“Barriera invisibile” di Elia Kazan

(USA, 1947)

La Seconda Guerra mondiale è appena terminata e il mondo inizia a raccogliere le sanguinose macerie. Anche le nazioni vincitrici devono fare i conti con il proprio lato oscuro che, volenti o nolenti, il conflitto ha alimentato.

Sulle pagine di “Cosmopolitan” appare il romanzo “Gentleman’s Agreement” della scrittrice newyorkese Laura Z. Hobson che parla della piaga del razzismo, soprattutto quello verso le persone di religione ebraica, che negli Stati Uniti, ma anche in molti altri parti del mondo, affligge la società.

Il produttore Darryl Z. Zanuck decide di portarlo sullo schermo e affida a Moss Hart l’adattamento e a Elia Kazan la regia.

Il giornalista Philip Schuyler Green (Gregory Peck), da poco rimasto vedovo e con il piccolo figlio Tod (Dean Stockwell) da crescere, riceve un’ottima offerta di lavoro da una nota rivista di New York. Fra i primi lavori offertigli c’è un’inchiesta sull’antisemitismo che ha proposto Lucy (Dorothy McGuire) la giovane nipote del direttore, con la quale Green allaccia subito un rapporto particolare.

Green è titubante, perché convinto che il tema sia stato già notevolmente affrontato, ma quando cerca di spiegarlo al figlio Tod, capisce che invece c’è ancora tanto da dire e da narrare. Così accetta l’incarico e vorrebbe mettersi in contatto con David (John Garfield) suo compagno d’infanzia e amico del cuore, di religione ebraica. Da lui certo potrebbe avere idee e suggerimenti, ma David è ancora nelle Forze Armate e parlargli è al momento praticamente impossibile.

Green decide così di farsi passare lui per ebreo, a partire con i colleghi della rivista. Suo malgrado Philip e i suoi cari dovranno affrontare quel subdolo e feroce razzismo che si nasconde nella società…

Pietra miliare della cinematografia mondiale e vero e proprio manifesto contro il razzismo – Green si dichiara palesemente contro anche la discriminazione verso le persone di colore che nel 1947, negli Stati Uniti, era davvero “poco di moda” – e l’antisionismo in generale. E lo fa attaccando non solo la parte più reazionaria e intollerante della società, ma soprattutto considerando complici tutti coloro che per quieto vivere o per evitare problemi non vi si oppongono palesemente. A partire dalle barzellette sugli ebrei, e per finire agli alberghi che non accettano ebrei fra i loro clienti o alle grandi aziende che non assumono persone con cognomi di chiara provenienza sionista.

Un film immortale e tragicamente attuale, visto che il feroce razzismo – e non solo quello contro le persone di tradizione israelitica – è drammaticamente fin troppo presente nella nostra società.

Poco dopo aver ritirato l’Oscar come miglior regista, Elia Kazan venne investito da quella che poi venne soprannominata la “caccia alle streghe”; e cioè la crociata anticomunista che il senatore McCarthy guidò fra gli studi di Hollywood alla ricerca dei traditori degli Stati Uniti. Come è noto, Kazan fu il primo grande “pentito” del mondo dello spettacolo che abiurò la sua partecipazione alle cosiddette attività antiamericane e denunciò vari colleghi, fra registi, produttori e attori, pur di continuare a fare il suo lavoro. Cosa che ebbe strascichi per il resto della sua vita, tanto che nel 1999 quando gli venne consegnato l’Oscar alla carriera, alcuni noti divi di Hollywood rimasero seduti e con le braccia conserte mentre altri applaudivano.

Diverso è invece l’epilogo della storia di John Garfield, anche nella vita – come nel film – di tradizione ebraica e che per la sua vicinanza al Partito Comunista venne bandito da Hollywood. Garfield aveva condiviso con Kazan negli anni Trenta il Theater Group, una compagnia d’avanguardia con chiare simpatie sinistrorse. Era un attore di teatro di razza e per questo lo stesso Kazan gli offrì il ruolo di Stanley Kowalski nella prima messa in scena di “Un tram che si chiama desiderio” a Broadway. Ruolo che per il suo rifiuto andò al giovane e sconosciuto Marlon Brando. Quando a causa della “caccia alle streghe” il cinema gli chiuse la porta in faccia, il teatro a New York lo riaccolse con affetto. Ma le accuse di essere un “antiamericano” lo minarono nell’anima e mentre reperiva le prove per dimostrare che le insinuazioni contro di lui erano vergognosamente infondate, Garfield si perse nell’alcol schiacciato dall’infamante inquisizione maccartistica, scomparendo a soli 39 anni in piena solitudine.

“Barriera invisibile” vince, tra altri numerosi premi, tre Oscar: come miglior film, miglior regia e per la migliore attrice non protagonista a Celeste Holm, che interpreta una reporter di moda con cui Green subito lega.

Da far vedere a scuola.