“A testa bassa” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 1994)

Apparso per la prima volta nella primavera del 1990 sul “The New Yorker” questo “A testa bassa” è uno degli scritti più atipici del Re Stephen King. E’ lui stesso, nella breve introduzione di tre righe, a dircelo.

Il Re ci comunica che quello che stiamo per leggere non è un suo “solito” racconto, ma un saggio. Così ci troviamo sul campo con la squadra di baseball della Bangor West che milita in una delle categorie minori della Little League, la federazione che cura i campionati giovanili americani.

I giocatori della Bangor West hanno tutti fra i dodici e i tredici anni, e rappresentano la scuola omonima che frequentano. Fra questi c’è un ragazzino che a soli tredici anni è già alto abbondantemente sopra il metro e ottanta, si chiama Owen King, ed il padre è uno scrittore di “…una qualche rilevanza”, come ci descrive l’autore stesso.

La Bangor West è arrivata alle finali statali solo molti anni prima, e così nella stagione 1988-1989 non parte certo fra le più favorite, visto poi che sulla carta non ha nessun giovanissimo talento in lista, come invece altre scuole del Maine. Ma il genitore/accompagnatore Stephen King, come d’altronde lo staff tecnico della squadra, intuisce che fra i ragazzi si potrebbe creare quell’alchimia che in campo sportivo può portare molto lontano…

Il Re ci racconta, in maniera travolgente, l’epilogo della stagione sportiva di una squadra giovanile i cui membri si devono dividere fra i compiti, le rispettive dinamiche familiari – alcuni saranno costretti a mancare le partire più importanti per seguire i propri cari in vacanza – e il diamante del campo.

Ma soprattutto King ci racconta l’anima dello sport, quello giocato su campi in pozzolana, rappezzati e al limite del regolamento, da squadre che indossano divise raffazzonate e mangiano panini preparati molte ore prima dai genitori.

E’ fra loro che si può respirare però la purezza dello sport nel senso più alto, dove non ci sono premi in denaro da vincere, ma al massimo un hamburger e delle patatine fritte offerte dal coach dopo la partita. Lo stesso scrittore ci ricorda come, in quegli anni, il mondo auro del baseball professionistico americano di prima grandezza, è stato travolto da scandali e corruzione, un mondo lussuoso dove l’opulenza spesso soffoca il vero spirito sportivo.

Nonostante gli anni, questo “A testa bassa” ancora ci fa riflettere sullo sport contemporaneo, ormai troppo spesso diventato una ricca multinazionale. Ma ogni tanto anche noi, abituati a ingaggi multimilionari di giocatori di calcio (per esempio), rimaniamo incantati dalla performance di un atleta o di una squadra che superano magistralmente tutti gli altri in una disciplina che troppi chiamano ancora “minore”.

Ma il termine “minore” è legato nel nostro Paese soprattutto al giro economico che ruota intorno alla disciplina. E così siamo abituati a considerare “minori” alcuni sport in cui noi italiani furoreggiamo e brilliamo da decenni, come la scherma ad esempio. Ma forse proprio lì, dove girano pochi soli o non ne girano affatto, possiamo ritrovare il vero e sano spirito sportivo che porta un essere umano, anche soli di tredici anni, a mettere piede su un campo o su una pedana e provare a spostare anche solo di un centimetro in avanti i propri limiti.

Questo “saggio” può fare da contraltare al bellissimo “Open – La mia storia” di André Agassi, in cui il campione statunitense ci parla con lucida freddezza degli enormi sacrifici che ha dovuto affrontare per diventare un grande campione.

Da leggere, come tutte le opere del Re.

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