“Lo chiamavano Trinità…” di Enzo Barboni

(Italia, 1970)

Il 22 dicembre del 1970 usciva nelle sale italiane “Lo chiamavano Trinità…” diretto e scritto da Enzo Barboni con lo pseudonimo di E.B. Clucher.

La pellicola doveva essere solo uno dei numerosi “spaghetti-western” che dalla metà degli anni Sessanta, grazie al genio del maestro Sergio Leone, era diventato uno dei filoni più di successo del nostro cinema.

Ma Barboni scrive un western all’italiana atipico, molto ironico e gioviale, dove i cattivi vorrebbero fare i cattivi ma non ci riescono fino in fondo, e dove i buoni vincono sempre. Il successo al botteghino è clamoroso, fra i più alti di quegli anni.

Molti fanno risalire la verve comica di Barboni al suo passato di direttore della fotografia soprattutto per il regista Sergio Corbucci, anche lui maestro del genere e anche della commedia all’italiana.

L’esordio in questo ruolo per Barboni arriva nel 1961 quando dirige le luci per il film dello stesso Corbucci “I due marescialli” con gli stratosferici Totò e Vittorio De Sica.

E siccome parliamo di una delle coppie comiche più rilevanti e riuscite del nostro cinema, non è difficile ipotizzare che i meccanismi giusti ed efficaci di un duo, Barboni li abbia iniziati a imparare lì.

Oltre al regista, il successo clamoroso del film deve essere imputato ovviamente anche ai suoi due grandissimi protagonisti che hanno segnato in maniera indelebile il nostro cinema e la nostra cultura: Bud Spencer e Terence Hill.

Carlo Pedersoli e Massimo Girotti, infatti, incarnano una fra le “coppie perfette” della storia del nostro cinema (e non solo), molte volte imitata, ma mai davvero eguagliata. Con il bello e attaccabrighe Hill, “carnefice” comico dell’orso sornione Spencer, su cui scarica tutti i problemi e i pugni che ama provocare. Meritano di essere ricordati, oltre a i due attori, anche i loro rispettivi doppiatori: Pino Locchi per Hill e Glauco Onorato per Spencer, davvero due grandi artisti.

In anni in cui i film western erano spesso molto duri e violenti, Bambino e Trinità creano il nuovo sub genere detto dei “fagioli-western” (che prende il nome dalla scena iniziale in cui Trinità si finisce in pochi istanti una padella piena di fagioli), dove al posto delle pistole si preferiscono i pugni, che fanno anche volare in aria, ma che non feriscono veramente nessuno. Non una goccia di sangue, infatti, appare durante le famigerate scazzottate.

Girato totalmente in Italia, tra il Lazio e l’Abruzzo – il villaggio degli “agricoltori” venne realizzato a Campo Imperatore – “Lo chiamavano Trinità…” a distanza di quasi cinquant’anni ha intatto tutto il suo smalto e la sua fresca e serena ironia, e ci ricorda ancora che grande cinema abbiamo avuto e che grandi artisti e professionisti c’erano davanti e dietro la macchina da presa.

Non è un caso, quindi, che Quentin Tarantino abbia usato il tema musicale di questo film nel suo “Django Unchained” del 2012.

Immortale.

“I 2 superpiedi quasi piatti” di E.B. Clucher

(Italia/USA, 1977)

Qui parliamo di un pezzo della mia infanzia. Di uno dei film più spettacolari della coppia mitica Bud Spencer-Terence Hill. Campione di incassi quando uscì nelle sale, oggi è considerato, giustamente, un vero cult.

Scritto e diretto da E.B. Clucher – al secolo Enzo Barboni – questa pellicola ancora oggi non perde un colpo. Grazie ai suoi due grandi protagonisti, certo, ma anche alle maestranze teniche e artistiche che vi partecipano. Artisti come lo stesso Barboni o David Huddleston – il capitano McBride – che nella sua lunga carriera ha lavorato con registi come Roman Polanski, Terence Young, Mel Brooks o i fratelli Coen. Per non parlare poi di tutti i bravissimi stuntman.

La redenzione di Wilbur/Spencer e Matt/Hill, che da lestofanti diventano poliziotti modello in una solare Miami, ancora ci coinvolge. Come ci coinvolgono le gag e la battute storiche. Dalla spudorata preferenza del capitano McBride per Matt (che ricorda tanto quella di Parisina per Mario/Troisi a scapito di Saverio/Beningi ne “Non ci resta che piangere” girato quasi sette anni dopo) al il tentato raggiro da parte della falsa aristocratica russa Galina Kocilova e amica.

E proprio in casa della Kocilova si consuma una delle battute del secolo:

Matt: Tu lo reggi il whisky?

Wilbur: I primi due galloni si, poi divento nostalgico e può scapparci la lite.

Immortale.

Luigi Magni

Ieri mattina se ne è andato Luigi Magni, grande regista, ma anche grande sceneggiatore del nostro cinema.

Dopo aver partecipato alla stesura di alcune commedie leggere da botteghino, Magni firma quella de “Il mio amico Benito”, diretta da Giorgio Bianchi nel ’62 e ambientata del Ventennio, con un grande Peppino De Filippo nei panni di un uomo onesto e retto che viene bistratto da tutti – compresi famiglia e colleghi – fino a quando, improvvisamente, si ricorda di essere stato compagno d’armi del Mussolini nella Prima Guerra Mondiale, evento che potrebbe davvero cambiare la sua esistenza, ma che alla fine la sua integrità lo porterà a rinnegare.

Nel ’64 scrive “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile, ambientato nella Roma papalina, con un bravissimo Paolo Ferrari. L’anno dopo collabora con Lizzani allo script de “La Celestina P…R…”. Il 1968 è l’anno in cui esordisce alla regia con “Faustina”, ma collabora anche con Monicelli ne “La ragazza con la pistola”.

L’anno successivo esce il film che molti considerano il suo capolavoro “Nell’anno del Signore”, con uno dei cast più importanti del nostro cinema. Nel 1971 collabora con l’amico Nino Manfredi alla sceneggiatura di “Per grazie ricevuta”, diretto dallo stesso Manfredi e ancora oggi considerata una delle migliori commedie all’italiana a colori.

Sempre nel ’71 scrive e dirige il crepuscolare “Scipione detto anche l’Africano”. Nel 1973 arriva “La Tosca” tratto dal dramma di Sardou e musicato splendidamente dallo stesso Magni assieme al maestro Armando Trovajoli. “Nun je dà retta Roma” è uno dei momenti più belli del cinema italiano degli anni Settanta.

Nel 1976 partecipa ai film a episodi  “Signore e signori, buonanotte” e “Quelle strane occasioni”, mentre nel 1977 firma un’altra pietra miliare: “In nome del Papa Re”.

Con la crisi del cinema anche Magni, come molti altri grandi autori, passa alla televisione. Nel 1983 scrive e dirige “State buoni …se potete” con un bravo Johnny Dorelli nei panni di San Filippo Neri e con le musiche di Angelo Branduardi.

Nel 1984 gira il bellissimo documentario “L’addio a Enrico Berlinguer”. Nel 1987 firma “Secondo Ponzio Pilato”, sottovalutato dal pubblico forse per l’interpretazione gigiona – troppo alla “Manfredi” -di Nino Manfredi nelle vesti di uno dei temporeggiatori pavidi più famosi della storia.

Nel 1989 debutta al teatro Sistina di Roma “I 7 Re di Roma” per la regia di Pietro Garinei, con uno stratosferico Gigi Proietti, scritto dallo stesso Magni con le splendide musiche di Nicola Piovani.

Nel 1990 firma “In nome del popolo sovrano”, che torna alle origini nella sua Roma papalina divisa nel Risorgimento. Tema che affronta nuovamente, e per l’ultima volta, ne “La Carbonara” nel 2000, che chiude di fatto la sua cinematografia.

Ma, come sceneggiatore lasciatemelo ricordare anche per un altro film, che ha accompagnato la mia infanzia: “Il soldato di ventura”, diretto da Pasquale Festa Campanile nel 1976, con un Bud Spencer in gran forma nei panni di Ettore Fieramosca durante la mitica “Disfida di Barletta”.

E andiamo! Ricordiamoci che al momento siamo i detentori del Trofeo Garibaldi! Non dico altro…