“Lo svitato” di Carlo Lizzani

(Italia, 1956)

La carriera cinematografica del Premio Nobel Dario Fo in realtà non è paragonabile a quella teatrale, ma questa commedia surreale e grottesca merita di essere vista.

Prima di tutto perché è uno dei primi e più limpidi documenti storici che ci racconta bene l’atmosfera fremente che si respirava nel nostro Paese mentre stava esplodendo il Boom, ritraendo poi una fantastica – in senso lato – Milano (ancora lontana da quella “da bere” arrogante e presuntuosa degli anni Ottanta) divisa fra cantieri di grattacieli in costruzione, borgate e scorci ottocenteschi.

E poi c’è Dario Fo, che già possiede tutti i suoi caratteri da giullare, e una splendida e fascinosa Franca Rame.

Anche se la storia forse non è così determinante, quello che conta sono alcune scene e gag strepitose, la critica feroce alla stampa scandalistica – che allora aveva il posto che occupa oggi la nostra TV – e lo spirito che anima i suoi protagonisti, sia quelli positivi che quelli negativi.

Purtroppo però, l’accoglienza della critica e del pubblico (ancora non del tutto pronti al genio innovatore e di rottura del suo protagonista) fu molto tiepida e la collaborazione fra Dario Fo e Carlo Lizzani non ebbe seguito.

Ma almeno “Lo svitato” ce lo possiamo rivedere ogni volta che vogliamo!

“L’oro di Roma” di Carlo Lizzani

(Italia/Francia, 1961)

All’alba del 16 Ottobre del 1943 gli appartenenti alla Comunità Ebraica del ghetto di Roma vennero barbaramente deportati nei campi di sterminio dalle truppe nazi-fasciste che governavano la città, nonostante la stessa Comunità avesse pagato ai tedeschi un riscatto di oltre 50 chili d’oro.

Il nostro cinema – e quindi anche il nostro Paese – impiegò quasi vent’anni per raccontare pubblicamente per la prima volta l’ignobile tragedia che si consumò in uno degli angoli più antichi della nostra Capitale.

Anche se possiede delle scene davvero toccanti, a livello di sceneggiatura forse questo film non è l’opera migliore di Carlo Lizzani, ma ha il merito comunque di essere stata la prima a raccontare la deportazione degli ebrei romani.

Da far vedere a scuola, per non dimenticare. Mai.

“Cronache di poveri amanti” di Carlo Lizzani

(Italia, 1954)

Il 6 febbraio 1954 usciva nelle sale italiane “Cronache di poveri amanti” diretto da Carlo Lizzani e tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, alla cui sceneggiatura partecipa anche Sergio Amidei.

In un vicolo della Firenze del 1925 si consumano drammi, amori, gioie e dolori di uno spaccato degli italiani più umili, su cui incombe l’ombra del regime fascista che ogni giorno diventa più forte, prepotente e violento…

Lizzani firma una bella pellicola corale a cui partecipano molti di quelli che saranno i protagonisti del nostro cinema negli anni successivi.

Oltre al grande Marcello Mastroianni, ci sono Anna Maria Ferrero, Antonella Lualdi, Cosetta Greco, Wanda Capodaglio (grandissima insegnate dell’Accademia d’Arte Drammatica) e Giuliano Montaldo che poi passerà alla regia.

Il film partecipa al Festival di Cannes diventando un caso: favorito per la Palma d’Oro, vincerà “solo” – e l’ho messo fra virgolette – il Premio Speciale della Giuria per un presunto intervento – dicono alcune cronache di allora – del Governo Italiano dato il tema affrontato e l’iscrizione al Partito Comunista Italiano del regista.

Il mio ricordo di Carlo Lizzani

Non mi interessa accodarmi ai vari dibattiti che in questo momento animano la rete sulla drammatica fine di Carlo Lizzani.

La sua scelta, come quella del grande Mario Monicelli, è stata tragica e definitiva. Ma, come ho già detto, non voglio parlare della morte di Carlo Lizzani: voglio parlare della sua vita.

Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere personalmente Lizzani preparando la mia tesi di laurea proprio su di lui. La sua cinematografia ha attraversato il cinema italiano in uno dei suoi momenti più luminosi e travolgenti.

Da aiuto regista di Rossellini in “Germania anno zero” fino a “Celluloide”, da lui diretto nel 1995, che ripercorre la genesi di quel capolavoro che è “Roma città aperta” attraverso il rapporto tra i suoi protagonisti Sergio Amidei, Roberto Rossellini e Anna Magnani, di cui lui fu diretto testimone.

In mezzo ci sono tutti i generi – o quasi – che la nostra cinematografia ha sperimentato: dal neorealismo puro alla commedia (come con “Lo svitato” con Dario Fo), dal western spaghetti al poliziottesco – in cui spicca “Banditi a Milano” con un grande Gian Maria Volonté nei panni del bandito Cavallero – dal sociologico allo scollacciato, dal thriller al drammatico, dallo storico al letterario (“La vita agra“, tratto dal libro di Luciano Bianciardi se devo sceglierne uno).

E’ lui, di fatto, il primo cineasta a realizzare un film sulla deportazione dei cittadini italiani di religione ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale dirigendo “L’oro di Roma” nel 1961.

Certo, Lizzani non ha mai avuto un grande e palese riconoscimento internazionale – sfiorò la Palma d’Oro con il suo “Cronache di  poveri amanti” nel 1954, e i media del tempo imputarono la mancata vittoria a ingerenze politiche italiane, visto che il film e il suo regista erano apertamente legati al Partito Comunista Italiano e il nostro Paese viveva in un momento politico e sociale molto delicato – e non è annoverato fra i più famosi maestri del nostro cinema.

Ma Carlo Lizzani era un grande uomo di cinema, e non solo dietro la macchina da presa: tutti oggi ricordano la sua esperienza di direttore della Mostra del Cinema di Venezia, alla sua riapertura dopo le contestazioni sessantottine.

Inoltre, i suoi libri sono fra le più rilevanti testimonianze di come e perché il nostro cinema divenne così importante.

Lo ricordo con affetto per tutto questo, e anche perché Carlo Lizzani era un uomo gentile, che si stupiva quasi che qualcuno fosse così interessato al suo lavoro tanto da farci un tesi di laurea.

“La vita agra” di Carlo Lizzani

(Italia, 1963)

Lo so che il romanzo “La vita agra” di Luciano Bianciardi è molto bello, ma sono molto legato anche a questo film (per Carlo Lizzani ho un debole che parte da molto lontano…).

E poi, oltre la tormentata storia d’amore fra Luciano Bianchi (Ugo Tognazzi) e Anna (Giovanna Ralli), c’è la Milano del grande Boom (fotografata in tanti angoli grazie a un consistente uso degli esterni, davvero insolito per le commedie di quegli anni), uno splendido cameo di Enzo Jannacci, e soprattutto un’Italia che cambia, e che, a volerla dire proprio tutta, pone le basi di quella che diventerà la cultura “nazional-popolare” (lo so è un termine orrendo, ma l’ho messo apposta!) dei decenni successivi.

Luciano è l’addetto culturale della grande industria mineraria che possiede un ricco giacimento nei pressi del suo paese. Quando viene licenziato (insieme a molti colleghi minatori per ridurre i costi data la grave crisi…) decide di trasferirsi a Milano e far saltare in aria in grattacielo che ospita la sede centrale della società. Lì incontra Anna, militante di sinistra, con la quale inizia una relazione.

Per sbarcare il lunario, Luciano prima fa il traduttore per una casa editrice e poi, quasi per caso, comincia a creare slogan pubblicitari. Grazie al successo di questi verrà assunto, con un lauto stipendio, nell’azienda che qualche tempo prima lo aveva cacciato. La sua voglia così di vendetta si esaurisce, come la sua relazione con Anna, che si tronca definitivamente il giorno in cui sua moglie e suo figlio lo raggiungono per stabilirsi a Milano.

Una fotografia indimenticabile del nostro Paese che cambia, un documento forse unico, con una superba interpretazione del grande Tognazzi.