“F.B.I. e la banda degli angeli” di Steve Carver

(USA, 1974)

Questo film scollacciato è stato prodotto dal grande Roger Corman, la mente più geniale del cinema indipendente americano (basta ricordare che agli inizi degli anni Sessanta si scelse come assistente il giovane e sconosciuto Francis Ford Coppola).

Scritto da William Norton e Frances Doel, “F.B.I. e la banda degli angeli”, con graffiante ironia, denuncia la situazione della donna nella società contemporanea, umiliata e sfruttata dall’uomo che la vede sempre e solo come un oggetto sessuale.

Anche se la sceneggiatura possiede qualche incongruenza, e il regista Steve Carver non disdegna di mostrare generosamente le protagoniste in abiti succinti o spesso senza neanche quelli (all’epoca fece un certo scalpore il nudo integrale di Angie Dickinson) in questa pellicola non c’è una figura maschile positiva (fra quelli più ridicolizzati ci sono anche gli agenti del F.B.I.) cosa che ne fa di fatto un film a suo modo femminista . Tutti gli uomini, in un modo o nell’altro, vogliono approfittarsi delle tre protagoniste, la piacente madre (la Dickinson, appunto) e le sue due figlie adolescenti.

Come spesso accade nella storia del cinema, soprattutto coi film di serie B, per raccontare uno storia scomoda o di protesta senza incappare nella censura, si cambia periodo storico e si usa un genere molto commerciale come, in questo caso, il gangster movie e lo scollacciato.

Così ci troviamo nel sud degli Stati Uniti durante il periodo della Grande Depressione (che economicamente ricorda molto l’epoca in cui venne realizzato il film) Wilma McClatchie (la Dickinson) è rimasta vedova con due figlie adolescenti a carico, senza nulla per mantenerle. La più piccola è stata promessa in sposa ad una famiglia che abita nella stessa cittadina. Il futuro della giovane è quello però di fare la sguattera e “sfornare” figli.

Ma proprio davanti all’altare Wilma non ci sta, non vuole che sua figlia faccia la sua stessa vita e così se la porta via prima del “sì”. Le tre donne scappano col cognato, che di mestiere fa il contrabbandiere di whisky. Inizia così la nuova vita – criminale – di Wilma che prende in mano le redini degli affari del cognato, morto sotto i colpi degli agenti del F.B.I..

Sulla sua strada Wilma incontrerà vari uomini che tentano sempre di servirsi di lei, fra cui Il rapinatore Fred Diller (Tom Skerritt) e il truffatore William J. Baxter (William Shatner).

Una pellicola con dei limiti evidenti, ma la mano del grande Corman si vede, soprattutto nella colonna sonora da “vecchie comiche” e nelle scene in cui Wilma a sparare è più brava degli uomini.

Il dvd riporta la versione col doppiaggio originale fatto quando la pellicola è uscita nelle nostre sale. Negli extra è presente il trailer originale del film.

“La piccola bottega degli orrori” di Roger Corman

(USA, 1960)

Roger Corman, che ha festeggiato novant’anni lo scorso 5 aprile, è uno dei più geniali artigiani della macchina da presa del Novecento. I suoi numerosi film, tutti girati a bassissimo costo e con attori allora sconosciuti, hanno segnato la fantasia e gli incubi di più di una generazione. Molti sono stati copiati o rigirati, o addirittura rielaborati per un genere diverso. Come questo “La piccola bottega degli orrori” che è diventato un musical di enorme successo prima a Broadway e poi a Hollywood con “La piccola bottega degli orrori” diretto da Frank Oz.

Seymour (Jonathan Haze) è un giovane impacciato e goffo, schiacciato dalla figura della madre, una donna possessiva e malata psicosomatica cronica. Per sbarcare il lunario lavora come commesso nel piccolo negozio di fiori del signor Gravis Mushnik (Mel Welles).

Un giorno porta nel negozio una piccola piantina che ha comprato da un venditore cinese e la chiama Audrey Junior, in onore alla prosperosa assistente di Mushnik, Audrey (Jackie Jospeh) di cui è innamorato. Ma la sera stessa Seymour scopre che lo strano vegetale è carnivoro e ogni volta che mangia – il giovane le regala un pò del suo sangue – cresce a dismisura.

Crescendo incredibilmente, Audrey Junior diventa una vera e propria attrazione. Ma il sangue del giovane, che mantiene ovviamente il segreto, non basta più e così, senza volerlo, getta nelle fauci della pianta assassina vari malcapitati, fra cui il terribile dentista del piano sopra; e con un paziente (un allucinato Jack Nicholson al suo esordio) Seymour arriva a fingere di essere lui il medico, fino a quando…

Scritto da Charles B. Griffith, e tratto da un racconto di John Collier, questo film di Corman è una pietra miliare dell’horror, ma soprattutto della commedia nera. Nonostante gli evidenti limiti produttivi, Corman realizza una pellicola che ancora oggi punge e morde come una pianta carnivora.

Grande.

“Terminator” di James Cameron

(USA, 1984)

Nel 1984 la paura dell’olocausto atomico era ancora forte e concreta – come purtroppo è tornata a esserlo in questi ultimissimi giorni – e un film di fantascienza centrato sul tema non sembrava una grande novità.

Ma quello che realizzò il giovane e semi sconosciuto James Cameron (con all’attivo solo il sequel di un b-movie horror) divenne immediatamente un cult, segnando una netta linea di demarcazione nel cinema di genere, e non solo.

Merito soprattutto di una bella e incalzante sceneggiatura – firmata dallo stesso Cameron insieme a Gale Anne Hurd (proveniente dalla scuola di Roger Corman e che sposerà lo stesso Cameron nell’85 per poi separarsi e convolare a nozze con Brian De Palma nel 1991) e William Wisher.

Il merito va anche ai muscoli e alla faccia “da schiaffi” di Arnold Schwazenegger, alla soggettiva del cyborg e agli effetti speciali che faranno scuola, come poi spesso capiterà per gli altri film di Cameron.

E ci aggiungo anche la bravura di Linda Hamilton che interpreta la volitiva Sarah Connor – madre del futuro leader della resistenza John Connor – attrice che lo stesso Cameron ha poi sposato nel 1997.

E comunque, per la fredda cronaca, Cameron – forse perché è laureato in fisica, e i fisici si sa sono tutti un po’ eccentrici (vedi “The Big Bang Theory”) – non l’ha piantata di sposare colleghe: dal 1989 al 1991 è stato il marito di Kathryn Bigelow, la prima donna nella storia a vincere l’Oscar come miglior regista (nel 2008 con “The Hurt Locker”).

Ma tornando al film, la mia battuta preferita, oltre alla diabolica domanda del Terminator: “Sarah Connor?” è quella del passante che, mentre sta palrando ad un telefono pubblico, viene letteralmente sradicato dal cyborg che cerca l’elenco telefonico per sapere l’indirizzo della sua preda, e che dice rialzandosi, pacato, all’orco meccanico: “…Ehi amico: hai dei seri problemi comportamentali…”.

Vincent Price

Il 25 ottobre del 1993 se ne andava Vincent Price.

Nato a Saint Louis il 27 maggio 1911, Vincent Price è il rampollo di una ricca famiglia americana: suo nonno inventò la prima crema di lievito tartaro rendendo più che benestanti tutti i suoi eredi.

Appassionato d’arte, si laurea a Yale in storia dell’arte e prosegue i suoi studi a Londra. L’amore per la recitazione arriva attraverso il teatro, ma presto il cinema si accorge di lui: fascinoso, con due occhi blu penetranti, una voce calda e sensuale, e soprattutto alto 193 centimetri.

Ovviamente i suoi sono i ruoli del cattivo o del perfido: nel 1948 interpreta il malvagio cardinale Richelieu ne “I tre moschettieri “ con Gene Kelly e Lana Turner.

Alla fine degli anni Quaranta, alla radio, presta la sua voce a Simon Templar, l’eroe della serie “Il Santo” che nei decenni successivi approderà anche alla televisione e poi al cinema.

E’ negli anni Cinquanta che passa ai film dell’orrore – anche se partecipa al grande “Quando la città dorme” di Fritz Lang del 1956 – con “La maschera di cera” (1953) e il memorabile “L’esperimento del Dottor K” (1958), da cui Cronenberg realizzerà il terrificante remake “La mosca” nel 1986.

Lo stesso Price ha raccontato più di una volta le difficoltà che ebbe per girare la scena finale del film, quando doveva interpretare la “mosca” con la testa del Dottor K che veniva finalmente uccisa: nessuno del cast riusciva a smettere di ridere.

Con gli anni Sessanta arriva la collaborazione col geniale produttore e regista Roger Corman che lo porta ad interpretare film come “Il pozzo e il pendolo” (1961), “I racconti del terrore”(1962) e “La maschera della morte rossa”(1964).

Lo stesso anno interpreta quello che poi sarebbe diventato un cult:  “L’ultimo uomo della Terra” diretto da Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, con Giacomo Rossi Stuart e Franca Bettoia, girato a Roma nel quartiere EUR, e tratto dal romanzo di Richard Matheson “Io sono leggenda” – che tornerà numerose volte sul grande schermo in vari adattamenti fra cui spiccano “La notte dei morti viventi “ di George Romero del 1969 e il bellissimo “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra” di Boris Sagal del 1971.

Con gli anni Settanta l’horror diventa più cupo e interiore e Price presta le sue fattezze a due grandi pellicole, allora etichettate semplicemente di serie B ma oggi giustamente rivalutate: “L’abominevole Dr. Phibes”(1971) di Robert Fuest, e “Oscar insanguinato” (1973) diretto da Douglas Hickox in cui Price interpreta un attore shakespeariano stroncato dalla critica che torna per vendicarsi spettacolarmente contro i suoi detrattori.

Col passare del tempo le caratteristiche del film del terrore cambiano ma Price rimane vivo nell’immaginario collettivo: è sua la voce terrificante che accompagna l’avvento degli zombie nel video “Thriller” di Michael Jackson del 1983.

Tim Burton lo vuole nel suo “Edward mani di forbice” (1990), ma durante le riprese la sua parte viene ridotta a causa della malattia che lo sta consumando e che pochi anni dopo lo ucciderà.

Per noi Vincent Price è soprattutto un volto dei film dell’orrore, ma grazie (o questa volta a causa?) del doppiaggio ci siamo persi la sua voce profonda e inquietante, con una dizione perfetta che ha stregato generazioni di spettatori.