(UK/USA, 1980)
A volte le rovine di errori o insuccessi nascondono le basi di veri trionfi e opere destinate a cambiare il corso dell’arte. Così, dopo il clamoroso flop al botteghino di “Barry Lyndon” uscito nelle sale nel 1975, Stanley Kubrick aveva assoluto bisogno di realizzare una nuova pellicola di successo per rimanere padrone del proprio lavoro. Il regista, americano di nascita e britannico d’adozione, come per quasi tutti i suoi film, cercava un libro da cui trarre la sceneggiatura e scelse il genere horror che in quel momento stava superando tutti gli altri come adepti e successi in libreria.
Iniziò così, assieme al suo staff, uno studio dei volumi disponibili sul mercato, ma nessuno sembrava soddisfare le sue esigenze. Si dice che proprio in questa occasione abbia preso in considerazione anche la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, che però ritenne irrealizzabile secondo i suoi standard cinematografici.
Ma già dopo aver letto le prime pagine di “Shining”, il nuovo romanzo del giovane autore americano Stephen King pubblicato nel 1977, Kubrick capì di avere fra le mani il soggetto del suo nuovo film. Una volta opzionati i diritti, il grande cineasta iniziò la produzione di quello che sarebbe diventato uno dei suoi successi commerciali più rilevanti, ma sopratutto una pietra miliare della cinematografia planetaria.
Come per ogni sua altra opera cinematografica, Kubrick usava come “spunto” il libro originale per riscrivere la storia a suo modo. Così accadde anche per “Shining”, in cui il regista compie numerosi cambiamenti rispetto al romanzo originale. Le cronache del tempo ci riportano non poche lamentele e critiche stizzite dello stesso King nei confronti di Kubrick reo, secondo lo scrittore, di non rimanere fedele al suo scritto.
Fra quelle più evidenti ci sono le diaboliche siepi vegetali che nel film sono sostituite dal labirinto, così come altri particolari a partire dal numero della camera (217 e non 237 come nel film) o di come l’anima malvagia dell’Overlook Hotel divori quella di Jack Torrance, processo nel romanzo più lento rispetto a quello del film.
Per questo, probabilmente, Kubrick inserisce nel film una sequenza apparentemente inutile. Mentre Hallorann (Scatman Crothers) preoccupato torna all’Overlook Hotel, percorrendo una strada innevata viene rallentato da un grave incidente. Si tratta di un autoarticolato che si è ribaltato e ha travolto un’automobile. Il regista ci da il tempo di notare che la macchina distrutta, il cui conducente evidentemente non ha avuto scampo, è un maggiolino Volkswagen di colore rosso. Proprio come quello del Jack Torrance del romanzo, che non è del colore chiaro di quello del protagonista del film. Kubrick, quindi, ci ricorda risolutamente che stiamo vedendo una sua opera e non una di King, il cui protagonista originale è bello che morto e sepolto sotto a un TIR, invitandoci a farcene definitivamente una ragione.
Un libro e il film tratto da esso, volenti o nolenti, sono due opere nettamente differenti, così come lo sono per forma, tempi e struttura la letteratura e il cinema. Se il romanzo di King è davvero avvincente e al tempo stesso inquietante raccontando in maniera originale e terribile il più grande incubo di uno scrittore: l’impotenza creativa; la pellicola di Kubrick ci trascina inesorabilmente nell’inferno di una mente malata materializzando quell’incubo con scene mozzafiato e terrificanti.
Ogni sequenza è studiata per creare disagio nello spettatore, grazie anche alla tecnica della pubblicità subliminale che in quegli anni venne definitivamente vietata e che il regista studiò a fondo. Kubrick mette finestre dove fisicamente è impossibile che ci siano, crea continue allusioni sessuali spesso spiacevoli e ambigue, o cambia il senso della moquette a seconda dell’inquadratura.
Anche l’uso del sonoro è “diabolico”, basta pensare alla sequenza del piccolo Danny che gira sul triciclo per l’albergo, prima di incontrare le gemelle, sequenza in cui il rumore delle ruote viene ripetutamente interrotto dai tappeti sistemati ad hoc.
Cinematograficamente parlando, poi, c’è il massiccio uso della steadicam a mano, la macchina da presa che invece del carrello viene mossa direttamente dall’operatore che l’ha sistemata sulle spalle. Con una serie di carrucole e leve, nonostante il movimento, la riprese sono perfette senza oscillazioni né sobbalzi. Cosa che permette di girare scene in movimento, come su una scalinata, senza problemi. A inventarla è stato a metà degli anni Settanta l’americano Garrett Brown – che, per esempio, nel 1976 gira la famosa scena in cui Sylvester Stallone corre sulla scalinata in “Rocky” – che Kubrick sceglie come operatore del film.
Grazie a Brown e alla sua steadicam, Kubrick ci fa seguire gli attori in maniera quasi morbosa e ossessiva, cosa che aumenta l’ansia e il disagio di noi spettatori. Naturalmente va ricordato anche il cast artistico con uno stratosferico Jack Nicholson – apprezzato anche da King -, Shelley Duvall, lo stesso Crothers e il piccolo Danny Lloyd. Nella nostra versione deve essere citato anche il grande Giancarlo Giannini che dona superbamente la voce a Nicholson con quel suo “Wendy …sono a casa!” che ancora ci fa venire i brividi.
Nonostante sia stato sempre considerato un regista dispotico e maniacale, poco amato dagli attori che hanno avuto l’onore di lavorare con lui, Stanley Kubrick rimane indiscutibilmente uno dei più grandi registi di tutti i tempi, e questo film, come molti altri da lui firmati, ce lo ricorda perentoriamente visto che a distanza di oltre quarant’anni ancora ci mette i brividi.
Un capolavoro assoluto.