“Sperandina”

In primo piano

Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.

A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.

Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.

Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.

Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.

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“L’assassino” di Georges Simenon

(Adelphi, 2012)

Il dottor Hans Kuperus è un uomo ordinario e rispettoso delle regole morali e sociali con le quali è cresciuto.

Ha uno studio medico a Sneek, la piccola cittadina dove è nato, situata nella Frisia, nel nord dell’Olanda. Mantenendo i prezzi bassi, la sua sala d’aspetto è sempre piena. Anche se è sposato da anni, non ha figli ed il rapporto con sua moglie si è serenamente adeguato alla situazione.

Periodicamente partecipa alla riunione dell’Associazione di Biologia Olandese ad Amsterdam. Ma questo martedì, una volta arrivato nella capitale, non si reca all’assemblea per poi dormire a casa della cognata, come fa sempre. Si ferma, invece, in un negozio di armi, compra una pistola e corre in stazione a prendere l’ultimo treno per tornare a casa.

Giunto nelle vicinanze di Sneek il treno si ferma a causa di un imprevisto e Kuperus ne approfitta per scendere, senza essere visto, e seguire la riva del lago Zuidersee. Come indicato nella lettera anonima che stringe con rabbia in tasca, in un capanno lì vicino sua moglie ha un appuntamento galante con il conte Shutter, l’uomo più ricco della regione e impenitente donnaiolo, che da anni gli soffia regolarmente la presidenza dell’Accademia del Biliardo di Sneek.

Kuperus li sorprende mentre escono dal bungalow e li fredda senza pietà, spingendo poi i corpi nel lago che, vista la stagione, sta per ghiacciarsi. Liberatosi dalla rabbia che lo attanagliava, il medico torna in città e si reca subito al caffè Onder de Linden per giocare al suo tanto amato biliardo. La sera, rientrato a casa, Kuperus decide di possedere Neel, la giovane procace e volitiva cameriera che ha a servizio. Da tempo sogna il suo corpo, ma prima di uccidere la moglie e il suo amante mai avrebbe osato sfiorarla.

Il medico, il giorno dopo, denuncia candidamente la scomparsa della moglie e l’intera cittadina, venuta a conoscenza ance dell’improvviso allontanamento di Shutter, subito pensa a una classica e clandestina fuga d’amore. Kuperus, così, viene considerato da tutti una vittima e il suo ruolo sociale acquista più prestigio fino ad essere nominato il nuovo presidente dell’Accademia del Biliardo, data la latitanza del conte che si è reso, inoltre, colpevole di aver creato uno scandalo che difficilmente Sneek potrà dimenticare.

Ma quando, con la primavera, il ghiaccio libera i corpi dei due amanti, anche senza prove inappellabili, la comunità comprende che dietro al duplice omicidio c’è lui, che oltretutto non nasconde affatto la relazione con la sua cameriera. Per questo, da quelli che una volta erano i suoi più “cari amici” e che sono al tempo stesso i notabili più prestigiosi della zona, riceve il “caloroso” invito a lasciare la cittadina e permettere a tutti di dimenticare il più in fretta possibile la tragica e scandalosa vicenda.

Ma il medico, ormai in preda a un vero e proprio delirio emotivo, non vuole lasciare la sua casa e il suo studio, anche se ormai la sala d’aspetto è deserta. Per molti suoi concittadini, infatti, Kuperus oltre ad essere un assassino, ha la grave colpa di non comportarsi secondo le regole sociali e morali…

Il maestro Simenon ci regala una morbosa, carnale e claustrofobica discesa agli inferi di un uomo, educato e cresciuto nell’assoluto rispetto delle regole sociali, che non riesce a concepire chi, come sua moglie ed il suo amante, non lo fa e per questo li uccide.

Ma il diventare un assassino e, soprattutto, essere riconosciuto come tale da tutti per Kuperus è insostenibile proprio per lo stesso motivo, tanto da compromettere inesorabilmente la sua esistenza. Un romanzo tagliente e spietato, come il più becero e ottuso perbenismo.

Scritto nel 1935 e pubblicato per la prima volta nel 1937, “L’assassino” è drammaticamente attuale come il suo intramontabile e immortale autore.

“Il telefono del signor Harrigan” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2020)

Craig oggi è un uomo, ma ci racconta l’incontro che gli ha cambiato la vita quando a nove anni viveva in una cittadina della provincia americana, come ce ne sono molte. Il nuovo millennio era iniziato da poco quando il ricco e solitario padrone della grande casa in cima alla via nella quale abitava assieme al padre, gli chiese di leggere per lui dietro un piccolo compenso.

Il signor Harrigan, questo era il suo nome, alla soglia dei settant’anni soffriva di una grave forma di artrosi e così provava dolore nel tenere in mano anche solo un libro. Nell’austera dimora, Harrigan non aveva il televisore, ma solo una vecchia radio per ascoltare la sua amata musica country. Ma ogni giorno leggeva puntualmente tutti i giornali economici del Paese che gli venivano recapitati per posta, perché Harrigan era stato uno dei più scaltri e spietati affaristi di Wall Street.

Quando a Craig, per i suoi 11 anni, il padre gli regalò un tanto atteso Iphone, il primo della lunga serie della casa di Cupertino, il ragazzino non vide l’ora di mostrarlo fiero ad Harrigan che però ne rimase perplesso. Nonostante ciò, quando Craig vinse un piccola somma con il gratta e vinci che regolarmente gli regalava Harrigan, decise di regalare un Iphone proprio al suo datore di lavoro.

L’anziano osservò perplesso quello strano telefono e quando capì che ci avrebbe potuto consultare i valori della Borsa in tempo reale, così come tutte el notizie del pianeta, la sua espressione divenne seria e indecifrabile. Confidò a Craig che quel piccolo elettrodomestico, come lo chiamava lui, aveva un potere enorme che sarebbe potuto anche sconfinare, se usato con dolo, nella manipolazione e nella coercizione due cose che, suo malgrado, l’anziano conosceva bene.

Quando Harrigan, poco dopo, morì per un infarto, Craig scoprì con grande sorpresa che l’anziano gli aveva lasciato un generoso fondo finanziario per completare i suoi studi senza problemi. Durante il funerale Craig comprese di dover affrontare una grave perdita, in parte simile a quella di sua madre avvenuta molti anni prima. Forse per questo, in un gesto irrazionale, sistemò nella tasca della giacca della salma del signor Harrigan il cellulare che gli aveva regalato, acceso.

Qualche tempo dopo, a scuola, Craig venne pesantemente e ripetutamente bullizzato da un ragazzo più grande e, tornato a casa, per sfogarsi telefonò al signor Harrigan lascindogli un messaggio. Incredibilmente il telefono era ancora carico e perfettamente funzionante, nonostante fosse seppellito insieme al suo padrone da molto tempo.

La mattina dopo Craig scoprì che il bullo era morto in maniera misteriosa e assai violenta…

Ottimo e duro racconto nel quale il Re ci parla schiettamente degli immensi pericoli della comunicazione totale e planetaria che i cellulari consentono, a discapito della nostra privacy, della nostra emotività e, soprattutto, della nostra intelligenza.

“Il telefono del signor Harrigan” è il primo dei quattro racconti della raccolta “Se scorre il sangue” pubblicato dal Re nel 2020. Nel 2022 John Lee Hancock dirige “Mr. Harrigan’s Phone”, l’ottimo adattamento cinematografico con Donald Sutherland nei panni dell’inquietante signor Harrigan.

“Orion e il buio” di Sean Charmatz

(USA/Francia, 2024)

Tratto dal libro illustrato “Orion and the Dark” firmato da Emma Yarlett e pubblicato nel 2014, questo sfizioso film d’animazione ci parla dell’atavica paura del buoi che tutti gli essere umani, prima o poi, hanno almeno una volta provato nella loro esistenza.

E’ fondamentale sottolineare come la sceneggiatura è stata firmata da Charlie Kaufman, visionario e geniale scrittore di Hollywood, che ha al suo attivo script di film come “Se mi lasci ti cancello” di Michel Gondry o “Essere John Malkovich” di Spike Jonze o il romanzo “Formichità“.

Perché il viaggio nelle sue paure che compie il piccolo Orion – ed assieme a lui noi spettatori – è fantastico ma anche spiazzante e affatto lineare, proprio nella maniera che ama Kaufman. Perché una notte, stanco di essere biasimato e insultato il Buio, proprio lui, si ferma nella stanza di Orion che, terrorizzato, si appresta a passare l’ennesima notte insonne in preda alle sue innumerevoli paure, su cui svetta quella per l’oscurità.

E così il Buio gli propone di seguirlo per 24 ore e assistere a tutte le cose belle che compie nel suo infinito giro intorno al mondo, lasciandosi sempre la luce alle spalle. Ma Orion, che accetta quasi a forza, non è un bambino qualsiasi, e così i suoi dubbi e le sue angosce rischieranno di influenzare anche il Buio e i suoi antichi collaboratori…

Sfiziosa e divertente commedia d’animazione che ci parla del bene e del male, e di come sia importante conoscere ed accettare i propri limiti, e di come nella vita siano importanti le cose belle e quelle meno belle, che hanno il fondamentale compito di ricordarci quanto siano importanti le prime.

“Gli ordini sono ordini” di Franco Giraldi

(Italia/Francia, 1972)

Tratto dall’omonimo racconto di Alberto Moravia, questo film ci racconta la storia di una donna italiana che, come tante, è ingabbiata nel suo matrimonio patriarcale.

Giorgia (Monica Vitti) è “felicemente” sposata con Amedeo (Orazio Orlando), direttore di banca. Hanno una bella casa e una routine ben stabilita dove lui esce di casa per andare in banca, e lei si occupa della casa, per poi accudirlo quando torna la sera.

Tutta l’esistenza della donna ruota intorno ai bisogni, anche quelli più banali, del marito ma lei, apparentemente, non sembra soffrirne. Un giorno, però, nella testa di Giorgia risuona una voce maschile decisa e al tempo stesso suadente, che le ordina di compiere degli atti impensabili per lei, come prendere l’auto e fermarsi sulla spiaggia per fare l’amore con un ragazzo che sta ridipingendo le cabine di uno stabilimento balneare.

Sconvolta, Giorgia torna a casa e racconta tutto a Amedeo, che però non le crede. La voce torna insistente nella sua testa e la costringe a lasciare la tanto “amata” casa. La donna torna così della madre, una delle sensali più famose della zona, che le ricorda però l’importanza del matrimonio: senza il quale una donna non ha di fatto alcuna rilevanza sociale.

Rassegnata, la donna si allontana e, mentre vaga incerta, incontra Nancy (Claudine Auger) una studiosa di tradizioni vocali che gira la regione registrando canzoni, poesie e filastrocche tradizionali. Le due decidono di convivere e Giorgia diviene la sua assistente. Casualmente le due assistono ad una performance pubblica dell’artista Mario Pasini (Gigi Proietti) di cui subito Giorgia si innamora.

La donna decide così di convivere con l’artista. Se il primo periodo sembra idilliaco, lentamente però lei si ritrova in un meccanismo sentimentale e materiale del tutto simile a quello che aveva con Amedeo, e così quella vocina torna a farsi sentire…

Bisogna riconoscere che, nonostante il grande cast artistico e gli autori della sceneggiatura che sono nientemeno che Tonino Guerra e Ruggero Maccari, questa pellicola ha dei limiti strutturali che la rendono meno graffiante e pungente di quello che avrebbe potuto essere.

Ma è giusto ricordarla perché, oltre cinquant’anni fa, quando il nostro Paese aveva appena introdotto la legge sul Divorzio (1970) la nostra società e, soprattutto la maggior parte delle donne italiane, non erano preparate. Perché dopo secoli di educazione patriarcale, poche sapevano esattamente affermare le proprie esigenze e i propri diritti, pubblici e privati.

Così, rivedendo questo film, apprezziamo sempre di più quel “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi che ci racconta una storia che sembra lontana nel tempo, ma che in realtà non lo è. Nonostante una regia e una trama un pò troppo legate al momento storico in cui venne realizzato, “Gli ordini sono ordini” rimane un originale e prezioso documento storico dell’evoluzione e dei cambiamenti del nostro Paese.

Nel cast anche Corrado Pani, nella parte di un malvivente che accetta di dare un passaggio a Giorgia.

“Benny & Joon” di Jeremiah S. Chechik

(USA, 1993)

Questa pellicola, apparsa sul grande schermo agli inizi degli anni Novanta, è divenuta nel corso del tempo una delle più rappresentative del giovane cinema americano di quel decennio.

E questo non solo perché alcuni dei suoi protagonisti, a partire da Johnny Depp, sono diventati vere e proprie star di Hollywood – come anche Julianne Moore – ma perché parla con sincerità e lucidità della generazione che quel decennio lo stava affrontando da poco più che adulta.

Inoltre, mi è già capitato di sottolineare come nel mondo anglosassone, e soprattutto nella cultura degli Stati Uniti, parlare di disabilità sia molto più semplice e onesto, rispetto che nella nostra, dove è difficile per qualcuno evitare compassione o pietà, che spesso nascondono poi ignoranza e pregiudizi.

Così, questa pellicola, ci parla senza ipocrisie dell’autismo e delle sue problematiche nella vita quotidiana di una ragazza di vent’anni.

In una piccola cittadina nella provincia degli Stati Uniti vivono Benny (Aidan Quinn) e Joon (Mary Stuart Masterson) Pearl. Abitano da soli in una grande casa sul fiume, perché poco più di dieci anni prima i loro genitori sono morti in un incidente automobilistico.

Benny è il proprietario di un’officina e la sua vita consiste, soprattutto, nel lavorare e badare a sua sorella minore Joon, che è afflitta dai disturbi dello spettro autistico. Col passare del tempo Benny ha sacrificato tutta la sua vita personale per la sorella, ma lo sente come un dovere irrinunciabile che i suoi genitori idealmente gli hanno lasciato.

Uno dei pochi svaghi del ragazzo è la partita settimanale a poker con gli amici, fra cui spicca Eric (Oliver Platt) il suo aiutante in officina. Le partite però non si giocano a soldi, ma a beni che ogni giocatore è pronto a scommettere. Proprio durante una di queste Joon, approfittando dell’assenza temporanea del fratello, decide di giocare una mano alla fine della quale vince la posta in gioco: Sam (Johnny Depp) il cugino “strambo” di Mike (Joe Grifasi), uno degli amici del fratello.

Benny è così costretto a portarsi a casa il ragazzo che, col passare del tempo, allaccerà con Joon un rapporto sempre più profondo. Intanto, nel locale dove va a fare colazione, Benny incontra Ruthie (Julianne Moore) un ex attrice di film dell’orrore che ha abbandonato i suoi sogni di gloria per fare la cameriera e la portinaia…

Commedia originale che ci regala dei veri momenti di poesia, soprattutto grazie all’interpretazione di Depp che cita e richiama le gag più famose di grandi artisti come Charlie Chaplin e Buster Keaton. Scritto da Lesley McNeil e Barry Berman, “Benny & Joon” ci ricorda quanto le piccole cose della vita siano fondamentali come le grandi, e che l’amore, la tolleranza e la fiducia sono le cose che ci permettono di consumare un’esistenza degna di questo nome.

“Povere creature!” di Yorgos Lanthimos

(USA/UK/Irlanda, 2023)

Nel 1992 lo scozzese Alasdair Gray (1934-2019) pubblica il romanzo surreale e gotico “Poor Things”, che nel nostro Paese viene pubblicato prima col titolo “Poveracci!” e successivamente con quello “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra”.

Il regista greco Yorgo Lanthimos (già autore di pellicole caustiche e assai originali come “The Lobster” del 2015 e “La favorita” del 2018) ne dirige l’adattamento cinematografico con la sceneggiatura scritta da Tony McNamara, autore di fiducia dello stesso regista nonché coautore dello script di “Crudelia“.

Nei primi anni del Novecento, il dottor Godwin “God” Baxter (un davvero bravo Willem Dafoe) è uno dei più rinomati scienziati e chirurghi di Londra. Oltre ad insegnare all’Università, Baxter ha un laboratorio e una funzionale ed efficiente camera operatoria nella sua residenza privata.

Sul suo corpo e sul suo viso, Baxter, porta le terribili cicatrici degli esperimenti che suo padre, anche lui medico chirurgo e scienziato rinomato, gli fece sin dalla tenera età per portare a termine i propri esperimenti nel nome della ricerca.

Godwin Baxter ama incondizionatamente la scienza e così, per sviluppare i suoi studi, accetta in casa i corpi di sconosciuti appena morti che, in cambio di qualche sterlina, ogni tanto qualcuno senza scrupoli gli porta.

E proprio su quello di una giovane donna in stato interessante, che si è buttata nel Tamigi poche ore prima, compie un esperimento senza precedenti. Nel corpo della suicida inserisce il cervello del suo feto. L’intervento riesce e così per casa Baxter si aggira la giovane donna, con la mente e la coscienza di un neonato, che lui decide di chiamare Bella (una bravissima Emma Stone).

Come aiutante personale Baxter sceglie il suo studente Max McCandles (Ramy Youssef) dandogli il compito di seguire e annotare attentamente ogni progresso della ragazza. Quando Bella, però, scopre il sesso attraverso la masturbazione, le cose per McCandles si complicano. Il giovane studente, infatti, non riesce più a mantenere quel distacco necessario all’analisi scientifica.

Godwin Baxter ha un’idea: far sposare i due e farli vivere nella sua grande magione, impedendo così alla ragazza definitivamente di allontanarsi. Per stilare il contratto matrimoniale fra lui e il suo studente, Baxter chiama il legale Duncan Wedderburn (un ottimo Mark Ruffalo). Il nuovo venuto, impenitente libertino, compresa la particolare situazione di Bella, la esorta a fuggire con lui a Lisbona.

Bella accetta entusiasta e alla fine anche lo stesso Godwin non può che darle il suo benestare. I due amanti così arrivano in Portogallo dove esplorano ogni angolo dei loro corpi. Ma Bella, oltre al sesso, ama la conoscenza e così, mentre Duncan riposa esausto, lei vaga per Lisbona dove la sua mente giovane e fresca si espande.

La cosa, però, inizia a creare delle profonde gelosie in Duncan, scapolo impenitente e donnaiolo con sulla coscienza non poche giovani donna “traviate”. E col passare del tempo e delle esperienze la libertà di Bella diventa insostenibile per Duncan, che alla fine la costringe a seguirlo su una lunga crociera nel Mediterraneo, dove lei “finalmente”, non potrà più allontanarsi.

Sulla nave la ragazza conosce Martha von Kurtzroc (Hanna Schygulla) e Harry Astley (Jerrod Carmichael) che contribuiranno ad aprirle ancora di più gli orizzonti mentali ed emotivi. Anche per questo, la ragazza donerà tutti i soldi di Duncan ai poveri, cosa che li costringerà ad essere sbarcati come clandestini a Marsiglia.

Raggiunta faticosamente Parigi, Bella inizierà a lavorare in un bordello per mantenersi e per comprendere ancora di più l’umanità, mentre Duncan, ferito nell’orgoglio, passerà definitivamente da attraente e fatale playboy a patetico e meschino innamorato rifiutato. Ma un giorno arriva a Bella la lettera di Goodwin in fin di vita…

Cattivissima e originale pellicola gotica che ci parla in maniera diretta e senza sconti, nella tradizione del suo regista, della situazione della donna nella società contemporanea. Anche se la storia è ambientata oltre un secolo fa, Bella deve continuamente subire, come accade fin troppo spesso ancora oggi, le scelte degli uomini e delle donne che aderiscono al più feroce patriarcato, lei che vuole più di ogni altra cosa la conoscenza.

E alla fine appariranno addirittura meno meschini quelli che la pagheranno per avere il suo corpo rispetto a quelli che dicono di amarla, ma che in realtà vogliono solo controllarla e possederla, perché la cosa che li terrorizza di più, senza dubbio, è una donna libera moralmente.

Personalmente reputo molto più efficace e segnate, soprattutto in relazione alla discriminazione di genere, questa pellicola surreale e claustrofobica – grazie anche all’ottima regia – rispetto alla tanto osannata “Barbie” che trovo, invece, molto più superficiale e furbetta.

Il film vince il Leone d’Oro alla Festa del Cinema di Venezia 2023, incassa 11 candidature agli Oscar e 7 ai Golden Globe, premio che Emma Stone conquista assieme a numerosi altri in tutto il mondo.

Da vedere.

“Formichità” di Charlie Kaufman

(Einaudi, 2023)

B. Rosenberger Rosenberg è un affilato e saccente critico cinematografico di New York. Alla soglia dei sessant’anni, ha un invidiato rapporto amoroso con una delle giovani attrici afroamericane più affascinanti del momento, che molti gli invidiano.

Questo nonostante, per sua stessa ammissione, non abbia un aspetto così attraente visto che non ha più capelli sulla cima della testa ma, in compenso, una folta barba che gli copre una voglia color vino sulla faccia.

B.R.R. ha un matrimonio fallito alle spalle dal quale è nata la sua unica figlia, con la quale ha un pessimo rapporto. La cosa lui la imputa soprattutto alla giovane, che non fa altro che rimproveragli la sua grave latitanza come genitore, soprattutto nei momenti più delicati della sua infanzia e della sua adolescenza. Adesso poi che la donna vuole diventare una regista, le cose si stanno ancor di più complicando.

Ma B.R.R. ha il suo cinema e soprattutto il suo lavoro, e cioè la missione di spiegare con la pazienza e la tolleranza di un buon padre di famiglia ai comuni mortali il vero significato di un film. Per questo il suo sogno è quello di scovare nel posto più improbabile della Terra una pellicola sconosciuta ma geniale e catartica, tanto da rendere lui – come scopritore e primo vero e assoluto spettatore – immortale.

Per scrivere un pezzo che il giornale per quale lavora gli ha chiesto B.R.R. si reca in Florida e lì, casualmente, si trova come vicino di appartamento Ingo Cutbirth, un anziano afroamericano che ha girato un lunghissimo film in stop motion, al momento inedito, che vorrebbe fargli vedere. B.R.R. scostante, dopo numerose insistenze, alla fine accetta ma solo per pochi minuti. Quando però partono i primi fotogrammi il critico rimane folgorato: eccolo finalmente il film geniale e unico che da sempre stava cercando.

Accetta così di vederlo tutto, nonostante la versione integrale duri …tre mesi, alla fine dei quali Cutbirth muore. B.R.R. si sente così l’unico vero erede materiale e morale della pellicola e, dopo aver preso le numerose pizze del film, parte per tornare a New York dove urlerà ai quattro venti la sua memorabile scoperta. Ma sulla strada, durante una sosta, il furgone sul quale è conservato il film prende fuoco…

Charlie Kaufman (classe 1958) è lo sceneggiatore di pellicole come “Se mi lasci ti cancello” di Michel Gondry o “Essere John Malkovich” di Spike Jonze. La sua narrazione è apparentemente cervellotica e senza un inizio e una fine, ma andando avanti nel racconto – così come nei suoi film – le emozioni e le atmosfere iniziano lentamente a prendere senso.

Inoltre questo romanzo, il cui protagonista è un critico cinematografico – ossessionato dal politically correct – che vede i film almeno sette volte prima di giudicarli – compresa l’ultima alla rovescia – Kaufman fa un’efficace metafora del racconto cinematografico nella sua essenza e, soprattutto, nella sua profonda irrealtà.

Kaufman firma così un romanzo sfizioso e originale, che ha solo un difetto: essere davvero fin troppo autoreferenziale.

“Everything Everywhere all at Once” di Daniel Kwan e Daniel Scheinert

(USA, 2022)

Il rapporto fra genitori e figli, raramente, è sempre sereno. Se i figli, per loro natura, a partire dall’adolescenza stentano a capire i propri genitori, anche questi hanno serie difficoltà nel comprendere i loro bambini che stanno diventando adulti.

Su questo ancestrale conflitto generazionale si è detto e raccontato tanto nel corso del tempo, e così diventa sempre più difficile farlo senza rischierare di essere noiosi o ripetitivi. Ma Daniel Kwan e Daniel Scheinert ci sono riusciti, scrivendo prima e dirigendo poi una pellicola straordinaria, onirica e surreale.

Evelyn Quan Wang (Michelle Yeoh) è emigrata dalla Repubblica Popolare Cinese negli Stati Uniti per cercare una vita migliore. A convincerla è stato, anni prima, il suo giovane fidanzato e ora marito Waymond (Ke Huy Quan, che da piccolo ha partecipato alle pellicole cult “Indiana Jones e il tempio maledetto” e “I Goonies“) col quale ha avviato una lavanderia a gettoni.

La loro figlia adolescente Joy (Stephanie Hsu) da tempo ormai sta cercando di confessarle la propria omosessualità e, sopratutto, che la sua “migliore amica” Becky è in realtà la sua compagna. Ma Evelyn certe cose proprio non le vuole vedere, visto poi che suo padre Gong Gong (James Hong, storico comprimario della TV americana e di Hollywood, che ha partecipato, tra le altre cose, al mitico “Grosso guaio a Chinatown“) che era contrario alla sua fuga d’amore con Waymond, sta arrivando per una tanto attesa visita di cortesia da Hong Kong.

Ma non basta: l’Internal Revenue Service – paragonabile in tutto e per tutto alla nostra Agenzia delle Entrate – attraverso gli occhi glaciali e implacabili della sua integerrima ispettrice Deirdre Beaubeirdre (una bravissima e cattivissima Jamie Lee Curtis) sta eseguendo un controllo fiscale nel quale sono emerse alcune gravi irregolarità. Irregolarità che però Evelyn proprio non condivide visto che non riesce a comprenderle.

Le cose che le contesta Beaubeirdre non sembrano aver senso, fatto che la indispone profondamente, visto che lei deve aver sempre tutto ben chiaro e sotto controllo. Forse per questo Waymond ha preparato le carte per divorziare, carte che però stenta a mostrale. Ma, proprio quando l’ispettrice sembra concedere l’ennesima proroga, il mondo di Evelyn si spacca in infiniti multiversi, tutti messi in pericolo dal terribile Jobu Tupaki…

Scintillante e frenetica pellicola visionaria che ci ricorda quanto siano importanti gli affetti cari e sinceri, e come i genitori – anche con sforzi al limite dell’umano – dovrebbero diventare quegli archi dai quali scoccare le frecce che sono i loro figli, come diceva nel suo splendido “Il profeta” Khalil Gibram. Farlo, però, può diventare l’avventura più devastante e massacrante di tutte, ma al tempo stesso anche la più incredibile e indimenticabile della propria esistenza.

Fra i numerosi premi che questo film indipendente ha vinto il tutto il mondo – quasi 400… – ci sono anche 7 Oscar – su 11 candidature – fra cui miglior film, miglior sceneggiatura, miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh, miglior attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis, e miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan.

Da vedere, sia da figli che da genitori.

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“Il pupazzo di neve” di Dianne Jackson e Jimmy T. Murakami

(UK, 1982)

Nel novembre del 1978 l’artista Raymond Briggs (1934-2022) pubblica lo splendido tomo illustrato “The Snowman” (che da noi viene tradotto “Il pupazzo di neve”). Il volume è privo di dialoghi, ma racconta superbamente l’avventura natalizia di un ragazzino e del suo pupazzo fatto con la neve del proprio giardino.

All’inizio il libro viene etichettato come “per bambini”, ma il successo clamoroso obbliga il pubblico – e soprattutto i famigerati “addetti ai lavori” – a riconoscerlo come un vero e proprio racconto di Natale per tutte le generazioni, anche quelle future, visto che Briggs realizza di fatto uno dei primi veri e propri graphic novel dell’era contemporanea.

Proprio grazie al grande successo del libro, che supera i confini della Gran Bretagna per approdare in tutto il mondo, l’emittente televisiva Chanel 4 decide di realizzare un cortometraggio con la sceneggiatura redatta dallo stesso Briggs.

Lo script e i disegni dell’artista inglese diventano 26 minuti di vera e propria poesia che tocca le corde più profonde e personali di tutti gli spettatori, non solo quelli più piccoli. La sincera amicizia fa il piccolo James e il suo pupazzo di neve, che la notte di Natale lo porta a conoscere Father Christmas, è di quelle difficili da dimenticare.

Per la magia che suscita ancora oggi questo corto rimane nella storia delle arti visive. Briggs, Dianne Jackson e Jimmy T. Murakami, infatti, realizzano un’opera – che non ha dialoghi se non la breve introduzione iniziale e il brano “Walking in the Air” scritto da Howard Blake e interpretato da Peter Auty – che suscita ancora oggi emozioni e meraviglia del tutto paragonabili, ad esempio, alle opere del maestro Hayao Miyazaki.

L’accoglienza del pubblico è così calda che sin dalla sua prima messa in onda “Il pupazzo di neve” è diventato uno degli appuntamenti fissi più attesi delle festività natalizie in Gran Bretagna. Nell’edizione originale a narrare la breve introduzione è lo stesso Briggs, mentre in quella successiva la voce è del grande David Bowie.

Nel 2012, in occasione del 30esimo anniversario della prima messa in onda, Chanel 4 produce e trasmette il cortometraggio “The Snowman and the Snowdog” diretto da Hilary Adus, godibilissimo sequel all’altezza dell’originale.

Per gli amanti delle opere di Briggs, anche ne “Il pupazzo di neve” si possono cogliere alcuni deliziosi cenni autobiografici, così come nel volume “Quando soffia il vento” e nello splendido lungometraggio animato “Ethel & Ernest – Una storia vera”, entrambi ispirati e dedicati ai suoi genitori.

Da vedere.

Il pupazzo di neve

“Il ragazzo e l’airone” di Hayao Miyazaki

(Giappone, 2023)

Tornano al cinema, dopo oltre in decennio, il maestro Hayao Miyazaki e la sua arte con un nuovo ed inedito lungometraggio animato.

Le genesi di questo film è stata molto lunga e travagliata – ci si è messa anche la pandemia, per esempio – ma il genio giapponese alla fine è riuscito a regalarci un’altra storia fantastica ed indimenticabile, piena di sublimi citazioni e auto citazioni che mandano in estasi gli amanti dello Studio Ghibli, come me.

Il maestro Miyazaki, a cui la produzione – a cui ha partecipato anche lo Studio Ponoc – non ha messo alcun vincolo di tempo o di trama – rendendo questa pellicola di fatto una delle più costose del cinema giapponese – scrive e dirige una storia che ha accenni autobiografici ambientata in un periodo ricorrente per il regista: la Seconda Guerra Mondiale, che per il Giappone, più che per altri paesi, ha segnato un momento tragico devastante e sanguinario.

Tokyo 1943, il piccolo Mahito – che nei tratti e nell’abbigliamento ricorda molto Seita, il protagonista dello struggente “La tomba delle lucciole” diretto nel 1988 da Yasao Takahata, stretto e storico collaboratore di Miyazaki – viene svegliato nella notte dalle sirene che urlano a causa del grande incendio che sta divorando l’ospedale dove è ricoverata sua madre.

Nonostante i soccorsi e la corsa disperata del padre Shoichi e dello stesso Mahito, la donna muore arsa dalle fiamme, così come molti altri pazienti. L’anno successivo, insieme a suo padre noto ingegnere aeronautico, Mahito si trasferisce nell’antica tenuta di campagna della famiglia di sua madre, non lontana dalla fabbrica che Shoichi ha iniziato a dirigere.

Nella tenuta ad attenderli c’è Natsuko, la sorella di sua madre che ora è la nuova consorte di Shoichi e da lui aspetta un bambino. Mahito, che non ha minimamente superato la morte della madre e il senso di colpa nel non essere riuscito a salvarla, stenta ad ambientarsi fino a quando non scopre un’antica torre costruita dal pro zio della madre.

Le persone di servizio presso la residenza gli raccontato che quello strano edificio è stato costruito intorno ad un misterioso meteorite caduto dal cielo. Molti anni prima una ragazza era scomparsa nei suoi pressi ed era tornata solo l’anno successivo, in perfetta salute e apparentemente non invecchiata di un giorno. Per questo gli accessi alla torre sono stati tutti murati. Ma uno strano e aggressivo airone cenerino inizia a inseguire Mahito, attirandolo proprio in quella torre misteriosa…

Ancora una volta Miyazaki ci regala 124 minuti di vera struggente e memorabile poesia in movimento, con una storia di formazione dolorosa ma allo tempo stesso splendente. I riferimenti alla sua cinematografia come alla letteratura sono numerosi e bellissimi; possiamo goderci, infatti, quelli a Dante, così come quelli dichiarati al romanzo “E voi come vivrete?”, scritto da Genzaburō Yoshino nel 1937, e ispirazione primaria per la stesura dello script del film.

Fantastici, come sempre, anche quelli visivi a partire dal quadro “L’isola dei morti” che l’artista svizzero Arnold Böcklin realizzò a partire dal 1880. E proprio nel quadro di Böcklin, Miyazaki ambienta un nodo narrativo cruciale, che connota alla pellicola un’atmosfera cupa, sia per l’ombra sempre più opprimente della Seconda Guerra Mondiale – che direttamente però non appare mai – sia per il lutto che rappresenta l’abbandono definitivo dell’infanzia, lutto che avviene per l’inesorabile passare del tempo o per la perdita di un affetto caro, come nel caso di Mahito.

Chi ama il cinema, l’arte e la fantasia non può non vedere questa nuova pellicola del genio giapponese, che rende il nostro mondo – che sta vivendo un momento storico particolarmente tragico e drammatico, tanto e troppo simile al periodo narrato – meno duro e più sopportabile.