“La valle dell’Eden” di Elia Kazan

(USA, 1955)

Il 9 marzo del 1955 viene proiettato a New York, in anteprima assoluta, l’adattamento cinematografico del romanzo “La valle dell’Eden” che John Steinbeck ha pubblicato nel ’52.

Dietro la macchina da presa c’è Elia Kazan, mentre a scrivere la sceneggiatura è Paul Osborn. La produzione, una volta acquisiti i diritti del romanzo, decide di portare sul grande schermo solo una parte del bellissimo testo di Steinbeck.

Il film, infatti, narra soprattutto la storia di Caleb Trask, fratello di Aron, e “figlio” – chi ha letto il libro comprenderà bene le virgolette – di Adam e Cathy, tralasciando le vicende antecedenti e parallele che invece Steinbeck narra.

Così, alle soglie dello scoppio del primo grande conflitto mondiale, ci ritroviamo in California fra il centro agricolo di Salinas e la cittadina di Monterey. Il giovane Cal (un indimenticabile James Dean al suo esordio ufficiale davanti alla macchina da presa) non riesce a gestire e soprattutto a comprendere la propria irrequietezza che lo porta spesso ad aggredire rabbiosamente chi gli è vicino, come suo fratello Aron (Richard Davalos) che sembra invece incarnare la bontà e l’altruismo, o suo padre Adam (Raymond Massey) che ha costruito tutta la propria esistenza sulla Bibbia, che legge quotidianamente.

In una bettola, una sera, Cal viene a sapere che, contrariamente a quello che gli è stato sempre raccontato, sua madre Cathy (Jo Van Fleet) è viva, e soprattutto è la tenutaria di uno dei più malfamati bordelli di Monterey.

La notizia è così sconvolgente che Cal si sente sommergere dalle emozioni e il suo primo e irrefrenabile desiderio è quello di correre a conoscerla. Desiderio che travolgerà non solo la sua esistenza, ma anche quella di suo fratello, suo padre e quella della giovane Abra (Julie Harris) fidanza di Aron.

Indimenticabile pellicola con una fotografia e delle immagini che hanno fatto la storia del cinema. Ma soprattutto con un giovane – e allora praticamente sconosciuto – James Dean che stregherà, con il suo fascino e la sua recitazione innovativa, intere generazioni di spettatori.

Quando Marlon Brando e Montgomery Clift rifiutarono il ruolo di Caleb, rimase in lizza un altro giovane attore, un certo …Paul Newman. Fu lo stesso Osborn a proporre invece Dean, che aveva visto in teatro a New York. Dean superò Newman soprattutto per la sua capacità d’improvvisazione. E’ riportato in numerosi articoli dell’epoca la storia delle riprese della scena in cui Adam rifiuta i soldi che suo figlio Cal ha guadagnato per fargliene dono. La sceneggiatura descriveva un Cal furente che urlando al padre “Ti odio!” esce sbattendo la porta. Ma Dean, senza avvertire nessuno, abbracciò Massey, che interpretava Adam, gli sussurrò piangendo la battuta e poi uscì sbattendo la porta.

La sorpresa, vera, di Massey è uno degli elementi che rendono questo film una delle pietre miliari della cinematografia, non solo americana. E ovviamente Kazan si guardò bene da farla rifare. La prematura scomparsa di Dean, se è vero che lo ha reso immortale a soli 24 anni, è vero anche che ci ha privato di un vero e proprio talento.

Il film vince il premio come migliore pellicola drammatica al Festival di Cannes e l’Oscar come miglior attrice non protagonista a Jo Van Fleet. Dean ricevette la candidatura come miglior attore protagonista poco dopo la sua morte, fu la prima volta che venne assegnata postuma ad un attore.

“Barriera invisibile” di Elia Kazan

(USA, 1947)

La Seconda Guerra mondiale è appena terminata e il mondo inizia a raccogliere le sanguinose macerie. Anche le nazioni vincitrici devono fare i conti con il proprio lato oscuro che, volenti o nolenti, il conflitto ha alimentato.

Sulle pagine di “Cosmopolitan” appare il romanzo “Gentleman’s Agreement” della scrittrice newyorkese Laura Z. Hobson che parla della piaga del razzismo, soprattutto quello verso le persone di religione ebraica, che negli Stati Uniti, ma anche in molti altri parti del mondo, affligge la società.

Il produttore Darryl Z. Zanuck decide di portarlo sullo schermo e affida a Moss Hart l’adattamento e a Elia Kazan la regia.

Il giornalista Philip Schuyler Green (Gregory Peck), da poco rimasto vedovo e con il piccolo figlio Tod (Dean Stockwell) da crescere, riceve un’ottima offerta di lavoro da una nota rivista di New York. Fra i primi lavori offertigli c’è un’inchiesta sull’antisemitismo che ha proposto Lucy (Dorothy McGuire) la giovane nipote del direttore, con la quale Green allaccia subito un rapporto particolare.

Green è titubante, perché convinto che il tema sia stato già notevolmente affrontato, ma quando cerca di spiegarlo al figlio Tod, capisce che invece c’è ancora tanto da dire e da narrare. Così accetta l’incarico e vorrebbe mettersi in contatto con David (John Garfield) suo compagno d’infanzia e amico del cuore, di religione ebraica. Da lui certo potrebbe avere idee e suggerimenti, ma David è ancora nelle Forze Armate e parlargli è al momento praticamente impossibile.

Green decide così di farsi passare lui per ebreo, a partire con i colleghi della rivista. Suo malgrado Philip e i suoi cari dovranno affrontare quel subdolo e feroce razzismo che si nasconde nella società…

Pietra miliare della cinematografia mondiale e vero e proprio manifesto contro il razzismo – Green si dichiara palesemente contro anche la discriminazione verso le persone di colore che nel 1947, negli Stati Uniti, era davvero “poco di moda” – e l’antisionismo in generale. E lo fa attaccando non solo la parte più reazionaria e intollerante della società, ma soprattutto considerando complici tutti coloro che per quieto vivere o per evitare problemi non vi si oppongono palesemente. A partire dalle barzellette sugli ebrei, e per finire agli alberghi che non accettano ebrei fra i loro clienti o alle grandi aziende che non assumono persone con cognomi di chiara provenienza sionista.

Un film immortale e tragicamente attuale, visto che il feroce razzismo – e non solo quello contro le persone di tradizione israelitica – è drammaticamente fin troppo presente nella nostra società.

Poco dopo aver ritirato l’Oscar come miglior regista, Elia Kazan venne investito da quella che poi venne soprannominata la “caccia alle streghe”; e cioè la crociata anticomunista che il senatore McCarthy guidò fra gli studi di Hollywood alla ricerca dei traditori degli Stati Uniti. Come è noto, Kazan fu il primo grande “pentito” del mondo dello spettacolo che abiurò la sua partecipazione alle cosiddette attività antiamericane e denunciò vari colleghi, fra registi, produttori e attori, pur di continuare a fare il suo lavoro. Cosa che ebbe strascichi per il resto della sua vita, tanto che nel 1999 quando gli venne consegnato l’Oscar alla carriera, alcuni noti divi di Hollywood rimasero seduti e con le braccia conserte mentre altri applaudivano.

Diverso è invece l’epilogo della storia di John Garfield, anche nella vita – come nel film – di tradizione ebraica e che per la sua vicinanza al Partito Comunista venne bandito da Hollywood. Garfield aveva condiviso con Kazan negli anni Trenta il Theater Group, una compagnia d’avanguardia con chiare simpatie sinistrorse. Era un attore di teatro di razza e per questo lo stesso Kazan gli offrì il ruolo di Stanley Kowalski nella prima messa in scena di “Un tram che si chiama desiderio” a Broadway. Ruolo che per il suo rifiuto andò al giovane e sconosciuto Marlon Brando. Quando a causa della “caccia alle streghe” il cinema gli chiuse la porta in faccia, il teatro a New York lo riaccolse con affetto. Ma le accuse di essere un “antiamericano” lo minarono nell’anima e mentre reperiva le prove per dimostrare che le insinuazioni contro di lui erano vergognosamente infondate, Garfield si perse nell’alcol schiacciato dall’infamante inquisizione maccartistica, scomparendo a soli 39 anni in piena solitudine.

“Barriera invisibile” vince, tra altri numerosi premi, tre Oscar: come miglior film, miglior regia e per la migliore attrice non protagonista a Celeste Holm, che interpreta una reporter di moda con cui Green subito lega.

Da far vedere a scuola.

“Un tram che si chiama desiderio” di Elia Kazan

(USA, 1951)

Quattro anni dopo aver diretto a Broadway la prima messa in scena di “Un tram che si chiama desiderio” (che anche grazie a lui diventerà l’opera più famosa di Tennesse Williams), viene affidata allo stesso Elia Kazan la regia del suo primo adattamento cinematografico.

Il successo clamoroso al teatro convince la produzione a prendere in blocco il cast, tranne per il ruolo della protagonista Blanche DuBois. A Jessica Tandy – che l’aveva incarnata sulle assi del palcoscenico di Broadway – viene preferita infatti la star Vivien Leigh – già famosissima protagonista di “Via col vento” – che nel 1949 l’aveva impersonata splendidamente all’Aldwych Theatre di Londra, sotto la regia del marito Laurence Olivier.

Kazan, che conosce bene l’opera teatrale ma che è anche un maestro dietro la macchina da presa, realizza un vero e proprio capolavoro cinematografico che mantiene ogni tragica essenza della pièce originale. L’adattamento viene scritto da Oscar Saul, ma la mano di Kazan si vede chiaramente in ogni fotogramma. Ancora oggi il film conserva tutta la sua potenza narrativa, raccontandoci la drammatica discesa agli inferi di una donna vittima di se stessa e soprattutto vittima degli uomini e dei loro più famelici desideri.

L’impatto sull’immaginario collettivo è clamoroso, e Marlon Brando si ritrova ad essere uno degli uomini più famosi e desiderati del pianeta. Il successo del film, tanto per fare un esempio, lancia definitivamente l’uso – soprattutto negli USA – della t-shirt (allora indumento quasi esclusivo delle Forze Armate) che sostituisce di fatto la classica canottiera. Le cronache del tempo ci raccontano dei continui lavaggi che Kazan faceva fare alle magliette che poi avrebbe indossato lo stesso Brando per renderle sempre più aderenti.     

La pellicola fa incetta di premi in tutto il mondo. Candidata a 12 Oscar ne vince 4: la Leigh come miglior attrice protagonista (che si aggiudica anche la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia, dove viene assegnato a Kazan il Gran Premio della Giuria), Karl Malden come miglior attore non protagonista e Kim Hunter come miglior attrice non protagonista (che si aggiudica anche il Golden Globe). La quarta il film la vince come miglior scenografia.

Incredibilmente così Brando, candidato come migliore attore protagonista, non la vince: gli viene preferito Humprey Bogart per “La regina d’Africa” di John Huston. Se è indubbia la grande prova d’attore di Bogart nel capolavoro di Huston, è inaccettabile la sconfitta di Brando. Perché sono passati quasi settant’anni dalla realizzazione del film e ancora oggi si studia la sua interpretazione di Stanley Kowalski che di fatto ha cambiato per sempre il modo di recitare, sublimando prima a Broadway e poi a Hollywood il metodo Stanislavskij; tecnica alla base dell’Actor’s Studio (tra i cui fondatori c’era lo stesso Kazan) di cui lo stesso Brando fu allievo. Evidentemente l’attore scontò la brutale e sanguigna carnalità del suo personaggio, troppo vero e sessuato per essere premiato nella società americana tanto perbenista di allora, assieme al suo storico e personale anticonformismo.  

Il dvd contiene la preziosa versione in italiano fatta quando il film uscì nelle nostre sale. A doppiare superbamente i due protagonisti sono Lydia Simoneschi (che già aveva donato la voce alla Leigh in “Via col vento”) e Stefano Sibaldi. Se rimane storica la sua prestazione (tanto che Luciano Ligabue la usa per aprire il suo storico brano “Marlon Brando è sempre lui” mentre chiama disperato “…Stella! …Stella!”) è vero anche che Sibaldi non presterà mai più la voce a Brando, poi doppiato soprattutto dai grandi Giuseppe Rinaldi ed Emilio Cigoli.

Questo, probabilmente, perché il tono della voce di Sibaldi sembra più adatto alla commedia che al dramma, non essendo particolarmente basso e carnoso. Ma se si ascolta la versione originale del film ci si accorge che in realtà la voce di Brando possiede un tono molto più simile a quello di Sibaldi, rispetto a quelli di Rinaldi o Cigoli, molto più profondi. A dimostrazione di ciò, quando qualche anno dopo uscì nelle nostre sale il film “Bulli e pupe” di Joseph L. Mankiewicz, in cui Brando canta – e il nostro distributore decise di non doppiare le parti cantate – non a caso molte delle fan nostrane dell’attore rimasero …un pizzichino deluse.

Nella sezione extra è presente il commento originale del film fatto da Karl Malden, e dai critici Rudy Behlmer e Jeff Young. Sono inseriti anche due trailer originali: quello del film e quello de “La valle dell’Eden” diretto da Kazan nel 1955.