“Il lavoro” di Luchino Visconti

(Italia, 1962)

Tratto dal racconto di Guy de Maupassant “Sul bordo del letto” e sceneggiato dalla grande Suso Cecchi D’Amico assieme allo stesso Luchino Visconti, “Il lavoro” è forse il più amaro e caustico fra i quattro episodi che compongono “Boccaccio ’70” assieme a “Renzo e Luciana” di Monicelli, “Le tentazioni del dottor Antonio” di Fellini e “La riffa” di De Sica.

Visconti sceglie il racconto di de Maupassant per narrare una storia nell’ambiente in cui è nato e cresciuto: l’alta e opulenta aristocrazia italiana. La protagonista è una giovane donna “bella e ricca” che però, in una società patriarcale e maschilista come era la nostra, non può sottrarsi al suo ruolo satellite del marito.

Il conte Ottavio (Tomas Milian) torna nel secolare e storico palazzo milanese della sua nobile e antica famiglia. Ad attenderlo c’è il preoccupatissimo avvocato Zacchi (un sempre bravo Romolo Valli) insieme ad uno stuolo di altri prestigiosi legali, fra cui Alcamo (che ha il viso dell’immortale Paolo Stoppa che, assieme a Valli e alla compagna di vita la grandissima Rina Morelli, era uno degli attori preferiti sia davanti alla macchina di presa che sul palcoscenico da Visconti).

Ottavio, infatti, è al centro di uno scandalo internazionale: alcune ragazze squillo – come allora si chiamavano le escort – hanno rilasciato delle interviste scottanti alla carta stampata sulla sua assidua e dispendiosa frequentazione di un’esclusiva casa per appuntamenti sita all’estero.

Zacchi e i suoi collaboratori hanno cercato in ogni modo di arginare lo scandalo, ma quello di cui ora Ottavio ha bisogno è una dichiarazione a suo favore di Pupe (una dirompente e luminosa Romy Schneider) la sua giovane moglie, a cui peraltro il conte ha intestato tutte le sue attività per ragioni fiscali.

Ottavio, così, cerca in ogni modo di minimizzare l’accaduto, ma Pupe gli confessa di essere andata direttamente a parlare con le squillo per sapere alla fonte la verità. Il padre della donna vorrebbe bloccare i conti e lasciare Ottavio sul lastrico per l’onta pubblica subita, ma Pupe è contraria. Alla fine, stufa di dipendere economicamente dal padre o dal marito, decide di mettersi a lavorare. Ma dopo una lunga riflessione, in cui deve ammettere di non saper fare nulla, si rassegna all’unico “lavoro” che è in grado di portare a termine: soddisfare sessualmente il marito …a pagamento.

Dura e senza via di scampo riflessione sul matrimonio, dove la donna, indipendentemente dall’ambiente e dai beni che possiede è “incatenata” moralmente e materialmente al marito. Siamo in anni in cui il divorzio nel nostro Paese è ancora molto lontano, e nessuno può sfuggire alla morale più reazionaria della società.

Pupe così si ritrova da sola, perché anche il padre è alla fine un uomo patriarcale molto simile al marito. Certo, è offeso e indignato per lo scandalo che vede come vittima sua figlia che porta il suo stesso cognome, ma Pupe – suo malgrado – è sempre una donna, ricca sì …ma sempre una donna.

Triste concetto che ci ricorda superbamente anche Paola Cortellesi nel suo bellissimo “C’è ancora domani“. Quando Delia va dal Notaio per fargli la puntura, assiste casualmente alla conversazione fra il figlio del padrone di casa e la moglie. Ricca e laureata, lei vorrebbe intervenire nella conversazione che il marito sta facendo col figlio sulle imminenti elezioni, ma viene zittita perché …donna.

Sono passati molti decenni dall’uscita nelle sale dell’episodio diretto da Visconti, e grazie all’impegno di molte e di molti le cose sono cambiate. Ma non abbastanza. E visto che nel nostro Paese ci sono ancora dei romantici e nostalgici fan del patriarcato – di quando, per esempio, le donne non avevano diritto al voto – quanto è ancora lunga la strada da fare per arrivare davvero alla parità di genere?

Stavolta, però, non lasciamo ai posteri l’ardua sentenza.

“Giù la testa” di Sergio Leone

(Italia/Spagna/USA, 1971)

“LA RIVOLUZIONE

NON E’ UN PRANZO DI GALA

NON E’ UNA FESTA LETTERARIA,

NON E’ UN DISEGNO O UN RICAMO,

NON SI PUO’ FARE CON TANTA ELEGANZA,

CON TANTA SERENITA’ E DELICATEZZA,

CON TANTA GRAZIA E CORTESIA.

LA RIVOLUZIONE E’ UN ATTO DI VIOLENZA. (MAO TZE TUNG)”

Così inizia uno dei capolavori indiscussi del cinema mondiale, che più passa il tempo e più diventa bello e affascinante: “Giù la testa” del maestro Sergio Leone.

Messico 1913. Nonostante il Paese sia nel pieno della rivoluzione che vede fra i suoi protagonisti Pancho Villa ed Emiliano Zapata, il peone Juan Miranda (un grande Rod Steiger) pensa solo a sfamare se stesso, i suoi numerosi figli e suo padre. E ci riesce facendo l’unica cosa che il mondo gli consente di fare: rapinare e rubare. Il suo sogno è, infatti, la famosa Banca di Mesa Verde dove sono rinchiuse, secondo lui, montagne d’oro che però sembrano davvero inaccessibili.

Ma sulla sua strada incappa in John H. “Sean” Mallory (James Coburn) che scopre essere un esule irlandese, legato all’IRA, ed esperto di dinamite e nitroglicerina. E così Mesa Verde e la sua banca non sembrano più un miraggio così lontano per Juan. Sfruttando la sua fame atavica, Mallory tirerà nella causa rivoluzionaria il peone suo malgrado che…

Scritto da Sergio Donati, Luciano Vincenzoni e lo stesso Leone “Giù la testa “ emoziona ancora in ogni suo fotogramma, e ci ricorda che cosa è stata la nostra cinematografia. Come tutte le sue opere, anche questa ci rendere orgogliosi di essere italiani e connazionali di Leone, genio assoluto, che ha rivoluzionato il cinema contemporaneo. Se poi ci vogliamo chiedere dove è finito o chi sono gli eredi di quel genio, beh gente, è un altro paio di maniche…

Ovviamente non si può tralasciare la strepitosa colonna sonora firmata dal maestro Ennio Morricone che richiama al nome irlandese di uno dei due protagonisti.

E pensare che buona parte della critica “ufficiale” di allora lo criticò aspramente, perché osava criticare il ruolo dell’intellettuale nella rivoluzione, attraverso la figura ambigua del Dott. Villega, interpretato magistralmente da Romolo Valli. Ma gli edonistici anni Ottanta e Novanta hanno – fortunatamente – scolorito le penne degli “esperti di partito” per rivelarci la triste verità e quanto Leone aveva preannunciato decenni prima.

Per la chicca: Leone avrebbe voluto intitolare il film: “Giù la testa coglione” ma la censura lo impedì, cosa che raccontata oggi mette davvero in imbarazzo. Infine, deve essere ricordato anche Carlo Romano, grande doppiatore italiano, che presta in maniera sublime la voce a Rod Steiger.  

Pura storia del cinema.

“Guglielmo il Dentone” di Luigi Filippo D’Amico

(Italia, 1965)

“I complessi” di Luigi Filippo D’Amico, Dino Risi e Franco Rossi è uno dei migliori film ad episodi della nostra cinematografia.

Se “Il complesso della schiava nubiana”, di Franco Rossi con Ugo Tognazzi, è quello meno incisivo ed evidentemente più datato, gli altri due segmenti costituiscono una delle migliori pietre miliari della commedia all’italiana.

Ancora non riesco a vedere “Una giornata decisiva”, di Risi con Nino Manfredi, senza farmi prendere dalla rabbia: la timidezza vile del protagonista che non riesce ad afferrare il proprio destino che è lì a portata di mano proprio mi manda in bestia (forse perché anch’io sono un timido).

E per questo guardo estasiato tutte le volte l’ultimo episodio: il grande e inarrivabile “Guglielmo il Dentone”. Solo per questa interpretazione Alberto Sordi avrebbe meritato il David di Donatello e l’Oscar nella stessa sera.

Scritto da Rodolfo Sonego, con la partecipazione anche di Sordi, “Guglielmo il Dentone”  è un inno a chi affronta la vita con ottimismo e in piena sintonia e fiducia con se stesso. E Sordi lo interpreta con una bravura che ha pochi pari nel mondo del cinema.

Sublime la scena in cui Romolo Valli, nei panni di Padre Baldini membro della commissione che deve scegliere il nuovo speaker del TG, tenta in ogni modo di parlare a Guglielmo dei suoi dentoni, ma lui – puro come l’acqua di una fonte – sentitosi colto in fallo accenna timido a una lieve imperfezione del suo naso…

Da vedere a intervalli regolari.