“A prova di errore” di Sidney Lumet

(USA, 1964)

Scritto da Walter Bernstein e tratto dal romanzo “Fail-Safe” (pubblicato per la prima volta sul “Saturday Evening Post” nell’ottobre de 1962) di Eugene Burock e Harvey Wheeler, “A prova di errore” è davvero un gran bel film.

Questo è dovuto al cast davvero di altissimo livello fra cui spiccano Henry Fonda (nel ruolo del Presidente degli Stati Uniti), Walter Matthau (in quello del cinico e arrogante Prof. Groeteschele uno “scienziato-politico” consigliere del Pentagono) oltre a una lunga serie di ottimi caratteristi che negli anni successivi acquisteranno notorietà sia al cinema che in televisione.

A partire da: Dom DeLuise (che verrà diretto poi sia da Mel Brooks che dalla moglie Anne Bancroft), Larry Hagman (che pochi anni dopo diverrà il protagonista della serie “Strega per amore” e poi incarnerà uno dei primi veri e indimenticabili “cattivi” della televisione prestando il suo volto a quello del perfido J.R. Ewing di “Dallas”), Sorrell Booke (che parteciperà a numerose note serie tv come “Il dottor Kildare” o “Colombo”, ma che rimarrà impresso nell’immaginario, soprattutto della mia generazione, per aver incarnato in tutti i 147 episodi della serie “Hazzard” Jefferson Davis Hogg detto “J.D. Boss Hogg”), Fritz Weaver (che nel corso della sua lunga carriera lavorerà con registi del calibro di John Schlesinger, Mike Nichols, Stephen Frears, George A. Romero nonché Paolo Sorrentino), Dan O’Herlihy e Frank Overton.

Siamo in piena Guerra Fredda e per un apparente corto circuito una pattuglia di bombardieri degli Stati Uniti parte in missione top secret per bombardare Mosca con testate nucleari.

E’ la scintilla che innescherà la terza e definitiva guerra mondiale alla quale, ormai è scontato da tempo, nessuno “davanti” e “oltre cortina” sopravvivrà. Spetta al Presidente degli Stati Uniti tentare di disinnescare la reazione a catena che spazzerà via la vita dalla faccia della Terra e così chiama direttamente il leader dell’U.R.S.S. per spiegargli la situazione.

Ma la barriera di sfiducia e sospetto fra le due super potenze atomiche è difficile da superare, così come i processi di distruzione che incautamente i rispettivi militari hanno affidato alle macchine bypassando l’uomo. Macchine che tragicamente non si sono dimostrate …a prova di errore…

Magistrale interpretazione di Matthau che riesce a trasformare il suo faccione simpatico e sornione in una maschera dura dagli occhi senza luce. Così come quella di Fonda mentre parla al telefono con il suo omologo sovietico, coadiuvato solo dal giovane interprete Buck (Hagman).

Oltre al suo valore artistico, questo ottimo film possiede anche un valore storico-cinematografico perché uscì contemporaneamente a “Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba” del maestro Stanley Kubrick.

Le cronache del tempo ci raccontano di come Kubrick divenne furioso quando era ancora sul set del film e venne a conoscenza del progetto di Lumet, tanto da intentare varie azioni legali. Cause che intentò anche Peter George autore del romanzo “Red Alert”, pubblicato nel 1958, dal quale è tratta la sceneggiatura del film di Kubrick.

Se è vero che la storia dei due film – e dei due romanzi – è davvero molto simile, è vero anche che le due versioni cinematografiche usano toni e sfumature molto diverse: sono due pellicole che raccontano la stessa vicenda in maniera però assai differente.

E questo ci porta a un’ultima riflessione: sia Lumet che Kubrick, per il personaggio dello sprezzante e calcolatore consulente del Pentagono che a suon di percentuali parla di miliardi di morti e “giusta causa” hanno scelto un grande attore comico.

E se il Peter Sellers che impersona il Dottor Stranamore è truccato, il Matthau che fa Groeteschele invece no, probabilmente per rende ancora più fastidioso e insopportabile il personaggio. Da vedere.

Per la chicca: nel 2000 Stephen Frears dirige il remake, fatto per la tv, girato in bianco e nero e tutto in presa diretta con interpreti come George Clooney, Richard Dreyfuss, Harvey Keitel, Noha Wyle e Don Cheadle.

“Tempesta su Washington” di Otto Preminger

(USA, 1962)

“Advise & Consent” di Allen Drury viene pubblicato nel 1959 e l’anno successivo vince del Premio Pultizer.

L’impatto sulla cultura americana è molto ampio, tanto che durante la campagna per le elezioni presidenziali del 1960 fu scattata una famosa foto che ritraeva i due candidati, Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy, intenti a leggere una copia del libro.

Due anni dopo, il maestro Otto Preminger ne dirige una splendida versione cinematografica – con lo stesso titolo in originale – la cui sceneggiatura è scritta dallo stesso Allen Drury insieme a Wendell Mayes.

Per la prima volta nella storia le macchine da presa di Hollywood entrano nel Senato degli Stati Uniti, e alcune delle scene cruciali vengono girate proprio nella stessa sala dove la Commissione contro le attività “antiamericane”, presieduta dal Senatore Joseph McCarthy, consumava le sue tristemente note sedute.

La scelta non è casuale, infatti, il romanzo di Drury – così come il film di Preminger – ci racconta delle feroci lotte interne che si consumano nel palazzo più importante degli Stati Uniti. Di come per ottenere la maggioranza in una votazione i rappresentati degli elettori siano disposti a tutto.

Ma, soprattutto, ci narra i modi infami del Senatore Fred Van Ackerman (interpretato da George Grizzard) che non disdegna il ricatto, le minacce e la calunnia pur di ottenere voti e consenso, ma che poi finirà isolato e schifato da tutti i suoi colleghi, indipendentemente dallo schieramento politico a cui appartengono.

Destino simile a quello che toccò al vero Joseph McCarthy, le cui accuse e insinuazioni provocarono non pochi suicidi (soprattutto a Hollywood) fra cui anche quello del Senatore Lester C. Hunt, avvenuto il 19 giugno del 1954 e riconducibile a una frase pronunciata pubblicamente dallo stesso McCarthy. Il Senato aprì un’inchiesta alla fine della quale McCarthy venne ufficialmente “censurato”, cosa che segnò la fine della sua carriera politica.

McCarthy morì il 2 maggio del 1957 a 48 anni, ufficialmente a causa di un arresto cardiaco, ma le cronache del tempo parlano di un’epatite legata all’alcolismo, conseguenza diretta del suo isolamento politico e personale (condizione che lui stesso aveva imposto a decine e decine di artisti sinistrorsi).

Ma torniamo al film.

Il Presidente degli Stati Uniti ha gravi problemi di salute, problemi che solo il suo staff ristretto conosce, e per questo decide di nominare a Segretario di Stato Robert Leffingwell (Henry Fonda) che considera l’unico in grado di prendere le redini – soprattutto in politica estera – che lui presto dovrà cedere.

Spetta a leader del partito di maggioranza Bob Munson (Walter Pidgeon) trovare i voti necessari alla nomina nella Commissione presieduta dal giovane Senatore Brigham Anderson.

L’ostacolo più grande è il rappresentante dell’opposizione, il Senatore veterano – visto che la sua prima elezione è avvenuta oltre quarant’anni prima – Seabright Colby (un gradissimo Charles Laughton) che trova Leffingwell troppo vicino all’ ideologia comunista per sedere su uno scranno così importante per il Paese.

Durante i lavori della Commissione esce fuori la testimonianza Herbert Gelman (Burgess Meredith) che afferma di aver partecipato ad alcune riunioni clandestine di una cellula comunista insieme a Leffingwell. Nel successivo interrogatorio lo stesso Leffingwell smonta con fermezza le accuse di Gelman che sembrano essere dettate solo dalla sua instabilità mentale.

Intanto, il Presidente della Commissione Anderson inizia a ricevere delle telefonate minatorie che vorrebbero fargli chiudere l’inchiesta per dare il nullaosta alla nomina proposta dal Presidente.

Lo stallo che si crea nella commissione porta Van Ackerman, la vera mente spregiudicata dietro il ricatto ai danni di Anderson, ad alzare il tiro e a inviare alla moglie del Presidente della Commissione foto e lettere che testimonierebbero una passata relazione omosessuale del marito. Devastato, Anderson si suicida nel suo studio. Ma…

Preminger, con un cast stellare, ci racconta una storia inventata – come sottolineano i titoli di testa – ma drammaticamente vera e attuale, inserendo nel cast uno dei simboli delle vittime del cosiddetto maccartismo: Burgess Meredith, che nel decennio successivo acquisterà fama mondiale interpretando Mickey Goldmill, il vecchio e non udente allenatore di pugilato del primo “Rocky”.

Lo stesso Meredith, infatti, finì alla fine degli anni Quaranta nella lista nera della Commissione contro la attività “antiamericane” e sedette come accusato nella stessa aula.

Nel 1949 fece in tempo però a realizzare il suo primo e unico film come regista: “L’uomo della Torre Eiffel” in cui – …guarda il caso… – Charles Laughton interpreta il commissario Maigret.

E, a proposito di Laughton, questa splendida pellicola deve essere ricordata anche perché fu l’ultima da lui interpretata, stroncato da un tumore pochi mesi dopo la fine delle riprese, mentre si preparava a interpretare Moustache in “Irma la dolce” di Billy Wilder, parte che poi venne affidata a Lou Jacobi.

Considerando i tempi e la morale di quando uscì nelle sale, anche “House of Cards” oggi sembra una serie per ragazzi.

Immortale.

“La parola ai giurati” di Sidney Lumet

(USA, 1957)

Il 13 aprile del 1957 usciva nella sale statunitensi lo splendido “La parola ai giurati” diretto dall’esordiente Sidney Lumet.

Reginald Rose, nato a New York nel 1920, appena congedato dall’esercito americano decide di guadagnarsi da vivere scrivendo soggetti per il nuovo e singolare mezzo che inesorabilmente sta prendendo sempre più piede nelle famiglie americane: la televisione.

Nei primi anni Cinquanta inizia a collaborare con la CBS firmando drammi da un’ora per la serie Studio One. Una mattina gli viene recapitata la convocazione per far parte della giuria in un processo per omicidio.

Il giovane rimane impressionato dalle dinamiche legali, e soprattutto da quelle umane, che si avvicendano durante tutte le sedute. Quando, dopo le arringhe dei legali, è chiuso nella stanza della giuria assistendo al dibattito, capisce di avere davanti agli occhi “il dramma perfetto” da raccontare.

In poco tempo Rose scrive lo script de “La parola ai giurati” che, svolgendosi tutto nella stanza di una giuria, sembra perfetto per il teatro e per l’allora fiction televisiva che ad esso si ispirava. L’episodio di un’ora viene trasmesso nel 1954. Il successo è davvero grande e così la produzione decide di realizzare un adattamento cinematografico.

Allo stesso Rose viene affidato il compito di scrivere la sceneggiatura, mentre al giovane, ma già esperto regista di drammi televisivi, Sidney Lumet viene affidata la regia.

Se nel ruolo del protagonista viene chiamata una stella di prima grandezza come il sempre bravo Henry Fonda, per quelli dei comprimari vengono scelti alcuni fra migliori caratteristi di Hollywood, che poi diverranno protagonisti o coprotagonisti di numerose serie televisive di successo, meno famosi ma che con la loro bravura renderanno la pellicola una delle più belle della storia del cinema.

Nella piccola stanza di un tribunale la giuria, formata da dodici individui che non si conoscono, deve scegliere se dichiarare il giovane imputato presunto parricida colpevole o innocente. Il caso sembra semplice, tutti gli indizi sono a sfavore del ragazzo, ma alla prima votazione salta fuori un giurato contrario alla condanna.

Si tratta del giurato n.8 (un Henry Fonda davvero luminoso) che ammette di non essere affatto certo dell’innocenza dell’imputato, e per questo quindi non può essere sicuro della sua colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.

L’uomo viene quasi aggredito verbalmente dagli altri giurati, molti dei quali vorrebbero tornare rapidamente alle loro occupazioni quotidiane, ma il giurato n. 8 inizia a smontare ogni indizio che fino a quel momento sembrava davvero ineccepibile…

Strepitosa pellicola, girata in uno splendido bianco e nero, che di fatto fonda (non l’attore!) il genere legal drama, e che ci pone una delle domande basiche della nostra società: quanto riusciamo a essere obiettivi e imparziali, nonostante le nostre esperienze personali?

Da antologia.

Il film, oltre ad essere candidato a tre premi Oscar e quattro Golden Globe, vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.