“Fiore di cactus” di Gene Saks

(USA, 1969)

L’8 dicembre del 1965 debutta a Broadway la commedia “Fiore di cactus” interpretata da Lauren Bacall e Barry Nelson. Il successo è notevole e lo spettacolo va in scena per oltre 1200 repliche. L’autore Abe Burrows ha adattato “Fleur de cactus”, una commedia leggera scritta dai francesi Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy, e andata in scena per la prima volta a Parigi nel dicembre del 1964.

Nel cast originale di quella prima rappresentazione ad impersonare il protagonista maschile Julien è Jean Poiret, che qualche anno dopo firmerà ed interpreterà in teatro assieme a Michel Serrault una commedia/farsa che riscuoterà un successo planetario: “La cage aux folles”, che nel 1978 Eduard Molinaro porterà per la prima volta sul grande schermo nel film “Il vizietto“, con lo stesso Serrault ma con al posto di Poiret uno stratosferico Ugo Tognazzi.

Tornando alla commedia di Burrows, visto il successo in teatro, Hollywood decide di portarla sul grande schermo ed affida la regia a un grande esperto del genere: Gene Saks, prima attore e poi regista teatrale e cinematografico al quale, per esempio, si deve la regia di “A piedi nudi nel parco” con Jane Fonda e Robert Redford, o di “La strana coppia” con Jack Lemmon e Walter Matthau.

Il ruolo del dentista sornione e scapolo impenitente Julian Winston viene affidato al grande Matthau, mentre quello della sua efficientissima segretaria Stephanie Dickinson sancisce il ritorno a Hollywood di Ingrid Bergman, che dagli anni Quaranta si era trasferita in Europa. Ad interpretare Toni Simmons è Goldie Hawn che vincerà l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Nel cast anche Jack Weston, ottimo caratterista di Hollywood.

L’insolito triangolo amoroso fra Julian, Toni e Stephanie è uno dei più famosi e divertenti del cinema americano degli anni Sessanta e rappresenta, forse un pò ingenuamente, il conflitto generazionale che in quegli anni infiamma la società in tutto l’Occidente.

D’altronde l’intenzione di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy era solo quella di scrivere una pièce leggera senza affrontare nessun problema fondamentale nella vita di un essere umano, con il solo scopo di far divertire allegramente il pubblico. Ma a distanza di tanti anni “Fiore di cactus” è una pellicola ancora godibile fino all’ultima scena, grazie soprattutto alla bravura dei suoi due grandi protagonisti: Bergman e Matthau.

A doppiare Matthau nella nostra versione è un bravissimo Renzo Palmer, Gemma Griarotti doppia splendidamente la Bergman, mentre Mario Maranzana dona in maniera irresistibile la voce a Weston.

“Il palloncino rosso” di Albert Lamorisse

(Francia, 1956)

Albert Lamorisse (1922-1970) è stata una delle figure più poliedriche della cultura del secondo Novecento francese. Scrittore, produttore e regista cinematografico, Lamorisse già durante l’adolescenza inizia a lasciare il segno nella cultura contemporanea.

Sui banchi di scuola, infatti, inventa un gioco da tavolo che chiama “La Conquête du Mondo” e che poi brevetterà nel 1954 diventando famoso in tutto il globo come “Risiko!”. Ma i suoi interessi spaziano nelle arti visive, soprattutto nel cinema dove predilige produrre e dirigere documentari. Sarà proprio durante la riprese del documentario “Le vent des amourex”, in Iran, che perirà a causa dell’incidente in cui verrà coinvolto l’elicottero su cui viaggiava.

La sua opera più famosa, oltre all’immortale gioco da tavolo, è senza dubbio il cortometraggio “Il palloncino rosso” che nel 1956, anno in cui fu presentato, vinse numerosi premi in tutto il mondo fra cui la Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar come migliore sceneggiatura.

Il piccolo Pascal (Pascal Lamorisse) mentre va a scuola, una mattina, trova annodato su un lampione un bel palloncino rosso. Senza pensarci due volte lo slaccia e se lo porta dietro ma, non potendoci salire sull’autobus, è costretto a correre a scuola a piedi dove arriva naturalmente in ritardo. Prima di entrare in classe però lascia il palloncino al custode.

All’uscita Pascal può finalmente tornare a passeggiare col suo nuovo compagno, ma a casa la madre non ne vuole sapere e lo butta fuori dalla finestra. Ma il palloncino invece di volare via aspetta paziente davanti alla finestra finché Pascal, felice di vederlo, lo fa entrare. Inizia così un rapporto di profonda e speciale amicizia fra i due, rapporto che purtroppo non è compreso dagli adulti – il bambino e il suo palloncino verranno cacciati anche da una chiesa – e che alla fine susciterà l’invida e la rabbia dei coetanei di Pascal, che inizieranno a dargli la caccia per farlo scoppiare…

Interamente girato nelle strade e nei vicoli di Ménlimontant, un quartiere di Parigi, “Il palloncino rosso” racchiude 34 minuti di vera poesia cinematografica dedicata ai bambini, e non solo per loro, con una scena finale struggente e indimenticabile, che anticipa molti dei tempi e delle ambientazioni che racconterà qualche anno dopo il grande Francois Truffaut.

Nel corso dei decenni sono stati numerosi gli accenni e la citazioni di questo capolavoro – nonché libri tratti dalla sceneggiatura del film – arrivando a “Il palloncino bianco” di Abbas Kiarostami del 1995 e, naturalmente, “Up” diretto da Pete Docter e Bob Peterson nel 2009 che idealmente ci racconta la terza età vissuta dal piccolo Pascal “divenuto” l’anziano signor Fredricksen.

Da vedere.

“Anno 2118: Progetto X” di William Castle

(USA, 1968)

Tratto dal romanzo “The Artificial Man” (1965) firmato da L. P. Davies (1914-1988) – scrittore britannico che molti paragonano al grande Philip K. Dick per il suo stile e soprattutto per l’ambientazioni e le atmosfere claustrofobiche e ossessivamente oniriche – e scritto da Edmund Morris, questo “Anno 2118: progetto X” è un piccolo gioiellino incastonato nel grande cinema di fantascienza degli anni Sessanta.

Anno 2118 (…naturalmente), il globo è diviso in due grandi blocchi geopolitici: l’Occidente e l’Australasia. Entrambi hanno lo stesso grande problema: le risorse. Il sovrappopolamento del pianeta, infatti, sta consumando inesorabilmente tutte le fonti e le riserve di alimenti ed energia. Per capire se l’Australasia stia preparando qualche drastica e nascosta contromisura viene inviato l’agente segreto Hagan Arnold (Christopher George) che però al suo rientro, prima di cadere in uno stato di incoscienza, è riuscito solo a inviare un inquietante quanto criptico messaggio: “…l’Occidente verrà distrutto fra quattordici giorni!”.

Lo Stato Maggiore dell’Occidente, rappresentato dal colonnello Holt (Harold Gould), come da protocollo mette in sospensione criogenica Arnold e affida al dottor Crowther (Henry Jones) il compito di risvegliarlo e soprattutto di fargli ricordare il motivo del suo terrificante messaggio, perché la memoria di Arnold è stata oscurata da un farmaco “antitortura” che lui stesso ha assunto quando, scoperto, è caduto nelle mani delle Forze Armate dell’Australasia.

Viene così ripercorsa la vita di Arnold e Crower assieme al suo staff si concentra sulla laurea in storia che lo stesso agente ha ottenuto qualche anno prima scrivendo la tesi sugli anni Sessanta del Novecento. Per sbloccare la memoria dell’uomo, dopo averlo riportato cosciente, lo si trasferisce in un edificio apposta ricostruito come una classica fattoria degli anni Sessanta con la speranza che il periodo tanto studiato e amato da Arnold possa sbloccargli la memoria, ma…

I limiti economici della produzione ricordano quelli della mitica serie televisiva contemporanea “Star Trek” – nata come di serie B e che spesso adattava le sceneggiature ai set disponibili per mantenere i costi bassi – e non a caso il cast è composto da attori che poi diverranno molto noti in televisione in ruoli da caratteristi come Harold Gould e Henry Jones.

Ma oltre all’ambientazione e al cast, così come “Star Trek”, questo film possiede una sceneggiatura davvero originale, non senza qualche pecca, ma colma di colpi di scena e che ci parla di problemi fin troppo contemporanei e attuali. Ingiustamente dimenticato e sottovalutato.

Per la chicca: nei panni di Sen Chiu, il perfido leader dell’Australasia, c’è Keye Luke attore americano di origini cinesi, divenuto famoso negli anni Trenta e Quaranta per aver interpretato il ruolo del “figlio numero uno” in numerosi film il cui protagonista era il detective Charlie Chan, nonché il Maestro Po nella serie televisiva “Kung Fu”. Proprio per quest’ultima interpretazione George Lucas lo considerò fino all’ultimo per il ruolo di Obi Wan Kenobi in “Guerre stellari: Una nuova speranza” ruolo che poi, ci racconta la storia, andò ad Alec Guinness.