“Il posto dell’anima” di Riccardo Milani

(Italia, 2003)

C’era una volta una multinazionale titolare di una fabbrica, assai produttiva, nella provincia italiana. Con i suoi circa cinquecento operai, questa fabbrica superava le previsioni di produzione elaborate dai vertici della multinazionale risiedenti in uno dei dei paesi economicamente più potenti del globo.

E così, anche se ogni tanto qualche operaio si ammalava e in poco tempo moriva di cancro, a causa delle esalazioni legate alla scarsa sicurezza e alla prevenzione quasi nulla nello stabilimento – per mantenere alti la produzione e i ricavi – tutto il mondo – fatto di centinaia di famiglie, di mogli e di figli bambini o ragazzi – che ruotava intorno ad essa, tirava avanti.

Ma un brutto giorno arrivò la notizia che, nonostante tutti gli sforzi fatti dalle lavoratrici e dai lavoratori, la produttività della fabbrica non era più quella di una volta – proprio come le famigerate “mezze stagioni” – e, col cuore spezzato, i vertici stranieri della multinazionale si videro “costretti” a chiuderla.

A poco servirono le proteste e le barricate messe in campo dagli operai Tonino (Silvio Orlando), Salvatore (Michele Placido) e Mario (Claudio Santamaria) coadiuvati da familiari e simpatizzanti, come Nina (Paola Cortellesi) la compagna di Tonino. O lo sdegno morale altero delle istituzioni. E anche il “viaggio della speranza” fatto nella sede centrale estera della multinazionale servì a molto poco…

A differenza di altre favole in questa – che purtroppo è sempre più una storia “italiana” – alla fine la fatina buona non arriva e lascia i nostri eroi soli e senza lavoro e, soprattutto, davanti ai volti segnati delle vedove dei loro ex colleghi di lavoro morti, secondo gli studi più autorevoli, …”nella media”.

Riccardo Milani scrive insieme a Domenico Starnone questa che, anche a distanza di quasi vent’anni, sembra proprio essere una delle poche pellicole italiane eredi dello spirito ironico e al tempo stesso tragico della nostra grande commedia all’italiana.

Quello che oggi colpisce ancora di più è che nel periodo drammatico che stiamo vivendo, in cui il nostro Paese è afflitto da due grandi emergenze: quella sanitaria legata alla quarta ondata del Covid-19 e quella economica, questo film potrebbe essere tranquillamente il servizio di un qualsiasi telegiornale. Perché le risposte dei vertici della multinazionale e delle istituzioni sono molti simili a quelli che oggi stanno fornendo alcuni industriali e imprenditori nonché sedicenti esperti.

Ma vent’anni fa, quale pandemia c’era?

“Freaks Out” di Gabriele Mainetti

(Italia/Belgio, 2021)

Il 18 settembre del 1938, così come il 16 ottobre del 1943, sono due date ignobili, tragicamente incise a fuoco e sangue nella carne del nostro Paese. La prima è il giorno in cui a Trieste, nella splendida piazza Unità d’Italia, Mussolini annunciò fra fragorosi applausi l’approvazione e l’applicazione delle leggi razziali fasciste. La seconda è il giorno in cui vennero deportati gli ebrei del ghetto di Roma, la più antica comunità della capitale.

Naturalmente, e purtroppo, ce ne sono anche altre di date così infauste e infami per il nostro Paese, ma Mainetti, a distanza di quasi ottant’anni, decide di partire proprio dalla seconda, frutto inesorabile della prima, per raccontarci questa sua nuova storia.

Così ci troviamo a Viterbo nel ’43, dove il circo “Mezzapiotta” di Israel (Giorgio Tirabassi) si esibisce incantando il pubblico con i suoi “mostri”: il forzuto uomo lupo Fulvio (Claudio Santamaria), l’uomo calamita Mario (Giancarlo Martini), l’ammaestratore d’insetti Cencio (Pietro Castellitto) e la donna elettrica Matilde (Aurora Giovinazzo).

Un bombardamento però, oltre ad interrompere lo spettacolo, distrugge il tendone del circo così tutto il gruppo si ritrova senza lavoro. Israel propone di partire per l’America e con 300 lire ciascuno, grazie a degli amici che ha nel ghetto di Roma, riuscirà a farsi fare i documenti falsi per tutti. Ma la sera Israel non torna, e così Fulvio, Mario e Cencio si convincono che il loro ex capo li ha traditi rubandogli i soldi. Solo Matilde è certa che all’uomo che l’ha trovata e cresciuta come una figlia sia successo qualcosa di brutto. Giunti a Roma il gruppo si separa, i primi tre decidono di unirsi al Circo di Berlino diretto dal pianista con sei dita Franz, mentre Matilde va alla ricerca di Israel. Tutti però dovranno fare i conti con la ferocia e la follia del nazifascismo…

Scritto dallo stesso Mainetti, sempre assieme a Nicola Guaglianone come per “Lo chiamavano Jeeg Robot“, questo secondo lungometraggio del regista romano è indubbiamente un gran bel film, che ci racconta di mostri ma soprattutto di mostruosità col suo originale e particolare linguaggio cinematografico.

Davvero emozionante e straziante è la ricostruzione del rastrellamento nel ghetto di Roma durante il quale i protagonisti vi si ritrovano, ricostruito crudelmente così come venne eseguito nella realtà forse per la prima volta nella nostra cinematografia. Se è facile paragonare questa pellicola e il suo linguaggio con quello di “Bastardi senza gloria” di Tarantino, i riferimenti di Mainetti vanno anche più lontano nel tempo, come al maestro Georges Méliès, al circo di Federico Fellini, a “Quel maledetto treno blindato” di Enzo G. Castellari – che ha ispirato guarda un pò proprio “Bastardi senza gloria”- e, soprattutto, a quel bellissimo “Freaks” diretto da Tod Browning nel 1932, dove i veri mostri erano quelli che volevano sfruttare i cosiddetti “fenomeni da baraccone”.

Per quanto riguarda il titolo, nulla mi toglie dalla testa che Mainetti abbia voluto citare una delle canzoni simbolo degli anno Settanta, a lui sempre molto cari, quella “Jack Le Freak” che conquistò tutte le discoteche del mondo e che nel ritornello aveva il famoso “…Freak Out!”. I mostri della canzone degli Chic erano altri rispetto a quelli di Mainetti (i componenti del gruppo vennero cacciati dalla fila per entrare nel leggendario “Studio 54” di Manhattan proprio con quell’epiteto su cui successivamente costruirono volutamente la canzone) che ci ricorda bene quali siano i veri mostri, indipendentemente dal loro aspetto.

Nonostante siano passati così tanti decenni forse noi italiani ancora non abbiamo finito di fare i conti con questa parte buia e dolorosa della nostra storia. Basta pensare che il primo film italiano sulla deportazione degli abitanti del ghetto romano, “L’oro di Roma” di Carlo Lizzani, venne prodotto solo quasi vent’anni dopo i tragici eventi; e che il presidente del cosiddetto “Tribunale della Razza” presso il Dicastero degli Interni, nonché grande sostenitore delle legge razziali, Gaetano Azzariti, dal 1957 al 1961 fu presidente della nostra Corte Costituzionale. Allo stesso Azzariti, nel 1970, il Comune di Napoli dedicò una via che solo nel 2015 venne re-intitolata a Luciana Pacifici, la vittima napoletana più giovane della Shoah.

I veri mostri sono quelli che vogliono colpevolmente dimenticare e, soprattutto, far dimenticare.

“L’assedio” di Bernardo Bertolucci

 (Italia/UK, 1998)

Girato nel vero appartamento in cui Gabriele D’Annunzio scrisse “Il piacere”, con l’ingresso in via del Bottino e le finestre sulla scalinata di Trinità dei Monti, “L’assedio” di Bernardo Bertolucci ci racconta del rapporto tra Shandurai (una brava Thandie Newton, che poi parteciperà al bellissimo “Crash – Contatto fisico” di Paul Haggis) e Mr Kinski (David Thewlis, che diventerà famoso impersonando Remus Lupin nella saga di Harry Potter) il padrone della casa in cui lei lavora come domestica, che nella vita ama soprattutto suonare il suo grande pianoforte a coda.

Fra i due le cose sono molto formali fino a quando Kinski non le rivela di essere profondamente innamorato di lei, arrivando a chiedere di sposarlo. Shandurai ha una reazione dura: lei ha già un marito, che però è detenuto nel suo Paese africano d’origine per motivi politici, e se davvero la ama lo faccia liberare.

E Kinski, educatamente, si tira indietro. Ma l’amore prende strade e pieghe inaspettate…

Tratto dal racconto di James Lasdun, “L’assedio” ci illumina la fantasia con delle immagini che solo Bernardo Bertolucci – e davvero pochi altri al mondo – riescono a regalarci, come per esempio la sequenza iniziale da studiare nelle scuole di cinema.

I dialoghi sono al minimo, questa volta non servono, sono le immagini che ci raccontano esattamente le emozioni e i sentimenti. Un capolavoro visivo di un maestro del cinema.

Per la chicca: compagno di studi di Shandurai è un giovane ma già bravo Claudio Santamaria.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti

(Italia, 2015)

Be’ gente, il cinema italiano non è morto!

Nei giorni in cui Gianfranco Rosi trionfa a Berlino, l’immenso Ennio Morricone vince il suo primo meritatissimo Oscar (quello alla carriera sapeva tanto di contentino), esce nelle sale italiane questo straordinario film di Gabriele Mainetti.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” ci strilla che la cultura cinematografica italiana non è morta. Che c’è chi è capace di fondere sapientemente quel pazzo geniale di Quentin Tarantino al poeta delle periferie che era Pier Paolo Pasolini.

Ci può essere un’altra via alle solite commedie nostrane che ormai con quelle grandi “all’italiana” hanno in comune solo il nome. E possiamo fare di meglio che scimmiottare il cinema straniero con psicodrammi da telenovelas.

Già con i suoi cortometraggi Mainetti ci aveva raccontato la contaminazione della televisione giapponese nel subproletariato urbano, ma con questo film il passo è più lungo. Jeeg Robot stavolta è una figura secondaria, quello che conta sono gli esseri umani che riescono a non dimenticare di essere tali.

Complimenti a Gabriele Mainetti che lo ha diretto, a Nicola Guaglianone che l’ha scritto, e Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli che lo interpretano magistralmente. Tutti molto bravi e anche coraggiosi.

Chiudo con una simpatica considerazione: scommetto che se a quelli – molto pochi, ne sono convinto – che non apprezzeranno il film, venisse rivelato che in realtà Gabriele Mainetti è lo pseudonimo di un cineasta esordiente coreano o americano, il 99% di questi griderebbe al miracolo cinematografico del decennio …poracci!