soprusi e delle violenze che gli afroamericani subivano quotidianamente, anche da parte di chi li avrebbe dovuti proteggere come per esempio la Polizia.

I due grandi comici torneranno a recitare insieme nell’esilarante “Non guardami, non ti sento” del 1989.

“Incontro al Central Park” di Guy Green

(USA, 1965)

La scrittrice australiana di origini scozzesi Elizabeth Colina Katayama, con lo pseudonimo di Elizabeth Kata scrive il suo primo romanzo “Be Ready with Bells and Drums” nel 1959, che vede le stampe però solo nel 1961.

La storia è molto particolare e originale, e così il regista Guy Greene decide di portala sul grande schermo, scrivendo la sceneggiatura e cambiando il titolo in “A Patch of Blue” (titolo che poi prenderà il romanzo nelle successive ristampe).

La macchia di blu a cui si rifesce il titolo originale è l’unico ricordo “colorato” che ha la diciottenne Selina D’Arcy (una bravissima Elizabeth Hartman) da quando a cinque anni ha perso la vista.

L’incidente che l’ha resa non vedente è nato dall’ennesimo litigio fra il padre e la madre Rose-Ann (Shelley Winters) sorpresa con uno dei suoi tanti amanti occasionali. Per difendersi dall’ira del marito la donna gli lancia contro una bottiglia presa fra i suoi trucchi, che finisce però sugli occhi della figlia.

Da quel giorno Selina vive reclusa in casa, dove sbriga la faccende domestiche e lava i panni della madre e del nonno. Ma non solo, per contribuire alle spese di casa – che sono soprattutto gli alcolici per i suoi due parenti – Selina passa il tempo libero ad infilare perline di collane.

Un giorno riesce a farsi portare dal nonno al parco vicino casa, dove da tanto desidera passare la giornata lavorando le sue perline. Un piccolo bruco dall’albero a cui la ragazza è appoggiata le cade sul collo e lei viene presa dal panico, ma l’intervento di un passante risolve subito la questione. Si tratta di Gordon Ralfe (Sidney Poitier) che rimane colpito dalla enorme coraggio di Selina, che a sua volta ignora il colore della pelle del suo nuovo conoscente…

Bellissima pellicola che ci parla di tolleranza, rispetto e coraggio, con un grande cast a partire dalla brava e sfortunata Elizabeth Hartman che viene giustamente condidata all’Oscar e premiata col Golden Globe; passando per il grande Poitier anche lui candidato al Golden Globe, e arrivando alla Winters che meritatamente l’Oscar come migliore attrice non protagonista lo vince.

Incredibilmente oggi questa bella pellicola sembra caduta nell’oblio ed invece, anche a distanza di quasi sessant’anni, andrebbe fatta vedere a scuola. Non a caso il romanzo “A Patch of Blue” negli Stati Uniti è stato uno dei testi più frequentemente letti nelle biblioteche delle scuole primarie.

“I gigli del campo” di Ralph Nelson

(USA, 1963)

Questa storica pellicola uscì nelle sale statunitensi il 1° ottobre del 1963, poco meno di due mesi prima dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas.

La politica dichiaratamente antirazzista del primo Presidente cattolico degli Stati Uniti aveva creato non pochi attriti all’interno della società americana, ma quel lungo percorso di integrazione – purtroppo non ancora definitivamente compiuto, ma che nel 2008 ha portato a eleggere alla Casa Bianca il primo Presidente afroamericano della storia – era ormai avviato; così come ci ha raccontato, fra gli altri, “Green Book” di Peter Farrelly.

In un giorno afoso e torrido, il manovale Homer Smith (un grande Sidney Poitier) attraversa il deserto dell’Arizona per raggiungere la costa occidentale dove è convinto di poter trovare un buon lavoro.

Ma il radiatore della sua macchina, al tempo stesso casa e laboratorio, ha disperatamente bisogno di acqua. Così si ferma nell’unica fattoria nelle vicinanze dove trova, inaspettatamente, cinque suore cattoliche provenienti da una congregazione della Germania Est, a cui il vecchio proprietario del terreno ha lasciato tutti i suoi beni.

Solo la Madre Superiora Maria (Lilia Skala) parla un limitato inglese con il quale offre al nuovo venuto, dopo averlo rifornito di acqua, un lavoro: riparare il tetto della fattoria. L’uomo accetta ma quando il giorno dopo, finito il lavoro, chiede la paga si accorge che le cinque religiose vivono in profonda indigenza, visto che i loro campi ancora non producono niente.

Smith è deciso a riprendere il suo viaggio, ma Madre Maria lo ferma sostenendo che lui è stato mandato dal Signore per realizzare il sogno dell’intera comunità cattolica della zona: costruire una piccola cappella lì nel deserto. Homer, che dichiara subito di essere di rito battista, quasi indignato sale sulla sua auto e parte, ma…

Tratta dal romanzo di William Edmund Barrett, questa pellicola ci parla con particolare eleganza di tolleranza, integrazione e rispetto. Non a caso lo stesso Poitier conquisterà l’Oscar come migliore attore – il primo nella storia assegnato a un afroamericano – oltre al Golden Globe e l’Orso d’Argento a Berlino; e in tutto il film verrà candidato a cinque statuette, fra cui quella come miglior film e come miglior attrice non protagonista per l’interpretazione di Lilia Skala (che qualche decennio dopo interpreterà l’ex ballerina mentore di Alex/Jennifer Beals in “Flashdance”).

Il compositore, musicista e maestro di coro, nonché attore, Jester Hairston curò l’arrangiamento della canzone gospel “Amen” che Poitier canta insieme alle religiose, diventata poi un’icona del film e uno degli inni all’integrazione del Novecento.

Per la chicca: il titolo del film, che in originale è “Lilies of the Field”, si rifà – come quello in italiano – a due citazioni dei Vangeli che si scambiano Smith e Madre Superiora Maria, quando l’uomo dopo aver aggiustato il tetto chiede di essere pagato cita: “S. Luca 10:7, «L’ operaio è degno della sua mercede»”. Madre Maria gli risponde con i versi: “S. Matteo 6:28-29, «Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.»”.

Da vedere e ascoltare.