Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.
A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.
Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.
Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.
Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.
Rod Serling (1924-1975) è stata una delle figure più rilevanti del cinema e soprattutto della televisione americana del secondo Novecento. Anche se è stato l’autore di sceneggiature di film come “I giganti uccidono” o “Una faccia piena di pugni” (pellicola che ha segnato il cinema e la cultura degli Stati Uniti, tanto da influenzare lo stesso Sylvester Stallone per la stesura dello script di “Rocky” e Quentin Tarantino per quella di “Pulp Fiction”, solo per citarne due) il suo nome sarà per sempre legato alla serie televisiva antologica “Ai confini della realtà” che creò nel 1959 e che venne trasmessa dalla CBS fino al 1964.
Il 24 novembre del 1958 va in onda, per la serie antologica “Westinghouse Desilu Playhouse” l’episodio “L’elemento tempo” scritto da Rod Serling e diretto da Allen Reisner, in cui il protagonista è Pete Jansen (William Bendix), un uomo che rivela al suo medico il dottor Gillespie (Martin Balsam) che ogni notte rivive lo stesso sogno più che reale: essere a Honolulu le ventiquattro ore che precedono l’attacco di Pearl Harbour il 6 dicembre 1941. Il sogno si tramuta incredibilmente e inspiegabilmente in realtà…
Se gli spettatori di quegli anni sono avvezzi alla fantascienza, anche quella più semplice, nessuno invece ha mai visto niente di simile, un racconto fantastico più che fantascientifico, e al tempo stesso concreto e drammatico. Il successo è notevole tanto che la CBS decide di affidare al suo autore il compito di creare e seguire una vera e propria serie antologica con gli stessi toni e argomenti.
Il titolo Serling lo prende dal gergo aeronautico degli anni Quaranta e Cinquanta in cui “twilight zone” si riferisce all’effetto visivo per il quale, in determinate condizioni, la linea dell’orizzonte scompare alla vista del pilota per alcuni instanti durante l’atterraggio. Una zona di luci e ombre in cui è facile perdere l’orientamento.
Per presentare ogni puntata, che ha sempre attori nuovi e una storia indipendente dalle altre, Serling vorrebbe Orson Welles ma il cachet è troppo alto per il budget fissato dalla produzione, interpella poi Richard Egan che però ha appena firmato un contratto esclusivo per un film. Così, per affrettare i tempi e limitare le spese, viene stabilito che sarà lui stesso il presentatore.
Il 2 ottobre del 1959 va in onda il primo episodio della prima stagione “La barriera della solitudine”, scritto naturalmente dallo stesso Serling. Inizia così un nuovo genere televisivo e un nuovo modo di raccontare i sogni e gli incubi della società americana, oppressa in quegli anni dalla guerra fredda. Ma Serling, in anni in cui gli Stati Uniti erano ancora fortemente razzisti, riesce a parlare di tolleranza, uguaglianza e rispetto con originalità e intelligenza, soprattutto alle nuove generazioni che il venerdì sera rimangono attaccate alla televisione per poco più di venti minuti, il tempo di ciascun episodio, senza avere neanche il coraggio di sbattere le palpebre.
L’impatto è enorme e incredibilmente duraturo, visto che ancora oggi, a distanza di quasi settant’anni, tutti – o quasi – gli episodi continuano ad avere il loro fascino e la loro potenza narrativa. Per quanto concerne i piccoli di allora, basta ricordare due dei tanti fan che hanno più di una volta dichiarato che senza questa serie la loro vita e la loro arte non sarebbero state le stesse: George Lucas e Steven Spielberg.
Tanto che lo stesso Spielberg produce e dirige uno dei tre episodi del film “Ai confini della realtà“, dedicato e ispirato proprio alla serie di Serling, che realizza assieme a John Landis, George Miller e Joe Dante nel 1983.
Sono moltissimi gli attori, ma anche i registi, che giovani e ancora sconosciuti girano uno o più episodi che andranno in onda dal 1959 al 1964. Nomi come Robert Redford, Sidney Pollack, Ida Lupino (che reciterà nell’episodio della prima stagione “Il sarcofago” e dirigerà l’episodio “Le maschere” della quinta stagione, fra le prime donne in assoluto ad esordire dietro una telecamera), Peter Falk, Charles Bronson, Lee Marvin (interprete dell’episodio “La tomba” della terza stagione, che come alcuni altri, col passare del tempo, è diventato una vera e propria leggenda metropolitana), Robert Duvall, Dennis Hooper, Martin Landau, Art Carney, Cloris Leachman, Ron Howard (nei panni di un bambino nell’episodio “La giostra” della prima stagione), Paul Mazursky, Burt Reynolds, Jack Warden, Burgess Meredith (che poi vestirà i panni del primo allenatore di Rocky Balboa, ma che interpreterà alcuni episodi fra cui lo strepitoso “Tempo di leggere” andato in onda nella prima stagione), Kevin McCarthy (protagonista del bellissimo “Lunga vita a Walter Jameson”, ancora oggi molto citato), William Shatner (interprete di due episodi fra cui il famosissimo “Incubo a 20.000 piedi” diretto da un giovane Richard Donner) James Coburn, Lee Van Cleef o Telly Savalas, solo per citare i più famosi.
Senza parlare delle attrici e degli attori che diventeranno famosi, negli anni successivi, soprattutto nel piccolo schermo come Agnes Moorehead (interprete del delizioso “Gli invasori” della seconda stagione), Bill Bixby, George Takei, Jack Klugman, Elizabeth Montgomery, Roddy McDowall (protagonista del caustico “Gente come noi”) Claude Atkins e Jack Weston (questi ultimi due interpreti del bellissimo “Mostri in Marple Street”, fra i più significati e antirazzisti della serie che si schiera, neanche troppo velatamente, contro la famigerata “caccia alle streghe” maccartista di quegli anni).
A scrivere gli episodi delle prime stagioni, oltre a Serling, ci sono Charles Beaumont e Richard Matheson (autore, nel 1954, del bellissimo romanzo di fantascienza “Io solo leggenda” da cui sono stati tratti vari adattamenti cinematografici tra i quali, da ricordare, “L’ultimo uomo sulla Terra” e “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, nonché la lunga serie di lungometraggi che parte da “La notte dei morti viventi” diretto da George Romero nel 1968 e passa per “28 giorni dopo” diretto da Danny Boyle nel 2002). Visto il clamoroso successo della serie però, nel corso degli anni, Serling venne citato in numerosissime cause per presunto plagio, cosa che alla fine lo costrinse a cedere i diritti di “Ai confini della realtà” direttamente alla CBS.
Amareggiato, Rod Serling si dedicò a serie con i toni più marcati dell’orrore, fino al 28 giugno del 1975 quando, mentre stata tagliando l’erba del suo giardino, venne stroncato da un infarto a soli 50 anni. Certo, oggi è difficile non associare la sua improvvisa e fulminante morte alle sigarette che aveva sempre in mano, anche quando presentava gli episodi della sua serie più famosa e nella quale divenne anche il testimone di una nota fabbrica di tabacco, o nelle varie foto che lo ritraggono nella vita di tutti i giorni.
Se Serling ha conosciuto il successo e la stima dei suoi contemporanei, non ha potuto apprezzare quelli delle generazioni successive che ancora oggi amano profondamente la sua opera.
Vera pietra miliare della televisione e dell’immaginario collettivo del Novecento, “Ai confini della realtà” è una serie immortale e da vedere e rivedere ad intervalli regolari.
Sul bordo di una strada, persa fra le colline dell’immensa campagna degli Stati Uniti, si incontrano due sconosciuti in cerca di un passaggio: Max (Gene Hackman) e Francis Lionel (Al Pacino). Mentre il primo è un rude e volitivo ex detenuto con in testa l’idea che gli farà cambiare la vita e cioè metter su un autolavaggio a Pittsbugh, il secondo è un pacifico ex marinaio che vuole solo tornare a Detroit dove ha lasciato la sua ragazza incinta, sei anni prima.
I due caratteri così opposti diventano subito complementari, mentre Max ce l’ha col mondo intero ed è pronto a venire alle mani con tutti, grazie anche al suo fisico massiccio e possente, Lionel è invece un minuto e placido ottimista che è convinto, per esempio, che gli spaventapasseri facciano ridere di gusto gli uccelli, senza terrorizzarli, motivo per il quale poi lasciano in pace il campo coltivato sottostante.
Max decide così’ di fare diventare Lionel il suo socio nell’autolavaggio, ma prima di arrivare a Pittsburgh, dove lui ha in banca i soldi che gli consentiranno di aprire l’attività, decide di passare a Denver per trovare la sua ex Coley (Dorothy Tristan). Ma già prima di arrivare a Detroit, il destino impartisce una dura lezione a Lionel, ricordandogli quanto sia pericoloso il lato più ingenuo e superficiale del suo carattere…
Grazie anche ai due grandissimi protagonisti Hackman e Pacino, questa pellicola è una delle più significative del cinema americano indipendente degli anni Settanta. Dopo il sogno dei Sessanta, la dura realtà sbatte prepotentemente contro le speranze di una generazione che credeva davvero nel cambiamento e nel riuscire a realizzare i propri desideri, anche quelli più semplici e banali. Il risveglio così è senza sconti per nessuno.
Schatzberg, come avevano fatto qualche anno prima John Schlesinger nel suo splendido “Un uomo da marciapiede” o Bob Rafelson nel suo “Cinque pezzi facili“, ci tratteggia una società occidentale che inizia a fare i conti con se stessa, conti che per i più deboli, economicamente ma soprattutto emotivamente, non tornano più. E’ una società che ormai non concede loro spazio né pietà.
Scritto da Garry Michael White, con l’ottima fotografia curata da Vilmos Zsigmond (che è stato il responsabile della fotografia di pellicole come “Un tranquillo weekend di paura” di John Boorman, “Sugarland Express” e “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, “Obsession – Complesso di colpa” e il cult “Blow Out” di Brian De Palma” o “Il cacciatore” di Michael Cimino) questo film, fra gli altri premi, ha vinto anche la Palma d’Oro al Festival di Cannes.
Nel 1942 il cineasta Victor Fleming, regista di pellicole memorabili come “Via col vento” o “Il mago di Oz”, dirige l’adattamento cinematografico del romanzo di John Steinbeck “Pian della Tortilla“, pubblicato per la prima volta sette anni prima.
La sceneggiatura è firmata da John Lee Mahin e Benjamin Glazer, due storici autori di Hollywood, mentre il cast raduna tre fra i più noti attori del momento: Spencer Tracy, John Garfield e Hedy Lamarr.
Tracy è uno degli interpreti con cui Fleming ha più feeling, tanto da averlo già diretto in film come “Capitani coraggiosi” e “Il dottor Jekyll e Mr. Hyde”, e per questo gli viene affidato il ruolo del protagonista Pilon, il paisanos fulcro del gruppo di scansafatiche e bevitori incalliti che vive a Pian della Tortilla, sulle colline di Monterey, in California.
All’altro attore che va per la maggiore all’epoca, John Garfield (la cui carriera qualche anno dopo, a causa delle sue simpatie verso il Partito Comunista, verrà devastata dalla famigerata “caccia alla streghe” maccartista) viene assegnato il ruolo del coprotagonista Danny, che nella nostra versione dell’epoca prende il nome di Daniele.
La star femminile è Hedy Lamarr (1914-2000) il cui nome vero era Hedwig Eva Maria Kiesler, nota ai più per essere stata la prima attrice a posare completamente nuda in un film (“Estasi” diretto da Gustav Machatý nel 1931), ma anche ottima attrice e grande inventrice: studentessa di Ingegneria presso l’Università di Vienna, trasferitasi negli USA, durante la Seconda Guerra Mondiale, studiò e brevettò un sistema per l’individuazione dei sommergibili tedeschi, sistema che oggi è alla base del wi-fi.
Alla Lamarr (cui poi Mel Brooks dedicherà un delizioso gioco di parole nel suo “Mezzogiorno e mezzo di fuoco“) viene affidato il compito di impersonare Dolores Ramirez, l’unica in grado di far battere il cuore di Danny.
Fra sotterfugi ed espedienti, più o meno leciti, vivono a Pian della Tortilla un gruppo di paisanos – i più antichi abitanti della California, con ancora sangue spagnolo nelle vene – nullatententi capitanati dallo scaltro Pillon. Le cose cambiano quando Danny riceve in eredità dal nonno due case. Diventa così un proprietario e stenta ad andare d’accordo con i suoi amici che invece vogliono spartire con lui i suoi beni.
Danny sarà diviso fra la sua antica e solida amicizia con Pilon e l’amore che gli scoppia nel cuore per Dolores, una ragazza di Salinas, che vorrebbe sposarlo. Intorno a loro ruotano le storie degli altri paisanos, fra cui quella del Pirata (Frank Morgan, che aveva interpretato proprio il famigerato mago di Oz nell’omonimo film di Fleming) un anziano vagabondo che vive con alcuni cani randagi come lui, e che nasconde un segreto nel cuore…
Anche se il film è girato tutto in studio, sia gli interni che gli esterni, e Tracy e la Lamarr sono truccati pesantemente per sembrare dei veri paisanos, questa pellicola possiede il suo fascino e mantiene, almeno fino al finale, lo spirito del romanzo di Steinbeck. D’effetto, ancora oggi, la storia proprio del Pirata.
La mano pesante della produzione, allora assai perbenista e ipocrita, obbligò sceneggiatori e regista a scostarsi dall’epilogo originale dello splendido libro di Steinbeck per offrire al pubblico – ritenuto evidentemente immaturo e assai ingenuo – un lieto fine che accontentasse tutti, facendo tornare a casa gli spettatori felici, e forse …evitandogli di pensare troppo.
Nonostante ciò “Gente allegra” – il cui titolo in italiano ammicca al vecchio proverbio che recita nella seconda parte: “…Dio l’aiuta!” – merita comunque di essere visto sia per la magia e il fascino della storia, che per apprezzare la bravura di un grande attore come Spencer Tracy, forse dimenticato da troppi.
Paul Schrader (classe 1946) è uno dei più importanti autori cinematografici americani della sua generazione. Ha firmato script di film come “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “L’ultima tentazione di Cristo” diretti da Martin Scorsese (che cooproduce questo film); “Obsession – Complesso di colpa” diretto da Brian De Palma; “American gigolò”, “Lo spacciatore” e “Affliction” di cui lui stesso ha poi curato la regia.
Così come in molte sue pellicole, e soprattutto nell’ottimo “Lo spacciatore” del 1992 con protagonista Willem Dafoe (vero attore “feticcio” del regista), Schrader ci racconta la storia della dolorosa e cruda redenzione di un uomo che ha sbagliato.
William Tell (un bravo Oscar Isaac) è un giocatore d’azzardo professionista che vive delle proprie vincite girando per tutti i numerosi casinò degli Stati Uniti. E’ un uomo solitario che, una volta alzatosi dal tavolo verde, passa le sue giornate in auto e le sue nottate nei motel. William Tell è un giocatore molto bravo e astuto, soprattutto perché è in grado contare con esattezza le carte di ogni mano.
Se legalmente è vietato farlo, lui viene tollerato perché si accontenta di piccole vincite raggiunte le quali se ne va senza attirare attenzione o creare problemi. William Tell ha però uno strano vizio: in ogni stanza che occupa si porta una grande valigia piena di enormi lenzuola bianche con cui fodera tutto l’arredamento prima di riposare.
E’ una sua vecchia “abitudine” che risale a qualche tempo prima, anche prima degli otto anni e mezzo che ha passato in un carcere militare. Nella sua vita precedente, infatti, il suo nome era William Tillich ed era uno dei militari carcerieri di Abu Ghraib, la prigione irachena dove nel 2004 è scoppiato lo scandalo per le feroci torture e umiliazioni fisiche e mentali, a cui venivano sottoposti i prigionieri iracheni, da parte dei militari statunitensi.
Proprio scontando la sua lunga pena William ha imparato tutto sulle carte e sul gioco d’azzardo. Uscendo di prigione ha cambiato cognome e ha deciso di iniziare una nuova vita, anche se le atrocità che ha commesso non potrà mai dimenticarle.
Un giorno però, in un grande casinò, William incappa casualmente in una conferenza tenuta da John Gordo (Williem Dafoe) sui nuovi sistemi di sicurezza e sorveglianza che la sua ditta produce. Mentre si allontana viene fermato da un ragazzo che afferma di chiamarsi Cirk (Tye Sheridan), e che dice di averlo riconosciuto: era, insieme a suo padre, ad Abu Ghraib. Le foto in cui William e il padre di Cirk sorridevano accanto ai prigionieri vessati hanno fatto il giro del mondo, e così lui non ha avuto problemi ad individuarlo.
Il ragazzo gli confida che ha assistito anche lui alla conferenza di Gordo perché ha un piano per ucciderlo. Gordo, infatti, era uno degli ufficiali specialisti in torture efferate che dirigevano il carcere iracheno gestito dalla Forze Armate americane. A differenza dei soldati che vennero fotografati lui, come tutti i superiori e responsabili anche ad alto livello – fino alle soglie della Casa Bianca – non vennero puniti. Il padre di Cirk, invece come William, venne congedato con disonore e incarcerato. Una volta tornato a casa era ormai un alcolista violento e aggressivo. La madre di Cirk fuggì una notte lasciandolo solo col padre che qualche tempo dopo si sparò.
Il ragazzo vede in Gordo tutto il male che è gli è capitato nella vita e così, ingenuamente, vuole ucciderlo. William tenta in ogni modo di scoraggiarlo e decide di portarselo dietro in giro fra i casinò. Accetta poi l’offerta di La Linda (Tiffany Haddish), un’ex giocatrice professionista ora diventata una manager che trova finanziatori per i giocatori d’azzardo più famosi. L’idea è quella di guadagnare un pò di soldi da dare a Cirk affinché torni a studiare e soprattutto riallacci i rapporti con sua madre.
Abu Ghraib ha rovinato la vita di così tante persone che Will è disposto a tutto pur che non lo faccia con quella del ragazzo, che ha già pagato un prezzo altissimo nonostante la sua giovane età. Ma nella vita, spesso, non basta saper contare le carte di una mano…
Con una regia apparentemente scarna e razionale ma al tempo stesso carica di tensione – tipica di Schrader – assistiamo al viaggio allucinante di William Tell che tenta in ogni modo di sfuggire al proprio destino, destino che però fatalmente incontrerà a causa della sua natura.
Da ricordare anche le scenografie che per la maggior parte sono le reali e immense sale dei casinò americani, vere cattedrali dei sogni perduti di numerosissimi essere umani, che ci sottolineano come nelle guerre vince sempre il banco: i giocatori che materialmente le fanno difficilmente ne escono vincitori, indipendentemente dalla barricata che occupano.
Duro e senza sconti.
Per la chicca: il titolo originale è “The Card Counter”, e un giorno – …forse – capiremo quello in italiano.
E’ un dato di fatto, ormai assodato da tempo, che al mondo c’è chi sa raccontare una barzelletta e chi no. Si possono studiare centinaia di manuali ed esercitarsi davanti allo specchio per ore intere, ma o si possiede il talento del racconto verbale o non lo si possiede. Punto e basta.
E forse è per questo che nell’editoria tradizionale contemporanea del nostro Paese il racconto italiano trova pochissimo spazio. Perché (come per le barzellette) o lo si sa scrivere, o non lo si sa scrivere. Non ci sono editor o riscritture che tengano: lo spazio limitato di alcune pagine non dà scampo a chi non è capace di scrivere, come raccontare una barzelletta, appunto. Il romanzo, invece, per la sua maggiore ampiezza consente a volte – e non sempre – correzioni, ricalibrazioni e riscritture che un editor può attuare per renderlo più “presentabile”.
Naturalmente il nostro Paese non è sprovvisto di brave scrittrici e di bravi scrittori, sia di romanzi che di racconti. E allora viene da pensare che gli editor italici – che spesso sono anche coloro che selezionano o almeno dovrebbero selezionare i manoscritti da pubblicare – nel racconto non trovano lo spazio che cercano. Che poi la maggior parte degli autori italiani pubblicati in questi anni siano allo stesso tempo gli editor delle case editrici più rinomate, è un altro discorso.
Gli scaffali delle nostre librerie sono pieni di romanzi italiani ma vuote di racconti italiani, fatta eccezione per quelli classici scritti da grandi autori come Italo Calvino o Andrea Camilleri, che i più hanno già letto da tempo. E così chi ama il formato racconto – dal quale comunque sono partiti quasi tutti i grandi autori planetari – e, per sana e più che giustificata empatia, vuole leggere quelli scritti dai propri connazionali, deve per forza rivolgersi all’autopubblicazione.
“La solitudine del gelataio” rappresenta l’esordio letterario di Nicola Zecchini – classe 1979 – e contiene 30 racconti, brevi e meno brevi, alcuni dei quali davvero struggenti, altri divertenti e ironici, ma tutti davvero belli da leggere e, soprattutto, da vivere. Perché ogni racconto è un’escursione nell’anima del personaggio ma soprattutto del lettore.
Lo stile di Zecchini è ondulato e ricco, e percorrerlo è un delizioso viaggio nel viaggio della narrazione. Tutti i suoi personaggi hanno in comune il dolore e soprattutto la paura del vivere o dell’aver vissuto, così come ci sottolinea in “Caro Andrea” il protagonista quando afferma: “La mia libertà si sente al sicuro tra due cuscini di monotonia”.
Osserviamo e sentiamo, come davanti a un quadro di Edward Hopper, la solitudine e l’incomunicabilità degli esseri umani la cui paura più grande, e al tempo stesso il desiderio più incontenibile, è lo scambio, il confronto e il giudizio degli altri.
“La solitudine del gelataio” contribuisce così a colmare quel vuoto, ormai davvero insopportabile, negli scaffali delle nostre librerie donando un pò di serenità a chi come me ama leggere romanzi, saggi ma anche racconti, facendoci sentire lettori meno soli a discapito, purtroppo per lui, del gelataio.
Tra i miei preferiti: “Pianeta Döner”, “Ecosistema” e “La solitudine del gelataio”.
Keld (Bjarne Henriksen) è un idraulico che la vita ha reso passivo e apatico, e anche la sua storica passione per gli scacchi sta inesorabilmente svanendo. Sua moglie Rie (Charlotte Fich) tenta in ogni modo di scuoterlo ma, al suo ennesimo rifiuto di partire per un viaggio turistico, decide di lasciarlo.
Keld rimane sorpreso e annichilito dal gesto della compagna e tenta in ogni modo di riconquistarla, ma si deve arrendere quando scopre che Rie ha iniziato a frequentare un altro uomo. Preso dallo sconforto l’uomo vende tutto l’arredamento del loro appartamento e si sistema su una brandina per dormire.
Non essendo abituato a cucinare, la sera inizia a mangiare nel piccolo ristorante cinese sotto casa. Col passare dei giorni fa la conoscenza del padrone Feng (Lin Kun Wu) tanto che quando nel locale si spacca una tubatura l’uomo gli propone un accordo: lui pagherà in contanti il materiale ma per la manodopera retribuirà Keld con una cena al giorno per qualche mese.
L’idraulico accetta e così la sua frequentazione del ristorante e della famiglia di Feng diventa ancora più assidua, tanto che un giorno il ristoratore gli fa una proposta molto particolare: visto che lui ormai è solo, in cambio di 4.000 dollari, potrebbe sposare sua sorella Ling (Vivian Wu) che ha bisogno a tutti i costi del visto per rimanere in Danimarca e non dover tornare in Cina.
Keld, più stupito che sconvolto, declina l’offerta ma quando si trova davanti al giudice per la separazione definitiva da Rie, e questo gli impone un risarcimento pecuniario di cui lui però non ha disponibilità, torna da Feng e accetta la sua offerta per la somma che deve all’ex moglie.
Saputa la notizia Bjorn (Johan Rabaeus), l’avventore del ristorante di Feng con il quale Keld ci si ritrova ogni sera, lo chiama ironicamente “Kinamand”, che in danese vuol dire “muso giallo”. Dopo la cerimonia inizia una convivenza molto formale e distaccata, visto poi che Ling non conosce il danese, convivenza che serve solo per i controlli dell’ufficio immigrazione.
Ma Keld, ogni giorno che passa, rimane sempre più affascinato dalla sua nuova moglie tanto che decide di imparare da solo il mandarino. Ma una giorno a casa si presenta Rie…
Scritto da Kim Fupz Aakeson (autore dello script di “In ordine di sparizione” di Hans Petter Moland) questa “piccola”, deliziosa e struggente pellicola indipendente danese ha un plot che ricorda molto quello di “Green Card – Matrimonio di convenienza” con Gérard Depardieu e Andie MacDowell scritto e diretto da Peter Weir nel 1990, ma con tutt’altre atmosfere.
Keld impersona, infatti, quel pregiudizio che l’Occidente, e l’Europa soprattutto, possiede verso l’Oriente e la Cina in particolare. Ma lo stesso pregiudizio, molto spesso, è destinato a sbriciolarsi sul fascino che una cultura e una tradizione millenaria possiedono e che molti di noi forse non conoscono davvero.
Nel 1935 John Steinbeck pubblica “Tortilla Flat” che in breve tempo riscuote un grande successo e lo impone sulla scena letteraria planetaria. Lo scrittore narra le vicende di Danny, Pilon, Pablo, Joe e il Pirata, paisanos che vivono a Pian della Tortilla, il quartiere povero collinare della cittadina di Monterey, in California.
E’ la zona dove vivono gli ultimi discendenti dei veri californiani, quelli che hanno ancora sangue spagnolo nelle vene, ma che ormai sono spesso ai margini della società, tanto da non possedere nemmeno un tetto sotto cui ripararsi, e che passano le loro giornate fra un sotterfugio e un piccolo furto, sempre in cerca di vino e donne.
Le cose cambiano quando Danny riceve in eredità la vecchia casa del nonno nella quale decide di ospitare i suoi amici. La convivenza però all’inizio non è semplice, soprattutto perché Danny, diventando il proprietario di un immobile, sembra essersi “elevato” socialmente.
L’amicizia e soprattutto quel codice “morale” che spesso caratterizza le vite dei meno abbienti, li terrà uniti nonostante il vino e le disavventure quotidiane. Ma i paisanos, proprio per la loro storia ed il loro essere, possiedono un’anima tormentata e irrisolta…
Splendido e indimenticabile – come tutte le opere del suo autore – romanzo corale che ci tratteggia in maniera davvero sublime il cuore e lo stomaco di quelli ai margini, per i quali un bicchiere di vino o una sigaretta rappresentano un prezioso e inestimabile tesoro.
Steinbeck ce li racconta ambientando gli eventi in piena Depressione, quando molti suoi connazionali sono letteralmente sommersi da quella crisi economica che getta tantissimi in povertà ma che rende invece ricchissimi pochi altri.
Forse per questo “Pian della Tortilla” venne accolto assai freddamente dalla critica “ufficiale” che però fu travolta dal suo incontenibile successo internazionale. Su questo, lo stesso Steinbeck, parlò spesso, come quando ritirò il Premio Pulitzer vinto per lo strepitoso “Furore”, o il premio Nobel che gli venne assegnato nel 1962 per la Letteratura.
Sono passati quasi novant’anni dalla sua prima pubblicazione, ma “Pian della Tortilla” è fresco, travolgente e straziante come fosse stato scritto solo qualche settimana fa. I posteri, che ormai siamo noi, possono così emettere la nostra ardua sentenza sull’immortale Steinbeck e sulla piccola ma davvero piccola critica letteraria ufficiale dell’epoca…
Nel 1942 Victor Fleming gira l’adattamento cinematografico “Gente allegra” con Spencer Tracy, John Garfield e Hedy Lamarr.
Dal 24 marzo del 1974, giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche americane “Sugarland Express“, e soprattutto dal 20 giugno dell’anno successivo in cui venne presentato per la prima volta nei cinema “Lo squalo”, tutto il mondo del cinema, e non solo, conosce il nome e la carriera artistica di Steven Spielberg, vero Re Mida di Hollywood, considerato fra i più importanti creatori di sogni in celluloide degli ultimi cinquant’anni.
Ma non tutti conoscono la storia di Spielberg fino al suo esordio come regista televisivo che risale al 1969 a quello cinematografico che è appunto del ’74. E allora lo stesso regista ce la racconta in questa sua ottima pellicola scritta assieme a Tony Kushner.
Il 10 gennaio del 1952 Mitzi Fabelman (Michelle Williams) e Burt Fabelman (Paul Dano) portano il loro secondo genito Sammy, di sei anni, per la prima volta al cinema. Il film è “Il più grande spettacolo del mondo” diretto da Cecil B. DeMille. Sammy rimane letteralmente folgorato e, con i suoi giocattoli, tenta di riprodurre l’incidente più spettacolare e al tempo stesso cruento della pellicola.
Mitzi intuisce che il bambino vuole ripetere continuamente la scena che evidentemente lo ha spaventato, tentando di controllarla e così non averne più paura. Allora, invece che sacrificare continuamente i suoi giocattoli, presta al figlio la cinepresa amatoriale di Burt: lui potrà ripetere l’incidente una sola volta riprendendolo e così potrà rivederlo tutte le volte che desidera, senza danneggiare più i suoi giochi.
E così il piccolo Sammy – che ricorda tanto il piccolo Steven Spielberg… – ha per la prima volta fra le mani quello strumento che lo renderà uno degli uomini più famosi del suo tempo. Ma crescere non è semplice per nessuno, anche se da grandi si diventerà un genio del cinema, e se proviene da una famiglia di tradizione ebraica in un Paese dove l’antisemitismo è ancora molto radicato. E proprio attraverso le lenti delle sue cineprese Sammy (Gabriel LaBelle) vedrà il mondo evolversi e cambiare, così come la sua famiglia, le sue sorelle e naturalmente i suoi genitori.
Sarà poi suo zio Boris (Judd Hirsch), fratello di sua nonna materna e unico parente che ha a che fare col mondo del cinema avendo fatto per anni la comparsa, a spiegargli schiettamente il rapporto troppo spesso irrisolto fra gli affetti stretti e l’arte.
Ma i film, per Sammy, saranno l’unico mezzo di salvezza e sopravvivenza emotiva, morale e a volte anche fisica…
L’uomo dei sogni di Hollywood firma una delle pellicole di formazione più interessanti degli ultimi anni, raccontandoci attraverso la macchina da presa, i dolori e le pene del giovane Sammy che però, nonostante i profondi sensi di colpa e le grandi insicurezze, riuscirà a fare quello che solo pochi eletti fanno: realizzare il suo sogno più grande.
Come in ogni altra pellicola di Spielberg, anche in questa le immagini hanno un ruolo centrale nella narrazione. E così il cineasta americano ci mostra anche solo visivamente da dove nacquero gli spunti che poi, anni dopo, metterà in pellicole come “E.T. – L’extraterrestre”, “I predatori dell’arca perduta“, “Ritorno al futuro” (che ha prodotto) o “Salvate il soldato Ryan”. Nel cast da ricordare anche il grande David Lynch che ci regala un cameo davvero spettacolare.
Consigliato non solo per gli amanti del cinema, ma per tutti coloro che sono riusciti a sopravvivere alla propria adolescenza.
Anna (Angeliki Papoulia) è una donna che in un evidente stato confusionale vaga per il mercato di una città della costa greca. Quando si ferma ad una bancarella di spezie e aromi il venditore, da come Anna maneggia e odora la merce, capisce che è una cuoca e così la consegna un biglietto con sopra l’indirizzo di una taverna in riva al mare rimasta senza chef.
Anna, quasi per caso, arriva nel vecchio e trasandato locale e con il biglietto in mano incontra Roula (Giannis Tsortekis), il proprietario che le offre vitto, alloggio e 300 euro al mese per cucinare. La donna accetta e la mattina dopo inizia il suo lavoro. Roula le porta polpette e patate surgelate, cibo molto gradito dagli avventori della locanda che sono tutti operai, meccanici o autisti che spesso si portano anche del cibo da casa.
Ma Anna preferisce cucinare la cose fresche e così, nonostante il parere contrario di Roula, serve ai clienti i suoi piatti della antica e povera tradizione greca. Tutti gli avventori, così come Roula, ne rimangono estasiati e così il locale per la prima volta inizia ad essere sempre più pieno.
Un pomeriggio alla porta della taverna si presenta l’anziano Kyriakos (Tasos Palatzidis), un pensionato che ha deciso di abbandonare, con i suoi colori e pennelli, la casa di riposo in cui era stato lasciato. L’anziano si offre di realizzare un grande quadro a tema da appendere nella taverna, che è di fatto senza un vero e proprio arredamento. Roula gli concede una settimana poi non offrirà ospitalità all’anziano.
Sarà Anna a scegliere il tema centrale del quadro: il grande mare verde, il Mediterraneo, che gli Egizi nonostante fossero degli ottimi navigatori del Nilo hanno sempre avuto paura di attraversare. Mentre Kyriakos inizia la sua opera, Roula si reca in libreria per acquistare un nuovo tomo di ricette tradizionali da servire ai suoi clienti e casualmente scopre il segreto di Anna…
Scritta dalla stessa Angeliki Antoniou assieme a Evgenia Fakinou, questa “piccola” pellicola indipendente greca è un gustosissimo viaggio nell’anima e nei sapori veri della vita più intima dei protagonisti. Le atmosfere e gli “aromi” ricordano quelli del delizioso “Soul Kitchen” di Fatih Akın o dei tomi della serie manga “La Taverna di Mezzanotte” di Yaro Abe e della sua relativa serie tv “Midnight Diner – Tokyo Stories”.
Parafrasando il grande Giacchino Rossini, dopo aver visto questo film, possiamo asserire serenamente che il cibo è per il corpo quella che (a volte) il cinema – anche se Rossini diceva in realtà la musica… – è per l’anima.