“The Fighter” di David O. Russell

(USA, 2010)

“The Fighter” esplora le complesse sfaccettature familiari e personali dietro la vera carriera e la vera vita del pugile statunitense Micky Ward. Ma, attenzione, non è solo una storia di pugilato, ma una dissezione cruda e implacabile delle dinamiche familiari e delle lotte interiori che spingono un uomo verso il ring e, ancor di più, verso la redenzione.

Mark Wahlberg, nel ruolo di Micky Ward, è come una corda tesa, sempre sul punto di spezzarsi, ma incredibilmente resiliente. La sua interpretazione è una sinfonia di silenzi e sguardi che dicono tutto senza dire nulla. Ma, come spesso accade nei migliori racconti, sono i personaggi ai margini a catturare l’attenzione. Christian Bale (che vince l’Oscar come migliore attore non protagonista) nei panni del fratellastro Dicky Eklund, è un tornado di energia caotica e devastante. Ex pugile promettente ormai caduto in disgrazia, Dicky è una figura tragica, un uomo che combatte demoni più spaventosi di qualsiasi avversario sul ring: la tossicodipendenza da crack. E Bale lo interpreta con una ferocia che è sia terrificante che profondamente commovente.

E poi c’è Melissa Leo (anche lei premio Oscar come migliore attrice non protagonista), che incarna magistralmente la madre di Micky e Dicky, una donna tanto devota quanto manipolatrice, madre e patriarca di nove figli avuti da uomini diversi. La sua interpretazione è come una mano gelida che ti stringe il cuore, costringendoti a riconoscere la complessità della maternità in un ambiente così spietato e senza sconti, come sono i margini della società americana.

Russell dirige con la precisione di un chirurgo, alternando con maestria le scene di combattimento viscerali con momenti di dramma familiare che tagliano come coltelli affilati. La fotografia di Hoyte van Hoytema cattura la grinta e la desolazione di Lowell, Massachusetts, come una città intrappolata in un incubo senza fine.

La sceneggiatura, firmata da Scott Silver, Paul Tamasy e Eric Johnson, evita i sentieri battuti dei film sportivi, scegliendo invece di immergersi nelle profondità delle relazioni umane. I dialoghi sono taglienti e autentici, come voci che sussurrano segreti oscuri nelle orecchie degli spettatori. Non è un caso, quindi, che come produttore esecutivo ci sia il regista Darren Aronofsky.

La colonna sonora, con brani di The Rolling Stones e degli Aerosmith, non è solo un accompagnamento musicale, ma un pulsante battito cardiaco che sottolinea ogni pugno, ogni urlo, ogni lacrima e ogni bacio appassionato.

“The Fighter” non è solo pugilato, ma un’epopea umana che scava nei recessi più oscuri dell’anima. È una storia di riscatto e sacrificio, di speranza e disperazione, che ti lascia esausto ma stranamente ispirato. Come un bel romanzo, è un viaggio che esplora non solo il coraggio e la determinazione, ma anche le ombre che perseguitano ciascuno di noi. E alla fine, ti rendi conto che il vero combattimento non è mai sul ring, ma sempre dentro di noi.

Nel cast da ricordare anche l’ottima interpretazione di Amy Adamas nei panni di Charlene, la compagna di Micky.

“The Door” di István Szabó

(Ungheria/Germania, 2012)

Il regista ungherese István Szabó ci porta in un piccolo mondo che racchiude la complessità della vita stessa. Basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Magda Szabó (1917-2007) pubblicato per la prima volta nel 1987, il film esplora la relazione tra due donne molto diverse tra loro, Magda ed Emerenc. La storia è ambientata nell’Ungheria degli anni ’60, e possiede un’umanità profonda e una delicatezza colme di dettagli e sfumature della vita quotidiana, ed esplora le profondità dell’animo umano attraverso la storia di un’intensa relazione tra due donne di epoche e classi sociali diverse.

Magda (interpretata splendidamente da Martina Gedeck) è una scrittrice emergente, che cerca di bilanciare la sua carriera con la sua vita personale centrata sul matrimonio con Tibor (Károly Eperjes). Quando assume Emerenc (una magistrale Helen Mirren) come domestica, inizia un rapporto che è tanto complesso quanto affascinante. Emerenc è una figura enigmatica, con un passato pieno di segreti, che vive una vita rigida e austera. La porta chiusa della sua casa diventa un simbolo potente, rappresentando le barriere emotive e i misteri che separano le due donne.

Szabó utilizza un linguaggio visivo ricco di dettagli, che ricorda i piccoli momenti quotidiani che tanto amo esplorare nei miei romanzi. Ogni scena è costruita con cura, come una stanza piena di ricordi e storie nascoste. La fotografia è delicata e attenta, catturando le sfumature della luce e dell’ombra che giocano sui volti dei personaggi e negli angoli delle loro vite. Questo approccio crea un’atmosfera intima e riflessiva, invitando lo spettatore a soffermarsi e a contemplare la bellezza nascosta nelle piccole cose.

Helen Mirren, nel ruolo di Emerenc, è semplicemente straordinaria. La sua interpretazione dà vita a un personaggio che è allo stesso tempo forte e vulnerabile, pieno di dignità e profondamente umano. Martina Gedeck, nei panni di Magda, è altrettanto convincente. La sua rappresentazione di una donna moderna che cerca di capire e connettersi con un mondo molto diverso dal suo è toccante e autentica. Insieme, le due attrici creano una dinamica complessa e avvincente, che è il cuore pulsante del film.

“The Door” è un film che parla di segreti, fiducia e il difficile cammino verso la comprensione reciproca. Szabó ci mostra che, come nelle migliori storie, le risposte non sono sempre chiare o facili da trovare. Ogni personaggio è un enigma, ogni relazione una sfida. Ma è proprio questa incertezza che rende la vita così ricca e affascinante.

Guardare “The Door” è come leggere un romanzo che svela lentamente i suoi segreti, pagina dopo pagina. È un film che ci invita a guardare oltre la superficie, a cercare il significato nascosto nelle piccole cose, e a trovare la bellezza nei momenti di pura connessione umana.

In un’epoca in cui cerchiamo spesso risposte rapide e definitive, “The Door” ci ricorda che la vera comprensione richiede tempo, pazienza e un cuore aperto. È un’opera che ci tocca profondamente, lasciandoci con la consapevolezza che, alla fine, le storie più belle sono quelle che ci sfidano a guardare più da vicino e ad amare ciò che troviamo.

Da vedere.

“I misteri del giardino di Compton House” di Peter Greenaway

(UK, 1982)

Nel 1982 arriva nelle sale cinematografiche britanniche, e poi in quelle di tutto il mondo, la seconda pellicola scritta e diretta dal poliedrico e geniale autore gallese Peter Greenaway, che riscuote in breve tempo un successo planetario.

1694, nella campagna inglese si erge l’imponente tenuta di Compton House di proprietà di Mr. Herbert, tenuta che faceva parte della dote di sua moglie. Mrs. Herbert (Janet Suzman, attrice e registra teatrale sudafricana, che nel 1974 è fra gli interpreti de “Il caso Drabble” di Don Siegel) per omaggiare il coniuge, che sta partendo per un viaggio di affari, decide di commissionare al giovane pittore Mr. Neville (Anthony Higgins che solo qualche mese prima aveva partecipato a “I predatori dell’arca perduta” di Steven Spielberg e nel 1985 diventerà il cattivo nel delizioso “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson e prodotto sempre da Spielberg) 12 disegni della tenuta.

Per accettare la commessa, oltre che il compenso in denaro, Neville esige che nel contratto, redatto in presenza del notaio di fiducia degli Herbert, venga inserita una clausola grazie alla quale lui possa ottenere a proprio piacimento i favori sessuali, incondizionati, di Mrs. Herbert.

Il pittore inizia così le sue opere per le quali pretende che la tenuta venga lasciata libera il più possibile, cosa che incide direttamente sulle numerose attività di servitù e giardinieri, e soprattutto indispone non poco Mr. Talmann (Hugh Fraser) di “imperdonabili” origini tedesche e marito dell’unica figlia degli Herbert.

Mr. e Mrs. Talmann (Anne Louise Lambert, che qualche anno prima aveva partecipato, nel ruolo di una studentessa, al bellissimo “Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir), infatti, vivono a Compton House che, insieme agli altri beni di Mr. Herbert, andrà a loro in eredità solo quando questi avranno un erede; erede che però stenta ad arrivare a causa dell’indolenza e della pigrizia sessuale dello stesso Mr. Talmann.

Mentre le dodici tavole prendono corpo, Mr. Neville nota dei piccoli particolari insoliti sparsi nelle vedute, come una scala per raccogliere la frutta appoggiata alla finestra di Mrs. Talmann, un paio di stivali abbandonati nei pressi del fossato allagato della tenuta, o una camicia da uomo impigliata fra i rami di un albero.

Il suo carattere, che ovviamente si riflette nella sua arte, impone a Neville di riprodurre fedelmente la realtà anche nei particolari che sembrano incongruenti o stonare con l’ambiente circostante. Mentre il pittore sta per terminare le sue opere, il cadavere di Mr. Herbert viene ritrovato nel fossato allagato di Compton House…

Il termine visionario spesso è inflazionato quando si parla di registi cinematografici, ma nel caso di Peter Greenaway, così come in quello di Tim Burton, è senza dubbio il più adatto. Ispirandosi alle opere immortali di Caravaggio, Rembrandt e Vermeer, il regista gallese riesce a creare una potenza visiva sanguigna, carnale e allo stesso tempo elegante e raffinata ancora oggi, ad oltre quarant’anni di distanza.

Sull’interpretazione della pellicola è stato detto e scritto molto, ma lo stesso autore ha sempre avallato quella che si riferisce alle invalicabili differenze fra le classi sociali. La classe dominante, più facoltosa e opulenta, può anche fingere di accogliere il frutto di una “inferiore”, come in questo caso è Neville, e subirne il fascino, ma alla fine se lo fa è solo per il proprio interesse; è perché ne ha bisogno in quel determinato momento per i propri scopi, anche i più segreti ed infidi, e certo non si fa troppi scrupoli alla fine nell’usarlo e poi masticarlo.     

Lo stesso Greenaway, in una intervista sul film, disse: “Neville ritrae ciò che vede e non ciò che sa”.

Altra chiave di lettura è indubbiamente il cinema nel cinema, il racconto nel racconto, il quadro in un quadro, che ci riportano, per esempio, allo straordinario “Blow-Up” del maestro Michelangelo Antonioni. Come il grande cineasta italiano, Greenaway ci fa riflettere in maniera viscerale e allo stesso tempo sublime sull’arte di narrare, anche per immagini. E così ci chiediamo, per esempio, se una cosa è reale solo perché è stata ritratta, o non lo è se nessuno l’ha riprodotta?      

Da vedere.

“Advantageous” di Jennifer Phang

(USA, 2015)

In un futuro prossimo – ahimè non troppo lontano… – Gwen (una bravissima Jacqueline Kim) è la testimonial principale e venditrice di punta del “Center for Advanced Health and Living”, una società privata che cura l’aspetto delle persone e “combatte” il loro invecchiamento fisico.

Gwen vive da sola con sua figlia Jules (Samantha Kim) appena adolescente che, come lei alla sua età, ha un ottimo rendimento scolastico. Per questo la donna intende mandarla nel più rinomato e all’avanguardia liceo della città, nonostante questo abbia una retta quasi proibitiva, per poterle garantire il futuro migliore.

Il mondo di Jacqueline, però, rischia di andare in frantumi quando Fischer (James Urbaniak), suo diretto superiore – con il quale lei ha avuto una relazione sentimentale – le comunica che il “Center for Advanced Health and Living” ha deciso di cambiare testimonial, volendo una persona più giovane e attraente rispetto a lei, e così più vicina al target di mercato che la società intende conquistare. Fischer le rivela, inoltre, che il suo licenziamento è stato voluto direttamente dal CEO della società Isa Cryer (Jennifer Ehie).

Nonostante la pessima notizia ricevuta, Jacqueline non si lascia prendere dal panico ed inizia a cercare un nuovo lavoro, vista anche la sua grande esperienza. Ma le agenzie di collocamento alle quali si rivolge al massimo le offrono di diventare donatrice a pagamento di ovuli. Col passare delle settimane la donna comprende che qualcuno le ha fatto terra bruciata intorno e che nessuno dei concorrenti del “Center for Advanced Health and Living” ha intenzione di contattarla.

Il suo conto in banca si sta inesorabilmente assottigliando e i termini per iscrivere Jules al liceo si avvicinano. Jacqueline prova a rivolgersi così ai suoi genitori che però le negano l’aiuto economico di cui ha bisogno. Disperata, chiede un incontro con Isa Cryer che la riceve con estrema gentilezza e le fa un’offerta: è disposta a riassumerla, anche con uno stipendio più alto, se accetta di sottoporsi al nuovo e rivoluzionario trattamento di bellezza che il Center sta perfezionando. Si tratta, in pratica, di un trasferimento di cervello in un corpo artificiale molto più giovane e “bello”. Inoltre, fattore determinante, lei possiede già tutto il know-how da abile venditrice necessario per pubblicizzare al meglio la nuova “Gwen 2.0”.

Jaqueline si consulta con Fischer che, categorico, le chiede di non farlo, visto che si tratta di un procedimento sperimentale e assai doloroso. Dopo aver parlato con l’uomo, Jacqueline inizia a prendere in considerazione l’ipotesi che ad isolarla lavorativamente sia stata proprio la Cryer per renderla malleabile e farle accettare la proposta.     

Come ultima carta per ottenere un prestito, ed evitare il trattamento, Jacqueline tenta quella di sua cugina Lily (Jennifer Ikeda) e suo marito Han (Ken Jong) che possiedono un ristorante orientale in città, ma…

Scritto dalla stessa Jacqueline Kim assieme a Jennifer Phang, questo ottimo film indipendente ci parla di un futuro non troppo lontano dove le cose sono fin troppo vicine a quelle che noi stiamo vivendo oggi. Nella migliore tradizione della Fantascienza americana – quella con la F maiuscola, a partire da quella del maestro Philip K. Dick, per esempio – questa pellicola ci racconta di un mondo dove le dinamiche sociali sono dettate in primis dal potere economico, vero discriminante per avere possibilità e, soprattutto, diritti.

In un mondo così – che, ripeto, è tanto vicino al nostro – una donna sola deve alla fine inesorabilmente piegarsi alle becere tradizioni di bellezza e alle ferree leggi del mercato anche solo per poter tentare di garantire alla figlia le possibilità per emergere ed evitare di finire nel suo stesso meccanismo perverso.  

Ma è davvero possibile farlo?  …E soprattutto: chi è in posizione, sempre e comunque, di “vantaggio”?

“Foglie al vento” di Aki Kaurismäki

(Finlandia/Germania, 2023)

Ansa (una bravissima Alma Pöysti) lavora come cassiera e commessa in un supermercato di Helsinki. Vive sola nell’appartamento che le ha lasciato la matrigna. Come molti suoi connazionali, non senza difficoltà, a stento arriva a fine mese, questo a causa anche dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe.

Per rimediare, la donna spesso si porta a casa alimenti scaduti che altrimenti andrebbero nella spazzatura. La cosa però è contro le regole e così Ansa, alla fine, viene licenziata.

Holappa (Jussi Vatanen) è un manovale che vive nella baracca del cantiere in cui lavora. E’ un uomo solitario e triste, e per questo è diventato un alcolista. Una sera un suo collega, con la passione del canto, lo convince a seguirlo in un locale di karaoke. Lì i due prendono un drink assieme a una coppia di amiche, una delle quali è Ansa che prova immediatamente un’attrazione, ricambiata, per Holappa.

L’uomo fa di tutto per rincontrarla e finalmente, incrociandola in strada, la invita al cinema. Dopo il film Ansa gli scrive il suo numero su un foglietto e se ne va sorridendo. Ma Holappa non si accorge che il biglietto gli vola via dalla tasca quando, soddisfatto, si incammina verso il posto in cui dorme.

Poco dopo, a causa del malfunzionamento di un macchinario, Holappa è vittima di un piccolo incidente nel cantiere, e quando arriva l’ambulanza i sanitari, fra le altre cose, gli fanno il test dell’alcol. L’uomo così viene licenziato in tronco senza alcun risarcimento. Holappa passa da un cantiere all’altro, sempre in forma clandestina a causa del suo stato ufficiale di alcolista, ma in ogni momento libero cerca Ansa, soprattutto passando numerose volte al giorno davanti al cinema dove sono stati insieme.

Finalmente i due si rincontrano, proprio davanti al locale e lei, venuta a sapere del biglietto perduto, lo invita a cena per la sera successiva. Holappa si assicura di non perdere l’indirizzo della donna e il giorno dopo si presenta a casa sua con un mazzo di fiori. La serata sembra perfetta ma l’uomo, dopo il dessert, manifesta l’esigenza di bere alcol, cosa che sconvolge Ansa: proprio a causa del bere ha perso prima il padre e poi il fratello e così non ha la minima intenzione di frequentare un alcolista. Holappa, indignato, se ne va…

Kaurismäki, che scrive e dirige il film, come sempre tocca corde e vicende legate soprattutto al proletariato, cosa che lo rende uno dei veri e pochi eredi del grande Neorealismo italiano.

Non è un caso, quindi, che come nelle sue altre pellicole, il regista finlandese, omaggi e citi direttamente il grande cinema classico, soprattutto quello europeo della Nouvelle Vague – nel suo delizioso “Ha affittato un killer” ha voluto come protagonista Jean-Pierre Léaud, attore simbolo del maestro Francois Truffaut – con le locandine dei film di Jean-Luc Godard e Robert Bresson, oltre che di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti.

Ma, soprattutto, nella scena in cui Ansa e Holappa parlano di rincontrarsi per la cena, troneggia quella dello splendido “Breve incontro” di David Lean, la cui trama ha certamente ispirato quella di questo film.

Da vedere.

Per questa pellicola, fra i numerosi riconoscimenti internazionali, Aki Kaurismäki si aggiudica il premio della Giuria al Festival di Cannes.

“La signora di Shangai” di Orson Welles

(USA, 1947)

Orson Welles decide di portare sul grande schermo il romanzo noir “Se muoio prima di svegliarmi” pubblicato da Sherwood King per la prima volta nel 1938.

Welles sceglie di dirigere sua moglie Rita Hayworth, fresca del successo planetario del film “Gilda”, in cui incarna una delle figure più sensuali della storia del cinema con la sua fluente chioma rossa. Non è un caso, quindi, che molti decenni dopo le forme e i colori di Jessica Rabbit dello strepitoso “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” di Robert Zemeckis, siano proprio le sue.

Ma Welles ha una visione tutta sua della protagonista del film e così, senza avvisare la produzione, fa tagliare e tingere di biondo platino i capelli della Hayworth. Il film venne terminato nel 1946, ma approdò nelle sale solo due anni dopo – quado Welles e Hayworth avevano già divorziato – perché Harry Cohn, responsabile della Columbia Pictures, non riusciva a tollerare il drastico cambiamento d’aspetto della sua star più famosa del momento. Tornando alla pellicola, forse anche per questo, venne accolta assai tiepidamente dal pubblico che non gradì la Hayworth nei panni di una delle dark lady più oscure del cinema.

Passeggiando per Central Park il giovane marinaio irlandese Michael O’Hara (Orson Welles) incappa casualmente nell’affascinante Elsa Bannister (Rita Hayworth, che con i capelli corti e biondi mantiene integro tutto il suo fascino) e quando questa viene assalita da tre malintenzionati, la salva grazie all’uso ruvido delle sue mani.

La donna ne rimane affascinata e gli propone di lavorare per lei, ma Michael rifiuta. Il giorno dopo, al porto, mentre O’Hara è in attesa di un nuovo imbarco gli si presenta davanti il famoso e ricco avvocato Arthur Bannister (Everett Sloane) che, mandato da sua moglie, lo ingaggia sul suo yacht privato per una crociera sulla coste del Messico.

L’attrazione fra Michael ed Elsa è palpabile e visibile da tutti, ma l’avvocato Bannister sembra non curarsene, anche se…

Indimenticabile noir d’antologia con un potenza narrativa e, soprattutto, visiva davvero incredibile. Il film fu molto criticato alla sua uscita, ma a distanza di tanti anni invece risulta essere uno dei migliori del suo genere in assoluto, con sequenze che ancora oggi vengono imitate e citate. La scena finale del delizioso “Misterioso Omicidio a Manhattan” di Woody Allen è solo uno dei numerosi esempi.

Quando Orson Welles morì nel 1985, già da molto tempo non riusciva più a trovare chi fosse disposto a produrre i suoi film. Ma il tempo è il miglior giudice e così oggi, giustamente, questo film come tutti gli altri firmati da lui sono stati rivalutati e apprezzati come avrebbero dovuto essere fin da subito.

Fra i pochi che lo apprezzarono in vita ci furono – e certo questo non è un caso perché si dice giustamente che ci voglia un genio per riconoscere un altro genio – il maestro Pier Paolo Pasolini che lo volle nel suo “La ricotta”, splendido episodio del film “Ro.Go.Pa.G.” del 1963, proprio nel ruolo del regista del film in cui Stracci (Mario Ciprani) – la comparsa personaggio principale del cortometraggio – lavora.

Il compenso richiesto da Welles fu esorbitante, e la produzione minacciò di annullare l’episodio, ma Pasolini fu irremovibile pur di dirigerlo. Un altro grande autore che apprezzava Welles è stato il grande Rod Serling che tentò di averlo come presentatore nella sua mitica serie “Ai confini della realtà“, ma la CBS reputò inaccettabile il budget richiesto dallo stesso Welles.

“La signora di Shangai” è indubbiamente uno dei migliori noir – e non solo – della storia del cinema che deve essere visto da chi ama il cinema.

“Harry a pezzi” di Woody Allen

(USA, 1997)

Dopo le vicende che hanno sancito la fine, con alcuni pesanti strascichi legali, del rapporto decennale con Mia Farrow – che lo stesso Allen ha poi raccontato dettagliatamente nel suo delizioso “A proposito di niente” – il genio newyorkese ci dipinge la storia personale di Harry Bloch – suo alter ego, tanto che è lui stesso ad impersonarlo – superbo scrittore ma che nella vita personale è un disastro emotivo per chi ha la “sfortuna” di incontrarlo, soprattutto le donne, sua incontenibile e morbosa ossessione.

Come ogni grande artista, anche Harry Bloch si ispira alla propria vita privata per prendere spunto per le sue opere. Caravaggio, usando come modelle le prostitute che frequentava quotidianamente per dare il volto alla Madonna o ad altre figure sacre che dipingeva nei suoi capolavori immortali, al massimo suscitava lo sdegno degli altri prelati che glieli avevano commissionati.

Harry Bloch, invece, pubblicando i suoi racconti e i suoi romanzi, travolge senza il minimo scrupolo la vita delle persone – e ancora una volta soprattutto quella delle donne… – che ha frequentato o frequenta, mettendone in piazza le debolezze, le miserie e i tradimenti.

Nessuno riesce a perdonare Harry, che con il suo egoismo pretende che il mondo si adatti a lui e non il contrario. Autoreferenziale e viziato, Harry è destinato sempre a rimanere solo. E così, alla fine, gli unici che gli staranno accanto, devoti e fedeli, saranno solo i suoi personaggi.

Naturalmente “Harry a pezzi” non ha nulla a che vedere con le vicende personali e legali – ormai definitivamente chiuse – con il matrimonio fra Allen e Farrow, ma è invece una “semplice” confessione personale del regista che alla realtà preferisce sempre e comunque la – …propria – fantasia, dove le cose funzionano e vanno inesorabilmente in linea con il suo – …assai complicato ed irrisolto – essere.

Con un cast stellare fra cui spiccano Judy Davis, Billy Crystal, Richard Benjamin, Julia Louis-Dreyfus, Kristie Alley ed Elisabeth Shue; e con dei camei davvero eccezionali come quello strepitoso di Robin Williams e Julie Kavner, o di Demi Moore e Stanley Tucci, di Eric Bogosian, Mariel Hemingway, Tobey Maguire e Paul Giamatti, “Harry a pezzi” è senza dubbio fra le migliori pellicole in assoluto di Woody Allen.

Da vedere ad intervalli regolari.

“Inside Out 2” di Kelsey Mann

(USA, 2024)

A quasi dieci anni di distanza arriva il sequel dello splendido “Inside Out” diretto da Pete Docter e Ronaldo Del Carmen nel 2015. Come nella migliore tradizione delle sue maestranze, la Pixar si è presa tutto il tempo per scrivere prima e realizzare poi un nuovo ottimo film, che rispetta lo spirito del primo, aggiungendo nuove tematiche e provocazioni.

Riley ormai si è ambientata a San Francisco e, rimanendo sempre fedele a se stessa, l’hockey è una parte centrale della sua vita. Assieme alle sue due migliori amiche sta per finire le scuole medie, ed entrare nella squadra di hockey del liceo che ha scelto, significherebbe molto per il suo avvenire sociale e quindi emotivo.

Ma proprio mentre si appresta a partecipare ad un campo estivo propedeutico all’hockey delle superiori, nel suo “interno” arriva, devastante come un uragano, l’adolescenza.

Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia saranno costretti a condividere lo spazio ed il lavoro con nuove e incontenibili emozioni: Noia, Imbarazzo, Invidia, Nostalgia e soprattutto Ansia che, convinta di aiutare Riley, sarà disposta a radere al suolo tutta l’emotività costruita in tredici anni dalla ragazzina…

Delizioso racconto di quello che è, senza dubbio, uno dei periodi più difficili della vita di ciascun essere umano. Il dolore, l’angoscia e il disorientamento del crescere spesso ci travolgono, ma alla fine, come ci sottolinea questo film, non dovranno essere l’emozioni a determinare quello che siamo noi, ma è la nostra essenza che dovrà influenzare le nostre scelte. Facile da dire, passati gli …anta, diranno giustamente gli adolescenti!

Scritto superbamente da Kelsey Mann assieme a Meg LaFauve (che aveva collaborato anche alla sceneggiatura del primo) e Dave Holstein, “Inside Out 2” ci riconcilia con noi stessi e non solo per quelli che l’adolescenza l’hanno superata leccandosi ancora le ferite, ma anche per coloro che stanno affrontano – …sob – quella dei loro figli. Perché come dice giustamente il Boss: “…Baby, we were born tu run!”.

Per la chicca: solo alla fine dei titoli di coda si può conoscere …l’Oscuro Segreto di Riley!

“L’Outremangeur” di Thierry Binisti

(Francia, 2003)

Tratto dall’omonimo graphic novel che i francesi Tonino Benacquista e Jacques Ferrandez hanno pubblicato nel 1998 – e che dai noi è stato tradotto “Il mangione” – questo singolare film, centrato sul genere noir, in realtà ne sfiora anche altri, risultando alla fine assai originale e allo stesso tempo molto difficile da classificare, a partire dall’attore che incarna – è proprio il caso di dirlo… – il suo protagonista: l’ex calciatore di fama internazionale Eric Cantona.

In una splendida, ma al tempo stesso scontrosa – come lo sono magicamente tutte le località di mare – cittadina della costa atlantica francese, vive il commissario Richard Séléna (un tenebroso Cantona). Nonostante il suo acume e il suo coraggio, quello che tutti subito notano del poliziotto è senza dubbio il suo peso, che supera i 160 chili.

Anche per questo Séléna è un uomo solitario, e vive da solo nella sua grande casa a strapiombo sul mare. Da oltre venticinque anni poi, il commissario, mangia in assoluta solitudine sia in casa, dove ama cucinarsi prelibati manicaretti, che al ristorante, dove trincera il suo tavolo colmo di pietanza categoricamente dietro un separè.      

L’incolmabile vuoto che cerca inutilmente di riempire col cibo parte da un duro trauma che ha subito da bambino, ma che non ha la minima intenzione di affrontare, neanche quando, dopo l’ennesimo problema di salute, il medico non gli dà al massimo 12 mesi di vita.

Le cose cambieranno quando dovrà indagare sull’omicidio del ricco armatore Lachaume, trovato senza vita nell’appartamento sopra i suoi uffici. La principale sospetta è Elsa (Rachida Brakni, compagna nella vita di Cantona) figlia di Émile (Richard Bohringer) fratello del morto, ragazza che il commissario comprende essere stata l’amante dell’armatore.

Invece di consegnare al giudice istruttore le prove per inchiodarla, decide di ricattarla: se non vuole finire in prigione Elsa dovrà passare tutte le sere dei successivi 12 mesi a casa Séléna per cenare al tavolo davanti al commissario.

Furiosa, sdegnata e all’inizio anche schifata la giovane è costretta ad accettare, ma…

Originalissima pellicola che tratta di un argomento molto complicato e non semplice – ma certo non impossibile – da trattare. Il mondo anglosassone, come mi è già capitato di ricordare, è anni luce davanti a noi italiani nel trattare e raccontare la disabilità fisica o mentale che sia, e questo film ci sottolinea che anche i nostri cugini d’oltralpe sono molto più avanti di noi.

Penso a pellicole come “Amore a prima svista” dei fratelli Farrelly – che ha toni certamente più leggeri anche se tanto graffianti – per quanto riguarda il cinema d’oltreoceano, o lo splendido “La mia vita da zucchina” di Claude Barras in relazione al cinema francese. Alla lista di film, forse più noti e blasonati, quindi, si deve aggiungere anche questo.

“Tavole separate” di Delbert Mann

(USA, 1958)

L’inglese Terence Rattigan (1911-1977) nel 1954 firma la commedia teatrale intimista “Separate Tables” che riscuote subito un ottimo successo, anche nei teatri d’oltreoceano. Hollywood se ne interessa, visto poi il forte legame fra Rattigan e il cinema che lo ha portato a firmare già varie sceneggiature e non solo di adattamenti di sue opere teatrali.

Assieme a John Gray e John Michael Hayes (autore di vari script di film poi diretti del maestro Alfred Hitchcock) Rattigan scrive la sceneggiatura che viene diretta da un grande artigiano della macchina da presa come Delbert Mann.

Il “Beauregard” è una piccola pensione a conduzione familiare situata nella località marittima di Bournemouth, nel sud della Gran Bretagna, che si affaccia sul canale della Manica. La pubblicità, che fa regolarmente sui giornali, sottolinea soprattutto la possibilità di desinare in tavole separate, peculiarità solo di un ambiente serio e riservato.

La titolare e inappuntabile direttrice è Pat Cooper (una bravissima Wendy Hiller, che per questa interpretazione vince l’Oscar come miglior attrice non protagonista) che conosce molto bene tutti i suoi ospiti, molti dei quali vivono lì ormai in maniera stabile.

Come ogni microcosmo, anche il “Beauregard” contiene quasi tutti gli strati sociali, a partire dalle aristocratiche Lady Gladys Matheson (Cathleen Nesbitt), Maud Railton-Bell (Gladys Cooper, che presterà il suo volto e la sua arte in pellicole come “I cinque volti dell’assassino” e “My Fair Lady” oltre che in tre episodi della mitica serie “Ai confini della realtà” di Rod Serling) e sua figlia Sibyl (una bravissima Deborah Kerr).

Poi c’è l’attempato ex maggiore Angus Pollock (David Niven) e i due studenti in vacanza Charles (un giovane Rod Taylor) e Jean (Audrey Dalton). Caso a parte è John Malcom (un gagliardo come sempre Burt Lancaster) giornalista e scrittore americano che ormai da quasi cinque anni vive nel piccolo albergo lontano dalla sua New York.

Fra la titolare della pensione e il giornalista americano è nato del tenero e proprio quando finalmente i due sembrano decisi a ufficializzarlo, arriva nell’albergo Ann Shankland (Rita Hayworth), ex modella e, soprattutto, ex moglie di Malcom.

Ma la calma apparente dell’albergo viene minata anche da altri ospiti, e soprattutto dai loro più inconfessabili segreti…         

Mann dirige una pellicola che tratteggia sapientemente, senza sconti per nessuno ma al tempo stesso con un accento finale d’ottimismo, la commedia umana, dove le cose più oscure e velenose sono le ipocrisie e il perbenismo e non certo le debolezze o le fragilità.

Un inno alla tolleranza girato tutto in studio, anche nei brevi e fugaci esterni, e fotografato in uno splendido bianco e nero che gli regala un’atmosfera surreale e indimenticabile.

Se il testo di Rattigan ancora oggi appare assai attuale, questo film lo rende ancora più efficace grazie anche ad un cast davvero stellare dove spiccano, oltre alla Hiller e a Lancaster, David Niven e Deborah Kerr che ci regalano due interpretazioni indimenticabili. I due, non a caso, furono candidati all’Oscar, ma solo Niven conquistò la statuetta.