La Foglia d’Acanto: un podcast per chi ama libri, film e serie tv senza spoiler!

In primo piano

“La Foglia d’Acanto”, è il podcast che nasce dall’amore – o forse sarebbe meglio dire, dall’ossessione… – per le storie. Che siano scritte su carta, proiettate su un grande schermo o diluite in più puntate da divorare sul divano, io le vivo sempre con un occhio attento e, non lo nascondiamo, anche con un pizzico di ironia.

Dopo aver trascorso anni a scrivere recensioni per questo blog, ho deciso di portare questa passione anche in formato audio, per permettervi di ascoltare le mie riflessioni mentre andate al lavoro, preparate la cena o semplicemente cercate un po’ di compagnia durante le giornate frenetiche. In ogni episodio parlerò di libri che meritano di essere letti (e, a volte, ma molto più raramente di quelli che avrei dovuto evitare), di film che lasciano un segno (e di quelli che sarebbe meglio non vedere mai) e di serie tv che creano dipendenza (o che, talvolta, ci fanno pentire di aver acceso il televisore).

Il titolo, La Foglia d’Acanto, richiama una pianta che da sempre simboleggia l’arte e la creatività, ma è anche una metafora di quelle storie che nascono da una semplice idea, per poi crescere e avvolgerci come una pianta, anche quando meno ce lo aspettiamo. In questo podcast, però, ci sarà sempre spazio per l’ironia, perché sono convinto che il modo migliore per parlare di cultura sia farlo sempre con passione, ma anche con leggerezza.

Quindi, se siete alla ricerca di consigli, di spunti o semplicemente di un po’ di sano intrattenimento, La Foglia d’Acanto è il posto giusto. Sedetevi, rilassatevi e lasciatevi trasportare da recensioni, riflessioni e qualche battuta qua e là. Prometto che non vi annoierete.

Lo potete trovare gratuitamente su Spotify, Amazon Music e YouTube.

Buon ascolto,
Valerio

“Sperandina”

In primo piano

Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.

A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.

Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.

Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.

Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.

Guarda il booktrailer di SPERANDINA

Acquista SPERANDINA

“Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton

(USA, 2011)

Ci sono film che riescono a toccare corde profonde con una delicatezza disarmante, e “Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton (1965-2020) è uno di questi. Questo gioiellino indipendente, infatti, dimostra come la semplicità possa essere il veicolo ideale per esplorare le complessità delle relazioni umane, attraverso una narrazione intima e autentica.

La storia ruota attorno a Jack (Mark Duplass), un uomo ancora devastato dalla recente morte del fratello. La sua migliore amica, Iris (Emily Blunt), lo convince a prendersi una pausa dalla vita quotidiana, invitandolo a trascorrere qualche giorno di isolamento nella casa di famiglia su un’isola del Pacifico nord-occidentale. Quello che dovrebbe essere un rifugio tranquillo si trasforma in qualcosa di molto diverso quando Jack scopre che la casa è già occupata dalla sorella di Iris, Hannah (Rosemarie DeWitt), che si sta riprendendo dalla fine di una lunga relazione.

L’incontro tra Jack e Hannah dà il via a una serie di eventi imprevedibili che coinvolgono segreti, rivelazioni e dinamiche familiari complesse. Il film si snoda tra momenti di intenso dramma e situazioni di sottile umorismo, mantenendo sempre una tonalità sincera e profondamente umana. Shelton, che ha anche scritto la sceneggiatura, riesce a creare personaggi incredibilmente realistici, con dialoghi che sembrano emergere spontaneamente, come conversazioni reali tra persone che conosciamo da sempre.

Uno degli aspetti più affascinanti di “Your Sister’s Sister” è la sua capacità di esplorare le sfumature dell’intimità e del legame fraterno. La relazione tra Iris e Hannah è centrale al film, e l’alchimia tra Emily Blunt e Rosemarie DeWitt è palpabile, rendendo credibile ogni interazione. La loro dinamica è complicata, a tratti conflittuale, ma sempre intrisa di un profondo affetto, che risuona con una verità universale.

Mark Duplass, con la sua interpretazione naturale e non forzata, incarna perfettamente l’antieroe moderno: imperfetto, vulnerabile e, in fin dei conti, straordinariamente umano. Jack è un personaggio con cui è facile identificarsi, qualcuno che lotta con il dolore e la confusione, ma che trova anche momenti di leggerezza e conforto nelle connessioni che stabilisce.

La regia di Shelton è discreta, quasi invisibile, lasciando che siano i personaggi e la storia a guidare l’esperienza dello spettatore. Il film è stato girato con un budget modesto e con un approccio quasi documentaristico, il che contribuisce a creare un’atmosfera intima e immediata. I paesaggi dell’isola, fotografati con una luce naturale, aggiungono un ulteriore strato di bellezza e isolamento, rispecchiando lo stato d’animo dei personaggi.

“Your Sister’s Sister” è un film che non ha bisogno di grandi colpi di scena o di effetti speciali per catturare l’attenzione. È una storia semplice ma profondamente risonante, che parla di dolore, amore, e del complicato groviglio di emozioni che spesso accompagna le nostre relazioni più strette. È un’opera che lascia spazio alla riflessione e che invita lo spettatore a confrontarsi con le proprie esperienze e i propri sentimenti.

In un’epoca in cui il cinema sembra spesso puntare su spettacoli grandiosi e trame complesse, “Your Sister’s Sister” ci ricorda che la forza di un film può risiedere nella sua semplicità e nella sua capacità di raccontare storie che toccano il cuore. Lynn Shelton, con la sua sensibilità unica, ha creato una pellicola che rimane impressa nella memoria, offrendo un’esperienza cinematografica tanto intima quanto universale. Una volta, anche la nostra cinematografia, era capace di sfornare pietre preziose a basso costo come questa.

Ascolta gratuitamente questa e altre recensioni su Spotify Amazon MusicYouTube.

“Harper” di Jack Smight

(USA, 1966)

Il 1966 ha regalato agli amanti del cinema noir un piccolo gioiello intitolato Harper, un film diretto con mano sapiente da Jack Smight e reso indimenticabile dalla straordinaria interpretazione di Paul Newman. In un’epoca in cui il cinema era popolato da eroi monolitici e investigatori dai metodi ortodossi, Harper emerge come un’opera che sfida le convenzioni del genere, portando sul grande schermo un detective dai tratti cinici, disillusi, ma anche incredibilmente affascinanti.

Il film è un adattamento del romanzo “The Moving Target” di Ross Macdonald, e vede Newman vestire i panni di Lew Harper, un investigatore privato che sembra uscito direttamente dalle pagine di Chandler o Hammett, ma con quel tocco di modernità che solo Newman poteva dare. Harper è un personaggio complesso, un uomo la cui vita personale è in rovina, ma che riesce a trovare un equilibrio instabile attraverso il suo lavoro, fatto di casi intricati e relazioni ambigue.

La trama segue Harper mentre indaga sulla scomparsa di un ricco magnate, un caso che lo porterà a confrontarsi con una Los Angeles decadente, piena di personaggi ambigui e situazioni al limite del legale. È qui che il talento di Smight emerge con prepotenza, riuscendo a creare un’atmosfera densa e opprimente, in cui ogni scena è intrisa di una tensione sottile ma persistente. La regia di Smight, pur non avendo il tocco autoriale dei più grandi, è funzionale e incisiva, capace di tenere lo spettatore costantemente sul filo del rasoio.

Ma il vero cuore pulsante di Harper è Paul Newman. Con la sua interpretazione, l’attore riesce a rendere il personaggio di Lew Harper non solo credibile, ma anche profondamente umano. Newman gioca con le sfumature, passando con naturalezza dal sarcasmo al dolore, dalla determinazione alla vulnerabilità. È una performance che cattura l’essenza stessa del detective noir: un uomo che non si ferma davanti a nulla, ma che è anche consapevole delle proprie fragilità.

Il cast di supporto non è da meno, con una brillante Lauren Bacall nel ruolo della moglie del magnate scomparso e un’ottima Janet Leigh che interpreta la moglie di Harper, una presenza costante che ci ricorda il lato più oscuro e malinconico della vita del protagonista.

Harper non è solo un film noir, ma anche un ritratto di un’epoca e di una città. La Los Angeles degli anni ’60 è rappresentata come una metropoli in cui il sogno americano sembra essersi infranto, lasciando spazio solo a illusioni e corruzione. Smight, attraverso la lente di Harper, ci mostra un mondo in cui il confine tra giusto e sbagliato è sempre più sfumato, e in cui i personaggi sono costretti a navigare in acque torbide, alla ricerca di una verità che, forse, non esiste.

In conclusione, Harper è un film che merita di essere riscoperto, non solo per la straordinaria interpretazione di Paul Newman, ma anche per la sua capacità di catturare lo spirito di un genere e di un’epoca. È un’opera che, nonostante i suoi quasi sessant’anni, riesce ancora a coinvolgere e a far riflettere, dimostrando come il noir, quando fatto con intelligenza e passione, possa ancora parlare al cuore e alla mente dello spettatore moderno.

Nel 1975 Stuart Rosenberg dirige il sequel “Detective Harper: acqua alla gola”, sempre tratto da un romanzo di Macdonald e sempre con un grande Paul Newman nei panni del protagonista.

Ascolta gratuitamente il podcast con questa e altre recensioni su SpotifyAmazon Music e YouTube.

“Miss Violence” di Alexandros Avranas

(Grecia, 2013)

Alcuni film riescono a sconvolgere lo spettatore non tanto per ciò che mostrano esplicitamente, ma per il mondo oscuro che lasciano intravedere dietro le apparenze. “Miss Violence”, diretto da Alexandros Avranas e presentato alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia, rientra a pieno titolo in questa categoria.

La pellicola si apre con una scena che toglie immediatamente il fiato: Angeliki, una ragazzina di undici anni, durante la sua festa di compleanno si getta dalla finestra di casa, con un sorriso ambiguo che segna l’inizio di una discesa negli abissi dell’animo umano. Da quel momento, Avranas costruisce un thriller psicologico cupo e soffocante, dove l’apparente normalità nasconde una realtà di abusi e violenze indicibili.

La forza del film sta nel suo impianto visivo e narrativo: Avranas sceglie di mantenere un approccio stilistico glaciale, quasi clinico. La casa dove si svolge gran parte della vicenda è immacolata, ordinata in maniera ossessiva, specchio di una famiglia che sembra, agli occhi del mondo, perfettamente in controllo. Ma proprio in questo controllo si annida il male, come il regista greco ci svela gradualmente con una regia fatta di inquadrature statiche e silenzi assordanti. Ogni sguardo, ogni gesto quotidiano è impregnato di tensione.

Il cast, guidato da un magistrale Themis Panou (che non a caso vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione), è perfetto nel rendere l’atmosfera malsana e opprimente che pervade il film. Panou interpreta il patriarca con un’aura di calma autorità che nasconde una violenza subdola e totalizzante. I membri della famiglia sembrano pedine in un gioco malato, costretti a obbedire a regole non dette, ma ferree.

“Miss Violence” non fa sconti e non lascia spazio a vie di fuga, né per i personaggi né per chi guarda. La violenza non è mai spettacolarizzata, ma permea ogni scena in modo quasi invisibile, insinuandosi sotto la pelle dello spettatore, fino a rivelare una realtà agghiacciante e dolorosamente plausibile.

La critica alla società greca è evidente, ma Avranas – che vince anche il Leone d’Argento per la sua regia – riesce a creare un racconto universale: in qualsiasi contesto culturale, dietro l’apparente perfezione di certe famiglie possono celarsi dinamiche di controllo e sottomissione che difficilmente riusciamo a immaginare.

Non è un film facile da affrontare, né da dimenticare. La sua narrazione asciutta, priva di facili spiegazioni, lascia aperte domande che continuano a tormentare a lungo: fino a che punto possiamo davvero conoscere chi ci sta accanto? E quanto possiamo ignorare prima di ammettere che il male, a volte, è proprio dove meno ce lo aspettiamo?

“Corte d’Assise” di Georges Simenon

(Adelphi, 2010)

Ci sono scrittori capaci di raccontare l’animo umano con una semplicità disarmante, e poi c’è Georges Simenon, che fa sembrare questa capacità quasi un gioco da ragazzi. Pubblicato per la prima volta nel 1941 – ma scritto nel 1937 e rifiutato molte volte perché tacciato di “assoluta immoralità” – “Corte d’assise” è uno di quei romanzi in cui l’autore, senza i soliti riflettori puntati su Maigret, si addentra nei territori più oscuri dell’animo umano, con una precisione chirurgica e un tocco di poesia che lascia il segno.

Il protagonista di questa tragedia umana è Louis Bert, detto Petit Louis, un uomo che sembra già condannato fin dal primo capitolo. Accusato dell’omicidio della sua amante Jeanne Ropiquet, Louis si ritrova in un’aula di tribunale, dove si gioca non solo il suo futuro, ma anche la comprensione di ciò che lo ha portato fin lì. Simenon ci guida attraverso il processo con una narrazione che va avanti e indietro nel tempo, mostrandoci la vita del protagonista come un film a pezzi, fatto di miseria, disperazione e scelte sbagliate.

Louis non è un mostro, non è un criminale spietato; è un uomo fragile, spezzato dalle circostanze, incapace di fuggire da una vita che sembra decisa per lui sin dalla nascita. È proprio in questo tratteggio psicologico che Simenon dà il meglio di sé. L’autore non ci offre la storia di un assassino da condannare o da assolvere, ma di un essere umano che cade, quasi inevitabilmente, nel vortice degli eventi.

Se vi aspettate una riflessione su giustizia e morale, siete nel posto giusto, ma sappiate che Simenon non è uno scrittore da soluzioni facili. In “Corte d’assise“, la giustizia non è mai bianca o nera e così, come nell'”Antigone” di Sofocle, la Legge si scontra inevitabilmente con la Morale. L’aula di tribunale diventa il teatro di una rappresentazione in cui le parti in causa — giuria, pubblico, giudici — non sono altro che attori in un gioco prestabilito. E noi lettori ci ritroviamo a osservare, con lo stesso senso di impotenza di Louis, il suo destino scivolare via.

Simenon non ci dice mai apertamente se Louis è colpevole o innocente, perché la colpa non è una questione di leggi scritte, ma di umanità. Le vite dei personaggi di Simenon non si possono spiegare con formule giuridiche: sono troppo complesse, troppo imperfette.

Come al solito, Simenon colpisce con la sua prosa asciutta e precisa. Ogni parola sembra scelta con cura maniacale, ogni dialogo affilato come una lama. Non c’è spazio per fronzoli o descrizioni inutili, perché ciò che conta è la tensione che cresce pagina dopo pagina, fino al climax inevitabile. E quella tensione è costante, palpabile, senza mai risultare forzata o esagerata.

L’atmosfera del romanzo è cupa e opprimente, tanto che sembra di sentire l’odore della polvere nell’aula di tribunale, di percepire il rumore dei passi degli avvocati, il fruscio dei documenti maneggiati dalla giuria. Non è solo un romanzo, è un’esperienza che ti avvolge e ti lascia un senso di disagio profondo, proprio come un buon Simenon dovrebbe fare.

Corte d’assise” non è tra i titoli più noti del prolifico autore belga, ma è uno di quei romanzi che una volta finiti ti rimangono attaccati addosso. Simenon ha il dono di farti riflettere sul destino e sulla fragilità della condizione umana, senza mai risultare moralista o didascalico. Se vi piacciono i romanzi che scavano nell’animo umano, che non hanno paura di mostrarvi le debolezze dei personaggi, allora questo libro è una tappa obbligata. Perché in fondo, come ci insegna Simenon, siamo tutti un po’ come Petit Louis: schiavi delle nostre scelte e vittime di un mondo che non ci capisce davvero.

E se vi aspettate un lieto fine, beh, state leggendo l’autore sbagliato.

Ascolta gratuitamente il podcast con questa e altre recensioni su Spotify, Amazon Music e YouTube.

“La ragazza del quartiere” di Robert Wise

(USA, 1962)

C’è una magia particolare nel cinema di Robert Wise, un equilibrio tra la profondità delle storie che racconta e la maestria con cui le mette in scena. “La ragazza del quartiere” – il cui titolo originale è “Two for the Seesaw”, dove Seesaw identifica l’altalena dei sentimenti di un rapporto irrisolto – con Robert Mitchum e Shirley MacLaine, è un esempio perfetto di questo suo talento.

Tratto dall’omonima opera teatrale di William Gibson (1914-2008) – che andò in scena per la prima volta nel gennaio del 1958 e vide l’esordio sul palcoscenico della giovane Anne Bancroft nei panni di Gittel, ruolo per il quale l’attrice vinse il suo primo Emmy, affiancata da Henry Fonda in quelli di Jerry – il film trasporta sullo schermo la complessità emotiva di una storia d’amore intensa e tormentata, resa indimenticabile dalle interpretazioni dei due protagonisti.

La trama segue l’incontro tra Jerry Ryan (Robert Mitchum), un avvocato divorziato, e Gittel Mosca (Shirley MacLaine), una ballerina di New York che lotta per sbarcare il lunario. Jerry, appena arrivato in città dopo aver lasciato Omaha, il Nebraska e un matrimonio fallito, si trova a navigare le acque turbolente di una nuova vita. Gittel, invece, è una giovane donna vivace ma fragile, il cui passato doloroso non smette di condizionarle il presente. L’incontro tra queste due anime ferite dà vita a una relazione tanto passionale quanto instabile, fatta di alti e bassi, di momenti di dolcezza e scontri dolorosi.

La scelta di Robert Mitchum come protagonista maschile potrebbe sembrare insolita, dato il suo passato cinematografico fatto di ruoli duri e impassibili, come nelle pietre miliari “Il tesoro di Vera Cruz”, “Le catene della colpa”, “La morte corre sul fiume” e “Odio implacabile”. Eppure, in “La ragazza del quartiere”, Mitchum dimostra una sorprendente vulnerabilità. Il suo Jerry è un uomo spezzato, alla ricerca di un senso di appartenenza che sembra sfuggirgli continuamente. Shirley MacLaine, invece, con la sua energia contagiosa e il suo sguardo malinconico, riesce a incarnare perfettamente il personaggio di Gittel, una donna che lotta per non soccombere alla solitudine e all’amarezza.

La splendida fotografia in bianco e nero di Ted McCord è un altro elemento che merita una menzione speciale. Il film sfrutta al meglio le ombre e i contrasti, creando un’atmosfera che amplifica la tensione emotiva tra i due protagonisti. New York, con i suoi appartamenti angusti e le sue strade affollate, diventa quasi un personaggio a sé stante, un luogo che rispecchia le emozioni turbolente di Jerry e Gittel.

Ma è la regia di Wise a fare davvero la differenza. Il regista sa quando lasciar respirare le scene, permettendo ai suoi attori di esplorare a fondo i loro personaggi, e quando invece intensificare il ritmo per sottolineare i momenti di conflitto. Il risultato è un film che, pur mantenendo le sue radici teatrali, riesce a sfruttare appieno le potenzialità del linguaggio cinematografico.

“La ragazza del quartiere” è un film che parla di amore e di perdita, di speranza e di disillusione, ma soprattutto di due persone che cercano disperatamente di trovare un posto nel mondo, anche se solo temporaneo. È un’opera toccante e profondamente umana, resa ancora più potente dalle performance straordinarie di Mitchum e MacLaine, e dalla regia impeccabile di Wise.

Se non l’avete ancora visto, vi consiglio caldamente di farlo. È uno di quei film che, una volta terminati, vi lasciano un segno profondo, facendovi riflettere sulle complessità delle relazioni umane e sulla fragilità dell’esistenza.

Ascolta gratuitamente questa e altre recensioni su Spotify Amazon MusicYouTube.

“Fahrenheit 451” di François Truffaut

(UK,1966)

Questo è un film che, ad ogni sua visione, ci costringe a riflettere sulla natura umana e sul potere della conoscenza. Tratta dall’omonimo e bellissimo romanzo di Ray Bradbury, questa pellicola rappresenta un unicum nella carriera di François Truffaut, il maestro della “Nouvelle Vague”, che con questo lavoro si confronta per la prima volta con la fantascienza, con la lingua inglese e con il colore.

In un futuro distopico, i libri sono banditi e i pompieri, invece di spegnere incendi, li appiccano per distruggere ogni traccia di sapere e di pensiero critico. Il protagonista, Guy Montag, interpretato da un magnetico Oskar Werner, è un pompiere devoto al suo lavoro, finché un incontro fortuito con la vivace e curiosa Clarisse, portata sullo schermo da una straordinaria Julie Christie, lo spinge a mettere in dubbio tutto ciò in cui crede.

Truffaut ci regala un’opera visivamente ipnotica, dove il colore diventa protagonista tanto quanto i personaggi. L’uso del rosso, simbolo di distruzione ma anche di passione, domina la scena, sottolineando la tensione tra un mondo che brucia la cultura e la nascente consapevolezza di Montag. La scenografia è minimalista, quasi alienante, a sottolineare la sterilità emotiva di una società che ha sacrificato l’anima sull’altare della conformità.

Fondamentale è anche la colonna sonora firmata da Bernard Herrmann, musicista fra i preferiti del maestro Alfred Hitchcock, che Truffaut cita e omaggia in quasi ogni scena. La loro personale amicizia, nata da un’intervista che il cineasta francese gli fece per poi scrivere lo splendido “Il cinema secondo Hitchcock”, è parte integrante della storia del cinema.

Julie Christie offre una performance memorabile, incarnando sia Clarisse, l’elemento di disturbo che accende la scintilla del dubbio in Montag, sia Linda, la moglie apatica e sottomessa al sistema. Questo doppio ruolo non solo dimostra la versatilità dell’attrice, ma rafforza il contrasto tra la vita che Montag desidera e quella a cui è stato condannato.

La scelta di Truffaut di adattare “Fahrenheit 451” di Bradbury può apparire paradossale per un regista che ha costruito la sua carriera su storie intime e umane. Tuttavia, è proprio questa distanza dall’opera originale che permette a Truffaut di esplorare nuovi territori cinematografici, pur mantenendo la sua sensibilità poetica. Non è un film di fantascienza nel senso convenzionale del termine, ma piuttosto una riflessione sull’alienazione, sull’individualismo e sulla resistenza all’omologazione.

Ma sopratutto “Fahrenheit 451” è un inno immortale alla lettura e all’amore per i libri, libri che per lo stesso Truffaut furono, durante la sua difficile adolescenza, l’unico vero punto fermo e faro illuminante. Le semplificazioni narrative rispetto al romanzo di Bradbury non sono mancanze, ma scelte consapevoli che orientano il film verso una dimensione più simbolica che didascalica.

Se il ritmo del film può risultare lento per alcuni, questa lentezza è funzionale alla costruzione di un’atmosfera di crescente oppressione e disagio. Truffaut non cerca di catturare lo spettatore con effetti speciali o colpi di scena, ma lo invita a immergersi in un mondo in cui l’assenza di cultura diventa la vera minaccia, più inquietante di qualsiasi mostro fantascientifico.

In definitiva, “Fahrenheit 451” non è solo un adattamento di un romanzo celebre, ma un’opera d’arte a sé stante, che porta l’impronta inconfondibile del grande cineasta francese. Un film che sfida il pubblico a interrogarsi sul valore della cultura e della libertà in un’epoca di crescente conformismo. Truffaut dimostra che la fantascienza, nelle mani giuste, può essere uno strumento potente per esplorare le profondità dell’animo umano e per denunciare le derive della società contemporanea.

“Fahrenheit 451” è un film che va visto, non solo per la sua bellezza visiva o per le interpretazioni dei suoi attori, ma perché ci ricorda quanto sia importante difendere il diritto di pensare, di leggere, di sapere. Truffaut ci consegna un monito potente, un invito a non spegnere mai quella scintilla di curiosità e ribellione che ci rende veramente umani, un monito mai obsoleto e oggi, drammaticamente, tanto attuale.

Ascolta gratuitamente il podcast di questa e di altre recensioni su Spotify e YouTube.

“L’amore ai tempi del colera” di Gabriel García Márquez

(Mondadori, 1986)

Gabriel García Márquez, una delle voci più potenti e liriche della letteratura mondiale, ci ha donato con “L’amore ai tempi del colera” un capolavoro che trascende il tempo e lo spazio, esplorando con delicatezza e profondità i misteri del cuore umano. Pubblicato per la prima volta nel 1985, questo romanzo è un inno alla resistenza dell’amore, alla sua capacità di durare nonostante gli anni, le circostanze avverse e le mutazioni della vita.

La storia ruota attorno ai protagonisti Florentino Ariza e Fermina Daza, il cui amore giovanile viene interrotto dalla decisione di Fermina di sposare il benestante dottor Juvenal Urbino. Ma Florentino, determinato e paziente, coltiva il suo sentimento per oltre cinquant’anni, aspettando il momento in cui potrà finalmente reclamare il suo posto accanto all’amata. Marquez ci accompagna in questo lungo viaggio attraverso la vita dei personaggi, dipingendo con maestria le loro vicende, i loro sogni, le loro passioni e le loro delusioni.

Ciò che rende “L’amore ai tempi del colera” un’opera straordinaria è la capacità di rappresentare l’amore in tutte le sue sfumature. Non si tratta solo di una storia d’amore romantico, ma di una riflessione sulla natura complessa e multiforme di questo, spesso incontenibile, sentimento. García Márquez esplora l’amore giovanile, l’amore coniugale, l’amore passionale e l’amore senile, mostrando come questo possa evolversi, trasformarsi e sopravvivere a ogni ostacolo.

Lo stile narrativo di Garcia Marquez è, come sempre, ricco e avvolgente, carico di immagini poetiche e di una sottile ironia che conferisce al racconto una leggerezza che si contrappone alla profondità dei temi trattati. L’ambientazione tropicale, con i suoi colori vibranti e la sua atmosfera languida, diventa un personaggio a sé stante, capace di influenzare e rispecchiare gli stati d’animo dei protagonisti.

L’amore ai tempi del colera” è un romanzo che parla di attesa e perseveranza, ma anche di perdita e disillusione. Márquez non idealizza mai l’amore; al contrario, lo presenta come un sentimento che può essere tanto fonte di gioia quanto di sofferenza, ma che, alla fine, è sempre degno di essere vissuto.

Per chi ama le storie che esplorano i meandri dell’animo umano, “L’amore ai tempi del colera” è una lettura imperdibile. Marquez ci ricorda che l’amore è un sentimento eterno, capace di sopravvivere non solo al passare del tempo, ma anche alle ferite e alle cicatrici che la vita ci infligge. Un’opera che si erge come uno dei pilastri della letteratura mondiale e che continuerà a parlare ai cuori dei lettori per generazioni a venire.

D’altronde, leggere ad intervalli fissi Gabriel García Márquez, è indispensabile per godere di una vita emotiva sana e florida, lo dicono gli esperti!

Ascolta gratuitamente questa e altre recensioni su Spotify Amazon MusicYouTube.

“Senza pelle” di Alessandro D’Alatri

(Italia, 1994)

Negli anni ’90 il cinema italiano ha prodotto piccoli capolavori che, purtroppo, non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Tra questi c’è “Senza pelle“, un film che dimostra ancora una volta la maestria di Alessandro D’Alatri nel raccontare le sfumature dell’animo umano. Il regista, che scrive anche la sceneggiatura per la quale vince il David di Donatello, affronta il tema della diversità, della fragilità mentale e della solitudine in un contesto che oscilla tra il quotidiano e l’intimo, grazie anche a un cast di interpreti davvero eccezionali.

La storia ruota intorno a Gina (Anna Galiena, che per questa interpretazione vince il Golden Globe assegnato nel nostro Paese), compagna di Riccardo, un pacifico autista di autobus metropolitani che ha il volto di Massimo Ghini, con il quale ha un bambino di pochi anni. La loro esistenza, apparentemente ordinaria, viene stravolta dall’arrivo di Saverio (un bravissimo Kim Rossi Stuart), un giovane che vive ai margini della società e della propria stabilità mentale. Saverio, con la sua fragilità, entra ossessivamente nella vita di Gina, mettendo in luce le crepe sottili del suo rapporto col compagno e forse la sua stessa identità.

Il tema della malattia mentale viene trattato con rispetto, senza mai cadere in stereotipi o facili giudizi, e rappresenta il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intera narrazione. Il titolo “Senza pelle” allude proprio a questa condizione di vulnerabilità estrema che affligge Saverio e che, in un certo senso, contagia anche gli altri personaggi, costringendoli a confrontarsi con le proprie paure e insicurezze.

Dall’altra parte c’è Gina, una donna che sente addosso il peso della sua invisibilità, sia come compagna che come persona appartenente ad una società che l’ha definitivamente e ipocritamente condannata per avere allacciato una relazione con un uomo sposato, com’era Riccardo quando lo ha conosciuto, e con il quale ha poi voluto avere anche un figlio, cosa per la quale ancora la biasima perfino sua madre.

La sua particolare relazione con Saverio, per quanto complicata e precaria, le dà un senso di esistenza che la vita col compagno forse non riesce più a offrirle. Anna Galiena, con la sua consueta raffinatezza, riesce a donare profondità a un personaggio che potrebbe sembrare superficiale, ma che in realtà non lo è affatto.

Non meno importante è l’ottima interpretazione di Massimo Ghini, che incarna un uomo apparentemente gretto e superficiale, ma che in realtà riesce a capire e amare veramente la sua compagna sostenendola anche nel particolare momento che lei sta vivendo. In piccoli ruoli appaiono anche Luca Zingaretti e Rocco Papaleo. Da ricordare anche il progetto musicale su cui si basa la colonna sonora firmato da Moni Ovadia.

Senza pelle” non è un film per tutti i palati, e forse anche per questo non ha avuto il successo che meritava. Ma proprio per questo è un’opera da riscoprire, capace di rimanere impressa per la sua umanità e la sua struggente dolcezza.

Ascolta gratuitamente questa e altre recensioni su Spotify e YouTube.

“Il bacio della donna ragno” di Héctor Babenco

(Brasile/USA, 1985)

Héctor Babenco, con “Il bacio della donna ragno”, ci consegna un’opera di rara intensità emotiva, che travalica i confini del cinema politico per esplorare la condizione umana in tutta la sua complessità. Tratto dall’omonimo romanzo di Manuel Puig – ambientato nell’Argentina sotto la dittatura violenta e sanguinaria di Videla – e scritto per il grande schermo da Leonard Schrader, il film ci immerge nelle angosce e nelle speranze di due prigionieri, offrendo una narrazione che è al contempo intima e universale.

Ambientato in una prigione sudamericana durante un’epoca di repressione politica, il film mette in scena l’incontro tra Luis Molina (uno straordinario William Hurt), un omosessuale incarcerato per immoralità, e Valentín Arregui (Raúl Juliá), un rivoluzionario marxista. Molina, con la sua passione per i melodrammi cinematografici – la cui protagonista è sempre incarnata da Sonia Braga – diventa il narratore di storie che trasportano lui e Valentín lontano dalle mura della prigione. Attraverso questi racconti, Babenco esplora la potenza dell’immaginazione come strumento di evasione e di resistenza.

La regia di Babenco si distingue per la sua capacità di alternare sapientemente momenti di cruda realtà carceraria a sequenze oniriche e stilizzate, in cui le storie raccontate da Molina prendono vita. Questo dualismo conferisce al film una struttura narrativa complessa e affascinante, che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine.

La performance di William Hurt è magistrale, meritatamente premiata con l’Oscar e con il Premio della Giuria al Festival di Cannes. L’attore riesce a incarnare con delicatezza e profondità un personaggio intrappolato tra la sua vulnerabilità e la sua forza interiore. Raul Julia, nel ruolo di Valentín, offre una prova altrettanto potente, rendendo palpabile la tensione tra il suo impegno politico e il legame che si sviluppa con Molina.

Uno degli elementi più riusciti del film è la colonna sonora, composta da John Neschling. La musica non è solo un accompagnamento, ma diventa un vero e proprio personaggio, capace di amplificare le emozioni e di sottolineare i momenti più significativi della narrazione.

“Il bacio della donna ragno” non è semplicemente un film sulla prigionia fisica, ma una riflessione profonda sulla libertà interiore e sulla capacità dell’essere umano di trovare consolazione nell’arte e nell’immaginazione. La pellicola invita lo spettatore a interrogarsi sui limiti e sulle possibilità della mente umana, offrendo uno spaccato di straordinaria intensità sul potere delle storie e quindi anche sul cinema stesso.

In conclusione, Héctor Babenco realizza un film che riesce a essere allo stesso tempo politico e poetico, un’opera che resta impressa nella memoria per la sua forza visiva ed emotiva. “Il bacio della donna ragno” è un capolavoro che merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua capacità di parlare all’anima dello spettatore, ricordandoci il potere liberatorio dell’arte, quella vera.

Ascolta gratuitamente questa e altre recensioni su Spotify e YouTube.