“Shining” di Stanley Kubrick

(UK/USA, 1980)

A volte le rovine di errori o insuccessi nascondono le basi di veri trionfi e opere destinate a cambiare il corso dell’arte. Così, dopo il clamoroso flop al botteghino di “Barry Lyndon” uscito nelle sale nel 1975, Stanley Kubrick aveva assoluto bisogno di realizzare una nuova pellicola di successo per rimanere padrone del proprio lavoro. Il regista, americano di nascita e britannico d’adozione, come per quasi tutti i suoi film, cercava un libro da cui trarre la sceneggiatura e scelse il genere horror che in quel momento stava superando tutti gli altri come adepti e successi in libreria.

Iniziò così, assieme al suo staff, uno studio dei volumi disponibili sul mercato, ma nessuno sembrava soddisfare le sue esigenze. Si dice che proprio in questa occasione abbia preso in considerazione anche la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, che però ritenne irrealizzabile secondo i suoi standard cinematografici.

Ma già dopo aver letto le prime pagine di “Shining”, il nuovo romanzo del giovane autore americano Stephen King pubblicato nel 1977, Kubrick capì di avere fra le mani il soggetto del suo nuovo film. Una volta opzionati i diritti, il grande cineasta iniziò la produzione di quello che sarebbe diventato uno dei suoi successi commerciali più rilevanti, ma sopratutto una pietra miliare della cinematografia planetaria.

Come per ogni sua altra opera cinematografica, Kubrick usava come “spunto” il libro originale per riscrivere la storia a suo modo. Così accadde anche per “Shining”, in cui il regista compie numerosi cambiamenti rispetto al romanzo originale. Le cronache del tempo ci riportano non poche lamentele e critiche stizzite dello stesso King nei confronti di Kubrick reo, secondo lo scrittore, di non rimanere fedele al suo scritto.

Fra quelle più evidenti ci sono le diaboliche siepi vegetali che nel film sono sostituite dal labirinto, così come altri particolari a partire dal numero della camera (217 e non 237 come nel film) o di come l’anima malvagia dell’Overlook Hotel divori quella di Jack Torrance, processo nel romanzo più lento rispetto a quello del film.

Per questo, probabilmente, Kubrick inserisce nel film una sequenza apparentemente inutile. Mentre Hallorann (Scatman Crothers) preoccupato torna all’Overlook Hotel, percorrendo una strada innevata viene rallentato da un grave incidente. Si tratta di un autoarticolato che si è ribaltato e ha travolto un’automobile. Il regista ci da il tempo di notare che la macchina distrutta, il cui conducente evidentemente non ha avuto scampo, è un maggiolino Volkswagen di colore rosso. Proprio come quello del Jack Torrance del romanzo, che non è del colore chiaro di quello del protagonista del film. Kubrick, quindi, ci ricorda risolutamente che stiamo vedendo una sua opera e non una di King, il cui protagonista originale è bello che morto e sepolto sotto a un TIR, invitandoci a farcene definitivamente una ragione.

Un libro e il film tratto da esso, volenti o nolenti, sono due opere nettamente differenti, così come lo sono per forma, tempi e struttura la letteratura e il cinema. Se il romanzo di King è davvero avvincente e al tempo stesso inquietante raccontando in maniera originale e terribile il più grande incubo di uno scrittore: l’impotenza creativa; la pellicola di Kubrick ci trascina inesorabilmente nell’inferno di una mente malata materializzando quell’incubo con scene mozzafiato e terrificanti.

Ogni sequenza è studiata per creare disagio nello spettatore, grazie anche alla tecnica della pubblicità subliminale che in quegli anni venne definitivamente vietata e che il regista studiò a fondo. Kubrick mette finestre dove fisicamente è impossibile che ci siano, crea continue allusioni sessuali spesso spiacevoli e ambigue, o cambia il senso della moquette a seconda dell’inquadratura.

Anche l’uso del sonoro è “diabolico”, basta pensare alla sequenza del piccolo Danny che gira sul triciclo per l’albergo, prima di incontrare le gemelle, sequenza in cui il rumore delle ruote viene ripetutamente interrotto dai tappeti sistemati ad hoc.

Cinematograficamente parlando, poi, c’è il massiccio uso della steadicam a mano, la macchina da presa che invece del carrello viene mossa direttamente dall’operatore che l’ha sistemata sulle spalle. Con una serie di carrucole e leve, nonostante il movimento, la riprese sono perfette senza oscillazioni né sobbalzi. Cosa che permette di girare scene in movimento, come su una scalinata, senza problemi. A inventarla è stato a metà degli anni Settanta l’americano Garrett Brown – che, per esempio, nel 1976 gira la famosa scena in cui Sylvester Stallone corre sulla scalinata in “Rocky” – che Kubrick sceglie come operatore del film.

Grazie a Brown e alla sua steadicam, Kubrick ci fa seguire gli attori in maniera quasi morbosa e ossessiva, cosa che aumenta l’ansia e il disagio di noi spettatori. Naturalmente va ricordato anche il cast artistico con uno stratosferico Jack Nicholson – apprezzato anche da King -, Shelley Duvall, lo stesso Crothers e il piccolo Danny Lloyd. Nella nostra versione deve essere citato anche il grande Giancarlo Giannini che dona superbamente la voce a Nicholson con quel suo “Wendy …sono a casa!” che ancora ci fa venire i brividi.

Nonostante sia stato sempre considerato un regista dispotico e maniacale, poco amato dagli attori che hanno avuto l’onore di lavorare con lui, Stanley Kubrick rimane indiscutibilmente uno dei più grandi registi di tutti i tempi, e questo film, come molti altri da lui firmati, ce lo ricorda perentoriamente visto che a distanza di oltre quarant’anni ancora ci mette i brividi.

Un capolavoro assoluto.

“Nessuno ti salverà” di Brian Duffield

(USA, 2023)

Brynn (una bravissima Kaitlyn Dever) è una ragazza che vive da sola in una grande casa di campagna, fuori da una delle tante cittadine del midwest americano. Ama cucire e ampliare il piccolo villaggio in miniatura che ha costruito sul tavolo del grande salotto, villaggio che aveva iniziato a creare con sua madre, morta poco tempo prima.

Le sue visite in città sono molto veloci, anche perché nessuno dei suoi concittadini sembra tollerarla troppo. L’unico rapporto che ha con l’esterno è con la sua migliore amica Maude, alla quale scrive delle lettere quotidiane e della quale ha foto sparse in tutta casa. Una notte, però, Brynn viene svegliata da alcuni strani rumori e quando scende in salotto per caprine la causa si accorge che un alieno sta curiosando nel suo salone.

La ragazza prima cerca di fuggire in tutti i modi, ma alla fine è costretta a combattere contro gli alieni, che fra le altre cose hanno anche il potere della telecinesi. Ma oltre agli alieni Brynn deve vedersela contro il suo crudele passato…

Brian Duffield – che ha al suo attivo le sceneggiature di film come “Love and Monster” o “Underwater” – scrive e dirige un vero e proprio gioiellino di sci-fi. Nonostante il genere e l’ambientazione Duffield realizza un film dove non ci sono dialoghi, solo alla fine pochissime parole sussurrate, esercizio di stile davvero molto complicato. Ma non avere dialoghi non vuol dire non aver il sonoro, visto che la comunicazione fra gli alieni è spesso assordante così come lo è sovente la colonna sonora.

Davvero un ottimo esempio di “piccolo” film indipendente destinato a diventare un cult assoluto. Non è un caso, quindi, che il maestro Stephen King, proprio pochi giorno dopo la sua messa in streaming, lo abbia elogiato su Twitter. Nel post il Re lo paragona, giustamente, allo strepitoso episodio “Gli Invasori”, facente parte della seconda stagione della mitica serie televisiva “Ai confini della realtà“, andato in onda negli Stati Uniti il 27 gennaio del 1961.

L’episodio venne scritto da due veri e propri maestri: il grande Rod Serling, creatore della serie, e Richard Matheson, sceneggiatore e scrittore, autore fra le altre cose di uno dei romanzi di fantascienza più famosi e adattati di tutti i tempi: “Io sono leggenda”, pubblicato per la prima volta nel 1954.

Da vedere, e se lo dice il Re…

“Holly” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2023)

2021, Holly Gibney è la titolare dell’agenzia di investigazioni private “Finders Keepers”, fondata dall’ex poliziotto Bill Hodges, ormai defunto ma vero faro illuminante nella vita della donna che, grazie a lui, è riuscita a crearsi una vita emotivamente indipendente da sua madre.

Sono state sempre molti le considerazioni e le valutazioni diametralmente opposte fra lei e Charlotte, sua madre, le ultime delle quali sulla natura ed il pericolo reale del Covid. Così Charlotte, a differenza di sua figlia, non si è voluta vaccinare né tanto meno ha mai voluto prendere tutte quelle precauzioni necessarie per evitare il contagio. E quando l’infame virus l’ha attaccata, a Charlotte non è rimasto che il tempo di morire da sola nella Rianimazione di un ospedale, pieno di altri gravi pazienti affetti dalla polmonite fulminate come lei.

Ma la morte di Charlotte non chiude il rapporto irrisolto con la figlia, che dovrà fare i conti con un lascito ingombrante e inatteso, in tutti i sensi. Proprio mentre Holly si prepara ad affrontare questa nuova e dolorosa parte della sua esistenza, alla porta della “Finders Keepers” si presenta Penelope Dahl, che tutti chiamano “Penny”, con la foto di sua figlia Bonnie Rea Dahl, una giovane e avvenente studentessa universitaria.

Bonnie è scomparsa il 1° luglio, poco più di tre settimane prima, e di lei è rimasta solo la sua bicicletta abbandonata in strada, con sul sellino un laconico biglietto di addio. Penny naturalmente si è rivolta alla Polizia ma, vista la mancanza di prove di una qualsivoglia violenza e soprattutto la situazione che sta creando il Covid, che colpisce anche il personale della Polizia cosa che rende sempre più complicato gestire l’ordine pubblico, le indagine su Bonnie sono ad un punto morto.

Holly accetta il caso e inizia a ripercorrere e studiare le ultime settimane conosciute di vita della ragazza, prima che svanisse nel nulla, a partire proprio dal rapporto conflittuale con la madre, molto simile sotti alcuni punti di vita a quello che lei aveva con la sua. Ma l’indagine costringerà Holly ad affrontare un terrificante e insolito predatore che, purtroppo, molto prima della scomparsa di Bonnie ha iniziato ad assecondare la sua “fame” di sangue…

Il Re ci regala un altro grande libro che ci tiene inchiodati alla pagine fino all’ultima riga, post fazione compresa. Narrandoci della caccia a un serial killer, King ci pennella in maniera netta e cruda la metafora di un aspetto duro e doloroso della nostra società contemporanea: lo scontro fra le generazioni più mature e quelle più giovani. Scontro che negli ultimi anni sta acquistando toni e dinamiche nuove, anche perché le prime hanno privilegi e diritti che le seconde, molto probabilmente, non potranno ottenere mai.

E se qualcuno avesse ancora dubbi sulla grandezza di Stephen King come scrittore puro, e non solo come un superbo autore dell’orrore, si legga i brani in cui, in poche semplici righe, ci descrive con sublime tristezza e profondo rispetto il vile morbo dell’Alzheimer. Per non parlare del concetto di scrittura su cui il Re ci dona delle splendide e indimenticabili riflessioni grazie al personaggio di Olivia Kingsbury, una famosissima poetessa quasi centenaria. 

In poche parole: un vero e proprio Maestro della parola scritta.

La Gibney appare per la prima volta nel romanzo “Mr Mercedes” – dove incontra Bill Hodges – del 2014 e nel racconto breve “Se scorre il sangue”, compreso nell’omonima raccolta di racconti del 2020.

“L’assassino che è in me” di Jim Thompson

(Fanucci, 2010)

Dopo aver pubblicato lo strepitoso “Nulla più di un omicidio” nel 1949, ed alzato l’asticella del romanzo noir americano che in quel momento sta vivendo il suo periodo d’oro, Jim Thompson viene contattato da alcuni redattori della Lion Books che vogliono che il suo romanzo successivo, il quarto, sia pubblicato con la loro casa editrice.

Arnold Hano e Jim Bryans della Lion, al primo incontro con Thompson, gli consegnato cinque brevissime sinossi, dei semplici spunti sui quali costruire un romanzo. Dopo averli letti Thompson si sofferma su quello che “…riguardava un poliziotto di New York che ha una relazione con una prostituta e finisce per ucciderla” e dice ai due: “Prendo questo”.

Nell’arco di poche settimane sulla scrivania di Hano e Bryans arrivarono le cartelle con la prima versione del romanzo che avrebbe preso il titolo “L’assassino che è in me”. Thomson aveva usato solo il banale spunto della relazione fra un uomo di legge e una prostituta, per poi cambiare tutto, ambientando la vicenda nella sua “solita” Capital City, e soprattutto costruendo un protagonista e una storia terrificanti.

Il vice sceriffo Lou Ford è considerato da tutti i suoi concittadini un brav’uomo, tollerante e sempre pronto a dare una mano ha chi ne ha bisogno. Per questo lo sceriffo Bob Maples lo considera il suo pupillo. Ma Lou Ford nasconde un terribile segreto, che risale alla sua infanzia, e che suo padre, uno dei medici più stimati di Capital City, ha sempre tenuto nascosto a tutti.

Anche Lou ha fatto di tutto per nascondere e contenere la sua “malattia”. Ma quando Chester Conway, il fondatore e proprietario della Conway Construction, la più grande società edile della città e pilastro economico dell’intera contea, gli affida un lavoro “fuori orario”, la diga inesorabilmente crolla.

Perché Chester Conway ha chiesto al giovane e promettente vice sceriffo Ford di convincere l’avvenente e assai accessibile Joyce Lakeland a lasciare la città e soprattutto suo figlio Elmer Conway. La cosa deve avvenire nella maniera più discreta possibile visto il cognome del ragazzo. Ma quando Lou incontra di persona Joyce inizia per lui, e per chi gli sta vicino come la sua storica fidanzata Amy, una terrificante e inesorabile discesa agli inferi.

Travolti dal racconto diretto di Lou viviamo un’escalation di sangue e violenza per mano di una mente lucida e coerente, ma al tempo stesso folle, criminale e senza freni. Lo stesso Hano raccontò che lette le prime cartelle rimase letteralmente sconvolto e ogni volta che la sera a casa, nel buio della notte, le rileggeva, oltre a comprendere il genio assoluto di Thompson, i peli delle sua braccia spesso si rizzavano.

Anche Stanley Kubrik, una volta letto il libro uscito nel 1952, ne rimase talmente colpito da volere Thompson come cosceneggiatore per i suoi capolavori “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”. E non è un caso, quindi, che fra i più grandi ammiratori di Thompson ci sia anche il maestro Stephen King – i cui mostri più terrificanti non sono quelli fantastici, ma quelli “ordinari” che appartengono al genere umano – che lo considera uno dei maggiori scrittori del Novecento, chiamandolo “Big” Jim Thompson.

Nella sua autobiografia “Bad Boy”, Thompson racconta l’episodio vero dal quale prese spunto per creare Lou Ford. L’evento si consumò, durante la sua giovinezza, in un luogo isolato fra lui ed un poliziotto, noto in tutta la cittadina per essere una brava persona assai tollerante con tutti. Per convincerlo delle proprie “ragioni”, il poliziotto con una calma glaciale, ed infilandosi i guanti di pelle, disse al giovane Thompson come lo avrebbe ucciso con le proprie mani senza che poi nessuno avrebbe sospettato di lui, vista la sua fama e il suo ruolo.

Sconvolto, il giovane Thompson si lasciò convincere e assecondò docilmente il poliziotto, rimanendo per tutta la vita con la certezza che quell’uomo lo avrebbe potuto davvero massacrare rimanendo impunito.

Un capolavoro ancora oggi agghiacciante e indimenticabile.

Nel 1975 Burt Kennedy dirige l’adattamento cinematografico con Stacy Keach nei panni di Lou Ford, che chi lo ha visto considera il peggior adattamento in assoluto di un’opera di Thompson. Nel 2010 Michael Winterbottom firma “The Killer Inside Me” con Casey Affleck nel ruolo di Ford, Jessica Alba in quello di Joyce e Kate Hudson in quello di Amy.

“A testa bassa” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 1994)

Apparso per la prima volta nella primavera del 1990 sul “The New Yorker” questo “A testa bassa” è uno degli scritti più atipici del Re Stephen King. E’ lui stesso, nella breve introduzione di tre righe, a dircelo.

Il Re ci comunica che quello che stiamo per leggere non è un suo “solito” racconto, ma un saggio. Così ci troviamo sul campo con la squadra di baseball della Bangor West che milita in una delle categorie minori della Little League, la federazione che cura i campionati giovanili americani.

I giocatori della Bangor West hanno tutti fra i dodici e i tredici anni, e rappresentano la scuola omonima che frequentano. Fra questi c’è un ragazzino che a soli tredici anni è già alto abbondantemente sopra il metro e ottanta, si chiama Owen King, ed il padre è uno scrittore di “…una qualche rilevanza”, come ci descrive l’autore stesso.

La Bangor West è arrivata alle finali statali solo molti anni prima, e così nella stagione 1988-1989 non parte certo fra le più favorite, visto poi che sulla carta non ha nessun giovanissimo talento in lista, come invece altre scuole del Maine. Ma il genitore/accompagnatore Stephen King, come d’altronde lo staff tecnico della squadra, intuisce che fra i ragazzi si potrebbe creare quell’alchimia che in campo sportivo può portare molto lontano…

Il Re ci racconta, in maniera travolgente, l’epilogo della stagione sportiva di una squadra giovanile i cui membri si devono dividere fra i compiti, le rispettive dinamiche familiari – alcuni saranno costretti a mancare le partire più importanti per seguire i propri cari in vacanza – e il diamante del campo.

Ma soprattutto King ci racconta l’anima dello sport, quello giocato su campi in pozzolana, rappezzati e al limite del regolamento, da squadre che indossano divise raffazzonate e mangiano panini preparati molte ore prima dai genitori.

E’ fra loro che si può respirare però la purezza dello sport nel senso più alto, dove non ci sono premi in denaro da vincere, ma al massimo un hamburger e delle patatine fritte offerte dal coach dopo la partita. Lo stesso scrittore ci ricorda come, in quegli anni, il mondo auro del baseball professionistico americano di prima grandezza, è stato travolto da scandali e corruzione, un mondo lussuoso dove l’opulenza spesso soffoca il vero spirito sportivo.

Nonostante gli anni, questo “A testa bassa” ancora ci fa riflettere sullo sport contemporaneo, ormai troppo spesso diventato una ricca multinazionale. Ma ogni tanto anche noi, abituati a ingaggi multimilionari di giocatori di calcio (per esempio), rimaniamo incantati dalla performance di un atleta o di una squadra che superano magistralmente tutti gli altri in una disciplina che troppi chiamano ancora “minore”.

Ma il termine “minore” è legato nel nostro Paese soprattutto al giro economico che ruota intorno alla disciplina. E così siamo abituati a considerare “minori” alcuni sport in cui noi italiani furoreggiamo e brilliamo da decenni, come la scherma ad esempio. Ma forse proprio lì, dove girano pochi soli o non ne girano affatto, possiamo ritrovare il vero e sano spirito sportivo che porta un essere umano, anche soli di tredici anni, a mettere piede su un campo o su una pedana e provare a spostare anche solo di un centimetro in avanti i propri limiti.

Questo “saggio” può fare da contraltare al bellissimo “Open – La mia storia” di André Agassi, in cui il campione statunitense ci parla con lucida freddezza degli enormi sacrifici che ha dovuto affrontare per diventare un grande campione.

Da leggere, come tutte le opere del Re.

“Un uomo da niente” di Jim Thompson

(Einaudi, 2013)

“Big Jim” Thompson (1906-1977) – come lo chiama giustamente Stephen King – è stato uno dei maggiori e migliori autori di romanzi noir americani nell’epoca d’oro che va dagli anni Quaranta ai Cinquanta del secolo scorso.

La sua produzione supera i trenta romanzi – fra cui gli strepitosi “Nulla più di un omicidio“, “Colpo di spugna” e “L’assassino che è in me”, solo per citarne alcuni – e la sua penna ha lavorato anche per il cinema, e non solo per gli adattamenti dei suoi libri, firmando le sceneggiature di “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria” entrambi diretti da Stanley Kubrick.

La disperazione e l’odore di catastrofe imminente che si respirano nei suoi scritti, Thompson li aveva assaporati veramente nella sua vita reale. Figlio di uno sceriffo caduto in disgrazia, il giovane Thomson, refrattario all’istituzione canonica, iniziò a fare ogni tipo di mestiere. A vent’anni, in pieno Proibizionismo, lavorando come cameriere in albergo ne era diventato lo spacciatore ufficiale di alcol e stupefacenti.

A cambiare la sua esistenza furono le edizioni tascabili che a partire dagli anni Quaranta rivoluzionarono la storia dell’editoria planetaria. Nonostante lo sdegno e la rabbia di noti critici e alcuni scrittori, che vedevano l’avvento dell’edizioni tascabile come la rovina definitiva della letteratura mondiale – esattamente come qualche decennio dopo molti critici e autori fecero col coltello fra i denti per opporsi all’avvento del “male assoluto” che reputavano essere gli ebook, forse anche per paura di perdere la loro posizione privilegiata – le edizioni tascabili a basso costo, riempiendo le edicole di libri, espansero la voglia e la possibilità di leggere in maniera clamorosa.

Fra la facilità di fruizione – le edicole erano ovunque, in stazione, alla fermata dell’autobus, ecc… – e soprattutto il loro basso costo, in poco tempo i loro assidui lettori diventarono milioni. Così le case editrici iniziarono a cercare sempre più autori. Lo sconosciuto James Myers Thompson ebbe la possibilità finalmente di trovare i suoi numerosi lettori. Analogo percorso lo fecero altri ottimi autori che divennero dei veri e propri punti di riferimento nei decenni successivi, come ad esempio Philip K. Dick.

Ma come Dick, Jim Thompson venne apprezzato poco in vita, soprattutto dalla critica che di fatto, dato anche il suo complicato e indomito carattere, lo snobbò. Minato dall’alcol e caduto nel dimenticatoio, Thompson poco prima di morire disse profeticamente alla moglie che ci sarebbero voluto altri dieci anni prima che il mondo lo avrebbe rivalutato. E, infatti, a partire dalla metà degli anni Ottanta i suoi libri vennero sempre più apprezzati e letti dalle nuove generazioni, grazie anche a nuovi adattamenti cinematografici e ad autori di successo, su tutti il grande Stephen King, che ne consigliavano pubblicamente la lettura.

“Un uomo da niente” viene pubblicato per la prima volta nel 1954 col titolo originale “The Nothing Man”. Clifton Brown, detto Brownie, è un giornalista del piccolo quotidiano “Courier” di Pacific City, in Oregon, il cui formale e perbenista direttore è Austin Lovelace . Il suo capo redattore, invece, è Dave Randall che è stato anche il suo colonnello mentre entrambi combattevano al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il rapporto fra Brownie e Randall, nonostante la gerarchia, è complesso e irrisolto. Perché Clifton non perde occasione per punzecchiare e deridere pubblicamente il suo capo. Il motivo nasce proprio al fronte, dove Brownie, calpestando una mina ha perso la sua virilità. Anche se l’evento tragico non era direttamente imputabile a Randall, questo si sente comunque in colpa e sopporta le frecciate del suo ex commilitone che lo chiama sempre con poco rispetto: “colonnello”.

Ma la menomazione subita in guerra non influisce solo sul suo lavoro, ma ha devastato e devasta anche la sua vita privata. Clifton è stato sempre un bell’uomo molto affascinante, ma a sua moglie Ellen, tornato dal fronte, non è riuscito a raccontare la verità. E così l’ha lasciata senza troppe spiegazioni.

La donna, per mantenersi e forse anche per vendicarsi, ha iniziato a prostituirsi. Lo scandalo pesa come un macigno sulla carriera di Clifton che cerca in ogni modo di evitarla. Fortunatamente per lui Ellen è spesso fuori città, ma proprio mentre l’uomo sta iniziando a frequentare la ricca vedova Deborah Chasen, sua moglie torna.

Furioso, stanco e annebbiato dall’alcol, Brownie la va a trovare e la colpisce in testa con una bottiglia di whisky, per poi dare fuoco alla camera d’albergo. Convinto di averla uccisa, Brownie riesce ad evitare un accusa di omicidio da parte di Lem Stukey, il detective capo di Pacific City, che tentava di accusarlo.

Mentre in città è scattata la caccia all’assassinio, Brownie inizia a sentire sempre più opprimente la relazione con Deborah Chasen, visto poi che il momento in cui dovrà confessarle la verità sui suoi genitali si avvicina inesorabilmente. E allora non riesce a trovare altra soluzione che ucciderla…

Come gli altri grandi romanzi di Thompson, anche questo è una discesa agli inferi di un essere umano perso nella follia, nell’alcol ma soprattutto nella sua scarsa e manchevole autostima. I punti in comune fra Clifton Brown e il suo autore non sono pochi, a partire dall’alcolismo e della grande capacità di entrambi di essere degli ottimi scrittori. E forse la castrazione subita in guerra da Borwnie è per Thompson il mancato, unanime e pubblico riconoscimento del suo genio in vita.

“Big” Jim è sempre lui!

“La gente delle dieci” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 1994)

Scritto nel 1992 e pubblicato per la prima volta l’anno seguente col titolo originale “The Ten O’Clock People“, questo “La gente delle dieci” – pubblicato in Italia nella raccolta “Incubi e deliri” del 1994 – è uno dei miei racconti preferiti firmati dal Re Stephen King che considero, assieme a Raymond Carver, uno dei maestri indiscussi del racconto contemporaneo – con titoli come “Il corpo”, “La rendenzione del carcere di Shawshank” o “L’allievo” solo per citarne alcuni – eredi dell’inarrivabile Anton Čechov.

Siamo agli inizi degli anni Novanta e il mondo intero è ormai consapevole dei gravi rischi e della difficilmente controllabile assuefazione di una delle dipendenze più diffuse e micidiali: il tabagismo. Così sono arrivati i ferrei divieti di fumare in luoghi pubblici chiusi, e i fumatori – più o meno incalliti – si ritrovano all’aperto nei pressi del loro posto di lavoro per assecondare il loro vizio.

Fra questi c’è Brandon Pearson, che da anni lavora per la First Mercantile Bank of Boston, uno dei più importanti istituti di credito della città, che alle dieci di ogni mattina lavorativa scende nella piazza davanti al grattacielo della sua banca per fumarsi una sigaretta assieme ad alcuni colleghi più o meno conosciuti di vista.

Una mattina però, mentre sta per finire la sua sigaretta, con la coda dell’occhio nota entrare nell’edificio un uomo, ma guardando meglio Brandon si accorge che si tratta di un essere umano dai piedi al collo, ma la sua testa è qualcosa di orripilante e deforme, con una bocca triangolare piena di denti aguzzi, due piccoli buchi neri al posto degli occhi e una pelle sempre in movimento che rigurgita pus.

Proprio quando Brandon sta per urlare dal terrore, un collega che come lui stava fumando lo raggiunge e bloccandogli il braccio gli impedisce di strillare. Con voce calma e perentoria gli intima di non far capire di aver visto quell’uomo …pipistrello, altrimenti per lui sarebbe la fine.

Quando finalmente Brandon riesce a calmarsi l’uomo, che si chiama Dudley Rhinemann detto “Duke”, gli rivela che anche lui ha visto benissimo quell’essere, che tutti vedono invece come un essere umano qualsiasi. Ce ne sono molti altri, e tutti i ruoli strategici e nevralgici della società. Loro due li possono vedere a causa del fumo e della chimica che questo ha creato nel loro cervello. Ma tutti gli altri no e per questo bisogna stare molto attenti. Se uno degli uomini pipistrello dovesse accorgersi di essere “visto” per lo sfortunato essere umano sarebbe la fine, una atroce e terribile fine.

Ma una reazione è possibile: Duke fa parte di un gruppo clandestino…

Le cronache riportano che il Re abbia scritto questo racconto in soli tre giorni dopo aver visto fumare alcune persone fuori da alcuni grandi edifici commerciali a Boston. Ma è impossible non pensare anche al cult assoluto “Essi vivono” diretto dal maestro John Carpenter nel 1988 e ispirato al breve racconto “8 O’Clock in the Morning” scritto da Ray Nelson nel 1963.

Il racconto di Nelson è molto scarno e sintetico rispetto al film di Carpenter che invece possiede molti richiami allo scritto di King. Ma il Re inserisce un elemento particolare e personale: la dipendenza.

Lui che è stato un vero tossicodipendente e alcolista, come ha onestamente raccontato nel suo splendido “On Writing – Autobiografia di un mestiere” – fra i “manuali” per chi ama scrivere più belli e utili della storia – ci narra le dinamiche di un uomo che, nonostante conosca molto bene i gravi e devastanti effetti delle sigarette, proprio non riesce a rinunciarci e così scende a compromessi col tabacco limitandolo il più possibile.

Ma questo compromesso, oltre che letale per la sua salute, ha un terrificante effetto collaterale…

Da leggere: il Re è sempre il Re.

“Ai confini della realtà” di John Landis, Steven Spielberg, George Miller e Joe Dante

(USA, 1983)

Un’intera generazione di cineasti americani – e non solo, parliamo anche di scrittori, come il Re Stephen King, tanto per citarne uno – è stata influenzata in maniera determinante da quella che molti, me per primo, considerano una delle serie televisive migliori di sempre: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling nel 1959 e andata in onda per quattro indimenticabili stagioni fino al 1964.

Così, agli inizi degli anni Ottanta, la nuova Hollywood decide di rendergli omaggio riportando e riadattando al cinema tre degli episodi più famosi. A prendere in mano l’idea è John Landis, reduce di gradi successi al botteghino come “Animal House“, “Un lupo mannaro americano a Londra”, “The Blues Brothers” o “Una poltrona per due“.

Nel progetto, sia come regista che come produttore, viene coinvolto anche l’amico Steven Spielberg – che proprio in “The Blue Brothers” aveva fatto un piccolo cameo – che sceglie di dirigere il segmento “Calcia il barattolo”, il cui episodio originale andò in onda nel 1962. Gli altri registi sono Joe Dante che dirige “Un piccolo mostro” – episodio originale della terza stagione e andato in onda nel 1961- e l’australiano George Miller, reduce dal successo dei film della serie “Interceptor” con Mel Gibson, che firma “Incubo a 20.000 piedi” il cui episodio originale passò per la prima volta in televisione nel 1963 e venne diretto da un giovane Richard Donner che poi passerà al cinema dirigendo film come “Superman”, “Arma letale” e, non a caso, il mitico “I Goonies“.

Tutto il film è pregno di citazioni e riferimenti diretti alla serie originale tanto che la voce narrante – che nella serie storica apparteneva allo stesso Serling – è quella di Burgess Meredith (che molti ricorderanno per sempre come l’allenatore sordo in “Rocky”) che fu il protagonista del famosissimo episodio “Tempo di leggere”, andato in onda nel 1959.

Landis dirige il prologo e l’epilogo del film interpretati dall’amico Dan Aykroyd con un cameo di Albert Books, e scrive un nuovo e originale episodio dal titolo “Time Out”. Bill Connor (Vic Morrow) è un uomo di mezz’età deluso e incattivito dalla vita. Così una sera, in un locale seduto assieme a due suoi amici, inizia a sfogarsi col mondo diventando ferocemente razzista e prendendosela con il collega ebreo che secondo lui ha avuto la promozione al suo posto, e poi con tutte le persone di religione ebraica, con quelle di colore e con gli asiatici visto che da giovane ha servito il suo Paese in Corea contro i “musi gialli”.

Ma appena Bill esce dal locale per fumarsi una sigaretta si ritrova nella Parigi occupata dalle truppe naziste nei panni di un ebreo braccato. Quando i tedeschi lo colpiscono a morte Bill si risveglia fra le mani di feroci membri del Ku Klux Klan che lo vogliono impiccare solo perché è di colore. L’uomo riesce a fuggire ma si ritrova in una foresta del Vietnam nei panni di un vietcong, inseguito dalle truppe americane. Colpito a morte si ritrova in loop nella Parigi occupata. Il suo ultimo contatto col mondo al quale apparteneva sarà da un treno piombato, diretto ai campi di sterminio nazisti, dal quale vedrà i suoi amici cercarlo fuori dal locale.

In “Calcia il barattolo” Mr. Bloom (Scatman Crothers) propone agli altri ospiti della casa di riposo in cui vive di giocare con un barattolo nel cuore della notte. Ma solo quelli che avranno il coraggio di mettersi in gioco accettando al tempo stesso la loro età potranno davvero divertirsi…

“Un piccolo mostro” ci racconta la storia dell’insegnante Helen Foley (Kathleen Quinlan) che durante il viaggio verso la città in cui comincerà una nuova esistenza incappa nel piccolo Anthony, che la porterà a casa sua dove scoprirà un terribile segreto. Nel cast, nei panni di zio Walt, appare Kevin McCarthy, protagonista di un altro episodio storico della serie originale: “Lunga vita a Walter Jameson”, andato in onda nel marzo del 1960.

“Incubo a 20.000 piedi” ha come protagonista l’esperto programmatore di computer John Valentine (John Lithgow) che ha il terrore di volare ma che per lavoro è costretto a farlo. Cercando in ogni modo di calmarsi si mette a guardare fuori dal finestrino e scorge un essere mostruoso intento a sabotare i motori dell’aereo su cui sta volando.

Tutti e quattro gli episodi e le loro atmosfere mantengono fede allo spirito dell’opera originale di Serling e a rivederli oggi, anche a distanza di quasi quarant’anni, si prova sempre un certo gusto e piacere. Ma, purtroppo, durante la lavorazione del film si consumò un terribile e mortale incidente che influì sulla sua riuscita globale. Durante le riprese della scena finale dell’episodio “Time Out” l’elicottero che inseguiva Bill Connor nei panni di un vietcong con in braccio due piccoli vietnamiti rovinò al suolo investendo e uccidendo sul colpo Vic Morrow – padre dell’attrice Jennifer Jason Leigh – e i due attori bambini che erano con lui.

Sull’elicottero viaggiava Landis che dirigeva la scena, dando indicazioni al pilota. L’incidente, stabilirono gli inquirenti, venne causato dai numerosi fuochi d’artificio usati per riprodurre un bombardamento nella giungla, fuochi che abbagliarono il pilota facendogli perdere il controllo del mezzo.

Il processo durò circa dieci anni e ridimensionò inesorabilmente la carriera e il prestigio di Landis che molti considerarono colposamente e soprattutto moralmente responsabile in gran parte dell’accaduto. Spielberg troncò l’amicizia con lui e poi produsse da solo una serie televisiva chiaramente ispirata a quella di Serling – di cui però non possedeva i diritti – dal titolo “Storie incredibili” che andò in onda quasi in contemporanea alla nuova serie “Ai confini della realtà” prodotta dalla CBS e andata in onda dal 1985 al 1989.

Dal giorno dell’incidente e dopo l’esito dell’inchiesta, Hollywood cambiò drasticamente le normative per girare scene anche lontanamente pericolose per artisti e tecnici.

“Scompartimento per lettori e taciturni. Articoli, ritratti, interviste” di Grazia Cherchi

(Minimun Fax, 2017)

Grazia Cherchi (1937-1995) è stata una delle figure più rilevanti della nostra editoria del Novecento. Oltre ad essere una delle migliori, se non la migliore in assoluto, collaboratrice e curatrice editoriale – termine che può voler dire tutto e niente, ma che oggi si traduce al meglio in editor – è stata una formidabile talent scout, scoprendo scrittori come Stefano Benni, Alessandro Baricco e Massimo Carlotto.

I suoi consigli, i suoi suggerimenti e i suoi scritti hanno inciso profondamente nella storia della nostra editoria a partire dai primi anni Sessanta con la fondazione e la direzione – assieme a Piergiorgio Bellocchio – della rivista “Quaderni piacentini”, passando poi per numerosi articoli pubblicati su alcune delle riviste e dei giornali più rilevanti del nostro panorama editoriale, nonché con la stretta collaborazione con le case editrici più agili e illuminate dell’epoca. Attività che ha svolto fino a quasi la sua morte in maniera lucida e sempre all’avanguardia perché, a differenza di alcuni nostri contemporanei sedicenti editor, Grazia Cherchi non era una scrittrice mancata: ma una lettrice implacabile, famelica e soprattutto onesta.

Ma allora perché oggi, ai più, il suo nome è praticamente sconosciuto?

Io che sono uno scrittore che si autopubblica, e quindi non ha alcun contatto con la nostra editoria canonica, non posso affermarlo con certezza. Certo fanno riflettere gli scritti della Cherchi, soprattutto quelli in cui si scaglia contro il “patriarcato” dell’editoria – che allora naturalmente era solo quella classica – e aborriva ogni tipo di premio letterario, dallo “Strega” al “Campiello”, considerandoli una patetica replica dei “migliori” salotti che l’intellighenzia italica offriva e che erano uno dei carburanti principali dello stesso patriarcato.

Così questo prezioso tomo, a cura di Roberto Rossi, ci racconta lucidamente le radici della grave crisi della nostra editoria che, qualche anno dopo la morte della stessa Cherchi, sfocerà in quella sempre più profonda che oggi noi stiamo vivendo da tempo. Con i suoi articoli per riviste e giornali come “Linea d’ombra”, “Linus”, “Panorama” o “L’Unità”, la Cherchi punta il dito sulla metamorfosi che l’editoria – e non i libri, attenzione! – in quegli anni sta iniziando.

Ci racconta di un ambiente fatto di “mafie e mischie” dove fin troppo spesso vengono spinti e pubblicizzati libri di autori cari all’establishment e non quelli di valore. Le pubblicità e la recensioni dei libri, ci sottolinea, sono ormai a uso e consumo dell’editore e a volte dello scrittore, ma mai per il lettore. Tanto che lei sovente è in quelli poco conosciuti o che spariscono subito dagli scaffali delle librerie che trova perle e chicche, come ad esempio “Le streghe” di Roald Dahl o il racconto “La gente delle dieci” di Stephen King. Per questo, con almeno trent’anni di anticipo sulla storia, la Cherchi ipotizza e sogna che ogni lettore possa poter mettere lui personalmente una breve recensione, magari anche sintetizzata da un pollice giù o uno in su, a favore di tutti gli altri lettori che desiderino avere pareri sinceri e non strumentali sul libro…

Ma non solo, l’acume della Cherchi la porta a parlare sia di romanzi e saggi ma anche di racconti, forma letteraria che lei giustamente pone sullo stesso piano per dignità e interesse alle prime due. E, già a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta, inizia a notare un apparente inspiegabile e preoccupante scarto da parte di tutti gli editori nostrani della forma racconto, soprattutto quelli di autori italiani. A distanza di trent’anni la nostra editoria è una delle poche al mondo che ormai ignora di fatto i racconti dei nostri autori – tranne raramente di quelli già famosi – limitandosi a pubblicare al massimo, ogni tanto, quelli di scrittori che siano “tassativamente” stranieri.

Insomma, una raccolta di testi che ci illumina sulla crisi profonda della nostra editoria che non è legata, come qualcuno cerca ancora e in ogni modo di farci credere, all’avvento dei libri digitali, ma sopratutto a scelte commerciali miopi e ottuse che partono da lontano.

Pubblicato per la prima volta nel 1997, “Scompartimento per lettori e taciturni” – il cui titolo si rifà a un articolo in cui la Cherchi auspica che un giorno le Ferrovie dello Stato riservino alcuni scompartimenti appositamente per incalliti viaggiatori lettori che per leggere hanno bisogno di un educato silenzio… – è una preziosa miniera di diamanti per chi, come la sua autrice, ama soprattutto leggere, miniera dove trovare preziosi suggerimenti.

Ma, sopratutto, attraverso articoli, deliziose e pungenti interviste ai nostri maggiori autori dell’epoca come Raffaele La Capria, Oreste Del Buono, Goffredo Fofi, Giuseppe Pontiggia o Michele Serra, nonché ritratti e ricordi, come quello struggente della sua amica personale Elsa Morante da poco scomparsa, Grazia Cherchi ci racconta che cose è stata – …sob! – la nostra grande editoria.

Menomale che, fino ad oggi, almeno nessuno si sia azzardato a dedicarle un premio letterario…

Da leggere, tenere gelosamente nella propria biblioteca e da far studiare a scuola.

“Fairy Tale” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2022)

C’era una volta …il terrore.

Charlie Reade è un diciassettenne alto oltre 190 centimetri e dal peso che supera i 100 chili. Viste le sue dimensioni è uno dei gioielli del suo liceo quando parliamo di football o baseball. Ma Charlie possiede altre peculiarità che molti ignorano.

Sua madre, quando lui era ancora un bambino, è morta investita da un camioncino e suo padre, non riuscendo ad affrontare il lutto, è precipitato nell’alcolismo. In quel periodo, quando ogni sera doveva tornare a casa e trovare suo padre ubriaco davanti alla televisione, non si è comportato bene col mondo, commettendo piccole scorribande insieme a un suo nocivo compagno di scuola.

Ma un giorno, grazie a un ex collega, suo padre decise di disintossicarsi e così iniziò a frequentare gli Alcolisti Anonimi. In pochi ma determinati mesi suo padre tornò ad essere presente e affidabile e lui a sentire finalmente di tornare ad avere una famiglia. Così promise a se stesso di sdebitarsi appena il destino glielo avrebbe concesso.

Il destino aspettò Charlie un pomeriggio quando tornando a casa passò davanti alla vecchia casa posta in cima alla strada dove abitava. Quell’edificio gli abitanti della zona lo chiamavano da sempre “La casa di Pyscho”, sia per l’inquietante somiglianza architettonica con quella del capolavoro di Hitchcock, sia perché lì ci abitava Howard Bowditch, un anziano solitario e scontroso che possedeva un cane feroce e molto aggressivo.

Se Charlie, nel corso degli anni, aveva incontrato qualche volta casualmente il signor Bowditch, non aveva mai visto il suo cane che un suo compagno di classe assicurava essere famelico e spietato. Ma quel pomeriggio, passando accanto al recinto della casa, Charlie lo sentì mugolare in maniera inconsolabile. Fermandosi e mettendosi ad ascoltare con attenzione il giovane sentì anche la voce di un uomo chiedere aiuto. Dopo aver scavalcato la recinzione e voltato l’angolo della casa Charlie trovò in signor Bowditch a terra con una gamba spezzata con accanto un vecchio e ammaccato cane lupo.

Mentre puliva le grondaie l’uomo era caduto dalla scala e grazie al suo cane, che era una femmina e si chiamava Radar, e a Charlie venne soccorso prima che la situazione diventasse ancora più grave. Ricoverato in ospedale e stabilizzato, prima della lunga serie di interventi che lo aspettavano, Bowditch aveva un grande problema: chi si sarebbe occupato del suo cane? E così Charlie decise di “pagare” il suo debito prendendosi lui cura di Radar e della casa dell’anziano col quale, nonostante il suo carattere complicato, riuscì ad instaurare un rapporto di fiducia.

E proprio per pagare i salatissimi conti dell’ospedale Bowditch fu costretto a rivelare al ragazzo la combinazione di una vecchia cassaforte dove teneva nascosto un secchio colmo di pepite d’oro. Le cose si complicarono quando Bowditch rivelò l’incredibile provenienza di quell’oro e, soprattutto, che nel vecchio capanno degli attrezzi sistemato nel suo giardino c’era un antichissimo e misterioso pozzo che portava in un mondo parallelo al nostro. Un mondo dove lui prese tutto quell’oro, ma che era vittima di una terribile maledizione e di un essere terrificante…

Il Re ci racconta una storia per ragazzi, ma non solo. Attraverso un mondo magico, ma anche maledetto, King ci parla dell’ancestrale dicotomia fra il bene e il male attraverso richiami velati ed espliciti ai suoi maestri fra cui spicca, naturalmente, H. P. Lovecraft. E ci ricorda, come sempre, che noi siamo quello che scegliamo di fare. Che il coraggio è quello di affrontare una situazione ingiusta e sbagliata, anche se questo comporterà il non fare ritorno.

Per quasi seicento pagine sguazziamo nella fantasia geniale del Re per il quale, come già sottolineato più di una volta, i mostri più terribili non sono per forza quelli che hanno un aspetto terribile.

Se all’apparenza può sembrare un “normale” romanzo fantasy, finita l’ultima pagina e riposto il tomo nella nostra libreria, per molto tempo ci ritroviamo a pensare ad alcuni passaggi del romanzo, che lasciano il segno.

Viva il Re!