“Dissipatio H.G.” di Guido Morselli

(Adelphi, 2012)

“Dissipatio H.G.” rappresenta l’ultimo romanzo scritto da Guido Morselli (1912-1973) morto suicida pochi mesi dopo averlo terminato. Si tratta dell’ultimo testo scritto da Morselli ma non pubblicato, perché da 1947 al 1973, anno della sua morte, allo scrittore bolognese vennero rifiutati sistematicamente tutti i suoi libri.

A rifiutare questo “Dissipatio H.G.” e i suoi scritti precedenti come “Roma senza Papa. Cronache romane di fine secolo ventesimo” o “Il comunista” furono gli allora responsabili delle più importanti case editrici italiane come Italo Calvino, Carlo Fruttero, Geno Pampaloni o Luciano Foà, cofondatore della casa editrice Adelphi.

Il motivo principale dell’insano gesto compiuto dal Morselli fu proprio l’ennesimo rifiuto in blocco di questo suo ultimo romanzo. La morte violenta dello scrittore – allora ancora mai pubblicato – creò scalpore e sgomento soprattutto nel mondo dell’editoria e a partire dall’anno successivo vennero dati alle stampe tutti i suoi romanzi, e questo “Dissipatio H.G.” apparve nel catalogo proprio dell’Adelphi per la prima volta nel 1977.

Il protagonista è un uomo solo e disilluso – che ricorda molto lo stesso autore – che dopo aver abbandonato Crisopoli (città di fantasia che ricorda però molto Zurigo) si rifugia in montagna per evitare il più possibile il contatto col prossimo e stilare un bilancio della propria esistenza.

Il bilancio, purtroppo, pende notevolmente a sfavore del proseguimento: “Ci sono mattine che, nel mentre mi facevo la barba, cercavo di non vedermi nello specchio”. Così la notte fra il 1° e il 2 giugno l’uomo decide di suicidarsi gettandosi nel pozzo all’interno di una grotta fra i monti. Ma proprio arrivato sull’orlo del baratro ci ripensa e torna sconfitto a casa. Al suo risveglio però il mondo è cambiato: tutta l’umanità è improvvisamente scomparsa. Si tratta proprio di quella “Dissipatio Humani Generis” di cui parlava il filosofo neoplatonico Giamblico, riferendosi a una sorta di “evaporazione del genere umano”.

E così – come farà il protagonista della canzone “Extraterrestre” incisa da Eugenio Finardi nel 1978 – l’uomo si troverà a fare i conti con uno dei suoi sogni più bramati: essere solo…

Quello che colpisce ancora oggi di questo romanzo, oltre alla trama e allo stile spesso sfizioso e raffinato, sono la sua contemporaneità e la sua internazionalità. E’ un romanzo, infatti, che potrebbe essere stato scritto solo pochi mesi fa, da un autore anche di un altro Paese e non specificatamente italiano. Questa è la peculiarità a cui Giuseppe Pontiggia imputa l’ottusa incomprensione degli allora editori. E’ lo stesso Pontiggia a ricordarci, quindi, che se si è grandi e memorabili scrittori non è detto che si sia pure capaci e imparziali responsabili di collane editoriali.

Ma per onestà intellettuale è giusto ricordare anche che Guido Morselli era un personaggio completamente avulso dai salotti letterari e dal “sistema” editoriale della sua epoca. Così come il grande Luciano Bianciardi, Morselli andava dritto alla scrittura ignorando e snobbando tutto il resto.

A questo punto non si può non pensare all’autopubblicazione che ormai da qualche anno è approdata anche nel nostro Paese. Oltre alle ragioni commerciali vero motore delle più feroci e aggressive critiche verso questo nuovo tipo di pubblicazione – ragioni commerciali che la GOG Edizioni ha raccontato nel suo “Manifesto contro l’editoria” – voglio soffermarmi sugli effetti morali ed emotivi dell’impossibilità di pubblicare un proprio scritto.

Nulla, neanche un’intera esistenza fatta di rifiuti, giustifica l’atto estremo e vigliacco compiuto da Morselli con “la ragazza dall’occhio nero” come lui chiamava, anche in questo romanzo, la sua pistola. Ma l’ennesimo rifiuto alla fine produce un altro drammatico effetto: fa smettere di scrivere, forse vero obiettivo di qualcuno ma che è senza dubbio un impoverimento della cultura di un Paese.

E allora parafrasando Umberto Eco, se è vero che l’autopubblicazione ha dato la voce a centinaia di migliaia di “imbecilli”, è vero pure che basta semplicemente non leggerli, così come si può fare coi social. Oppure è il semplice esistere di un’alternativa a ciò che il “sistema” offre ad essere considerata una minaccia tale da accendere critiche così feroci? Davvero un libro autopubblicato da un singolo e anonimo scrittore può competere con quelli editi dalle grandi case editrici? E autopubblicarsi è realmente una cosa così umiliante e infangante tanto da diventare una rigida discriminante per partecipare a numerosi premi letterari?

O forse è il concetto che si può essere letti dagli altri anche senza dover passare per forza attraverso il “sistema” a creare tanta acredine, concetto poi che non vale solo per lo scrivere ma anche, naturalmente, per il leggere?

Ai posteri (lettori e scrittori) l’ardua sentenza.

Comunque sia, il massimo del risarcimento morale che l’editoria italiana ha pensato di poter offrire al povero Morselli, forse anche per chetare la coscienza di qualcuno, è stato quello di dedicargli …un premio letterario.

Buona lettura!

“La vita agra” di Luciano Bianciardi

(Feltrinelli, 2013)

Scritto nell’inverno fra il 1961 e il 1962 e pubblicato alla fine dello stesso anno, questo romanzo è uno dei più rappresentativi del Novecento italiano.

Luciano Bianciardi (1922-1971) è stato uno dei più rilevanti veri e propri intellettuali a tutto campo del secolo scorso. Nato a Grosseto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo essere diventato professore di inglese alle medie e poi di storia e di filosofia nel liceo che aveva frequentato da ragazzo, assume la direzione della Biblioteca Chelliana di Grosseto. L’edificio che la ospitava era stato gravemente bombardato e danneggiato da un’alluvione nel ’44, e così Bianciardi ideò il “Bibliobus”, un furgone che portava i libri nelle campagne della Maremma dove altrimenti, in quel periodo, non sarebbero mai arrivati. Inizia un forte impegno sociale politico e culturale, occupandosi anche di cineclub, conferenze e dibattiti a tutto campo sulla nostra società. Allaccia una stretta collaborazione con Carlo Cassola, assieme al quale esordisce come scrittore nel 1956 con “I minatori della Maremma”.

Il legame con la sua terra è molto forte così come l’attenzione per i più deboli e sfruttati, come i minatori che lavorano sulle Colline Metallifere grossetane. Il 4 maggio del 1954 a Ribolla – piccola località dove Bianciardi si recava spesso col suo Bibliobus – esplode il pozzo uccidendo 43 minatori. La tragedia segna profondamente tutto il territorio, anche perché si vocifera che la Montedison (titolare della concessione) intendeva da tempo chiudere quel pozzo ormai poco redditizio – tralasciando la manutenzione e la sicurezza – cercando un’ottima occasione per chiudere, cosa che avrebbe ridotto comunque alla fame tutti i lavoratori e le rispettive famiglie.

Per Bianciardi è un evento così rilevante che decide di lasciare Grosseto e trasferirsi a Milano, accettando di collaborare alla creazione della nuova casa editrice Feltrinelli (per la quale tradurrà, fra gli altri, London, Faulkner, Steinbeck e Miller) e dalla quale però nel 1956 verrà licenziato.

Infatti Bianciardi deplora e poco sopporta l’establishment culturale italiano e così si chiude sempre più in se stesso per leggere, scrivere e tradurre. Nel 1962 pubblica il suo romanzo più famoso “La vita agra” che, come una sorta di autobiografia, racconta la storia di Luciano addetto culturale in una filiale di una grande azienda multinazionale che possiede la concessione della miniera nei pressi del piccolo paesino toscano rurale dove è nato.

Per incuria, ma soprattutto perché la miniera non rende più, la multinazionale vorrebbe disfarsene il prima possibile, sfruttando al massimo il poco minerale rimasto e ovviamente anche i minatori. Cosa che, come fin troppo spesso accade, porta alla catastrofe. Una sacca di gas formatasi fra due tunnel con livelli differenti esplode causando il crollo della miniera e la morte di tutti i minatori presenti.

Luciano, sconvolto e devastato, si sente in dovere di reagire, e così parte per Milano, deciso a far saltare in aria la sede centrale della multinazionale, che lui chiama “il torracchione”. Ma a Milano Luciano verrà travolto da quello che di lì a breve apparirà nei libri di storia come il famigerato “Boom”. Anche se ha lasciato moglie e figlio piccolo al paese, Luciano intreccerà una profonda relazione con Maria, una compagna di battaglie e lotte sociali, con la quale andrà a vivere insieme. E, come il resto della nazione, non potrà evitare ogni giorno di fare i conti con le spese quotidiane, fra rate e cambiali per arrivare, tra una traduzione e l’altra, a fine mese.

Superbo e crudo affresco del Boom e della città che più lo ha rappresentato. Bianciardi ci racconta di un Paese che sacrifica senza remore la propria secolare anima rurale e contadina, vergognandosene quasi, per un futuro “moderno” ed “elettrodomesticizzato”. Un Paese che sembra così lontano ma che, riflettendoci bene, è tanto vicino a quello attuale.

Fra i numerosi brani indimenticabili spicca quello che descrive lo stupore e la solitudine che prova Luciano nel fare la spesa in un grande supermercato, lui che è stato sempre abituato ai piccoli negozi dove si ha il conto aperto e si conosce bene il proprietario. E poi l’autore ipotizza in maniera davvero irresistibile e satirica un futuro alternativo a quello dove il Paese è fagocitato dal Boom. Un futuro dove prende piede una sorta di “neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio” che incredibilmente ricorda molto il pianeta utopico da cui proviene la protagonista nel delizioso “Il pianeta verde” che Coline Serrau dirigerà nel 1996.

Fino al 1993, anno in cui esce “Vita agra di un anarchico” di Pino Corrias, Luciano Biancardi è praticamente caduto vergognosamente nell’oblio della cultura italiana. Fra le cause principali ne spiccano due: la morte a soli 49 anni, da attribuire alla sua dipendenza dall’alcol e dal tabacco. Ma, soprattutto e come già ricordato, il suo totale disprezzo per l’establishment editoriale e culturale italiano, così come dei suoi “salotti” più importanti. Evidentemente dotti critici ed esperti hanno ritenuto di dover obliare l’opera e le opinioni di un grande intellettuale italiano libero, sempre contro – purtroppo anche verso se stesso… – i compromessi e le ipocrisie morali.

Da leggere per capire da dove veniamo e, soprattutto, dove andiamo.

Nel 1963 Carlo Lizzani gira l’adattamento cinematografico “La vita agra” con un grandissimo Ugo Tognazzi nei panni del protagonista e Giovanna Ralli in quelli di Anna. E sempre a proposito di cinema, non è un caso che nello stesso anno esca nelle nostre sale “Il sorpasso” di Dino Risi, altra memorabile e cruda metafora del Boom italico.

Il mio ricordo di Carlo Lizzani

Non mi interessa accodarmi ai vari dibattiti che in questo momento animano la rete sulla drammatica fine di Carlo Lizzani.

La sua scelta, come quella del grande Mario Monicelli, è stata tragica e definitiva. Ma, come ho già detto, non voglio parlare della morte di Carlo Lizzani: voglio parlare della sua vita.

Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere personalmente Lizzani preparando la mia tesi di laurea proprio su di lui. La sua cinematografia ha attraversato il cinema italiano in uno dei suoi momenti più luminosi e travolgenti.

Da aiuto regista di Rossellini in “Germania anno zero” fino a “Celluloide”, da lui diretto nel 1995, che ripercorre la genesi di quel capolavoro che è “Roma città aperta” attraverso il rapporto tra i suoi protagonisti Sergio Amidei, Roberto Rossellini e Anna Magnani, di cui lui fu diretto testimone.

In mezzo ci sono tutti i generi – o quasi – che la nostra cinematografia ha sperimentato: dal neorealismo puro alla commedia (come con “Lo svitato” con Dario Fo), dal western spaghetti al poliziottesco – in cui spicca “Banditi a Milano” con un grande Gian Maria Volonté nei panni del bandito Cavallero – dal sociologico allo scollacciato, dal thriller al drammatico, dallo storico al letterario (“La vita agra“, tratto dal libro di Luciano Bianciardi se devo sceglierne uno).

E’ lui, di fatto, il primo cineasta a realizzare un film sulla deportazione dei cittadini italiani di religione ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale dirigendo “L’oro di Roma” nel 1961.

Certo, Lizzani non ha mai avuto un grande e palese riconoscimento internazionale – sfiorò la Palma d’Oro con il suo “Cronache di  poveri amanti” nel 1954, e i media del tempo imputarono la mancata vittoria a ingerenze politiche italiane, visto che il film e il suo regista erano apertamente legati al Partito Comunista Italiano e il nostro Paese viveva in un momento politico e sociale molto delicato – e non è annoverato fra i più famosi maestri del nostro cinema.

Ma Carlo Lizzani era un grande uomo di cinema, e non solo dietro la macchina da presa: tutti oggi ricordano la sua esperienza di direttore della Mostra del Cinema di Venezia, alla sua riapertura dopo le contestazioni sessantottine.

Inoltre, i suoi libri sono fra le più rilevanti testimonianze di come e perché il nostro cinema divenne così importante.

Lo ricordo con affetto per tutto questo, e anche perché Carlo Lizzani era un uomo gentile, che si stupiva quasi che qualcuno fosse così interessato al suo lavoro tanto da farci un tesi di laurea.

“La vita agra” di Carlo Lizzani

(Italia, 1963)

Lo so che il romanzo “La vita agra” di Luciano Bianciardi è molto bello, ma sono molto legato anche a questo film (per Carlo Lizzani ho un debole che parte da molto lontano…).

E poi, oltre la tormentata storia d’amore fra Luciano Bianchi (Ugo Tognazzi) e Anna (Giovanna Ralli), c’è la Milano del grande Boom (fotografata in tanti angoli grazie a un consistente uso degli esterni, davvero insolito per le commedie di quegli anni), uno splendido cameo di Enzo Jannacci, e soprattutto un’Italia che cambia, e che, a volerla dire proprio tutta, pone le basi di quella che diventerà la cultura “nazional-popolare” (lo so è un termine orrendo, ma l’ho messo apposta!) dei decenni successivi.

Luciano è l’addetto culturale della grande industria mineraria che possiede un ricco giacimento nei pressi del suo paese. Quando viene licenziato (insieme a molti colleghi minatori per ridurre i costi data la grave crisi…) decide di trasferirsi a Milano e far saltare in aria in grattacielo che ospita la sede centrale della società. Lì incontra Anna, militante di sinistra, con la quale inizia una relazione.

Per sbarcare il lunario, Luciano prima fa il traduttore per una casa editrice e poi, quasi per caso, comincia a creare slogan pubblicitari. Grazie al successo di questi verrà assunto, con un lauto stipendio, nell’azienda che qualche tempo prima lo aveva cacciato. La sua voglia così di vendetta si esaurisce, come la sua relazione con Anna, che si tronca definitivamente il giorno in cui sua moglie e suo figlio lo raggiungono per stabilirsi a Milano.

Una fotografia indimenticabile del nostro Paese che cambia, un documento forse unico, con una superba interpretazione del grande Tognazzi.