“Le tentazioni del dottor Antonio” di Federico Fellini

(Italia, 1962)

Cesare Zavattini propone a Carlo Ponti un film ad episodi diretti dai quattro fra i più importanti registi italiani di allora: Mario Monicelli, Federico Fellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica, rispettivamente con “Renzo e Luciana“, “Le tentazioni del dottor Antonio”, “Il lavoro” e “La riffa“.

Federico Fellini sceglie di raccontare la parte più bigotta e ipocrita della società italiana del tempo che, con feroce violenza, si era scagliata solo qualche anno prima contro di lui ed i suoi film “La dolce vita” prima e “8 e 1/2” poi.

Il nostro Paese, da ormai quasi due decenni è guidato politicamente dalla Democrazia Cristiana che è per molti un punto di riferimento culturale e sociale, oltre che incarnare gli ideali cattolici della Chiesa Romana che in quegli anni ha un’ingerenza pesante nel nostro quotidiano.

E così all’uscita, ma soprattutto al clamoroso successo internazionale de “La dolce vita”, i più integerrimi benpensanti italici, convinti di essere gli unici detentori della “morale” e del “decente”, si scagliarono ferocemente, fregiandosi dello scudo crociato, contro il regista gli autori e gli attori. Oggi, fortunatamente, può far sorridere tale circostanza, ma in quegli anni essere “scomunicato” dal Vaticano aveva comunque le sue ripercussioni anche nella vita quotidiana.

Per esempio, più o meno nello stesso periodo, la grande Mina veniva insultata da alcuni passanti in strada, mentre faceva la spesa, solo perché aveva avuto l’ardire e la spudoratezza di fare un figlio con un uomo sposato e non vergognarsi pubblicamente…

Così Fellini, assieme ai suoi autori preferiti Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, incarnano tutti questi tipici atteggiamenti italioti perbenisti ed ipocriti nell’integerrimo dottor Antonio Mazzuolo (un bravissimo Peppino De Filippo) custode e tutore dell’ordine morale, tanto da non avere scrupoli nello schiaffeggiare una sconosciuta in un bar solo perché questa indossava un abito leggermente scollato.

E proprio davanti alla finestra di casa Mazzuolo viene affisso un enorme cartellone pubblicitario con la bellissima e prosperosa Anita Ekberg che in uno abito da sera scollato, sdraiata, pubblicizza il latte.

Il dottor Antonio, turbato e scandalizzato cerca in ogni modo di farlo coprire, anche rivolgendosi ai politici di riferimento, ma la sua rabbia nasconde in realtà una morbosa e indicibile voglia di possedere quel corpo così procace e sessuale, voglia che alla fine riesce a dare vita al manifesto…

Per comprendere al meglio la nostra società di allora basta ricordare anche l’episodio dello schiaffo accadde veramente ai danni di una signora straniera che si era, da sola, seduta in un bar del centro di Roma per prendere un caffè e che venne aggredita e colpita da un giovane puritano Oscar Luigi Scalfaro – che poi diventerà Presidente della Repubblica – cosa che oggi, giustamente, sarebbe impensabile senza dure e implacabili conseguenze.

Fortunatamente non tutta l’Italia, allora, era così e ci furono molte parole pubbliche di biasimo che ebbero il loro culmine nel guanto di sfida che lanciò realmente il grande Antonio De Curtis in arte Totò, sfidando ufficialmente a duello Scalfaro per difendere l’onore della povera e innocente malcapitata. Duello che però, fortunatamente per tutti, non ebbe luogo.

Tornando all’episodio diretto da Fellini, che ha praticamente la durata di un film breve, colpisce ancora oggi la sua satira e la sua ironia verso una parte del nostro Paese che è dura a morire e che spesso, per mere ragioni elettorali, alcuni politici fomentano.

“La morte risale a ieri sera” di Duccio Tessari

(Italia/Germania Ovest, 1970)

A fagiolo, proprio l’anno della mia nascita, arriva nelle nostre sale uno dei migliori adattamenti cinematografici di un’opera del maestro Giorgio Scerbanenco, e nello specifico del suo romanzo indimenticabile “I milanesi ammazzano al sabato” pubblicato nel 1969.

Il commissario Duca Lamberti della Questura di Milano, interpretato – superbamente – da Frank Wolff e doppiato ancora più superbamente da Aldo Giuffrè, è un uomo della Pubblica Sicurezza fuori dagli schemi, soprattutto per quegli anni, e anticipa per molte caratteristiche il futuro Salvo Montalbano del maestro Camilleri.

Alla sua scrivania una mattina arriva il pacato ma volitivo signor Amanzio Berzaghi (Raf Vallone) che lo implora di ritrovare sua figlia neanche ventenne Donatella, scomparsa ormai da un mese. Se all’inizio Lamberti ascolta quasi distratto Berzaghi – viste le numerose ragazze che mensilmente a Milano abbandonano volontariamente la casa dei propri genitori – quando questo gli rivela che sua figlia, nonostante l’aspetto e la bella presenza di una ventenne, è in realtà una disabile avendo un grave ritardo cognitivo che le fa avere la coscienza e la capacità intellettiva di una bambina di tre anni, il commissario inizia subito a lavorare al caso.

Insieme al suo collaboratore Mascaranti (Gabriele Tinti) Lamberti inizia a investigare nel mondo della prostituzione e delle case d’appuntamento clandestine milanesi, angoli oscuri dove finiscono la maggior parte delle giovani donne che scompaiono. Lì risale a Salvatore (Gigi Rizzi) un ex sfruttatore noto alla Polizia e con precedenti, che adesso però gestisce un autosalone di lusso. Ma sarà lo stesso Berzaghi a trovare casualmente per primo un indizio fondamentale…

Indimenticabile poliziottesco italiano d’annata che, a differenza di molti suoi “fratelli” contemporanei, ancora oggi nella struttura e nella dinamica narrativa non risente del tempo passato, ricordandoci che ottimo artigiano della macchina da presa fosse Duccio Tessari.  

Da ricordare anche le due canzoni originali interpretate da Mina, la prima della quali apre splendidamente il film.

Per la chicca: come aiuto regista appare Lorella De Luca, attrice fra la più famose della commedia all’italiana e protagonista di pellicole come “Poveri ma belli” di Risi, nonché compagna di vita della stesso Tessari.

Il film fa parte della trilogia dedicata a Duca Lamberti di cui fanno parte “I ragazzi del massacro” di Ferdinando Di Leo – altro e unico adattamento più che dignitoso di un’opera di Scerbanenco – e l’improponibile “Il caso Venere privata” di Yves Boisset.