“Manodopera” di Alain Ughetto

(Francia/Belgio/Svizzera/Italia/Portogallo, 2022)

Alain Ughetto ci racconta la storia di suo nonno Luigi nato a Ughetterra, un piccolo paesino alle pendici del Monviso, alla fine dell’Ottocento. Come molti suoi connazionali, Luigi aveva poco o niente da mangiare. Il piccolo pesino di montagna non offriva quasi niente ai contadini poveri come lui. Così Luigi Ughetto alle soglie del Novecento va a lavorare al confine italo-svizzero per la realizzazione del tunnel ferroviario del Sempione.

Lì conosce Cesira, della quale si innamora perdutamente e che poco dopo sposa. Ma la vita è terribilmente dura per i contadini come loro che non hanno nulla e che sono costretti a dividere quel poco che hanno pure con prete del Paese. Intanto la famiglia di Luigi cresce, mentre lui si sposta dove c’è lavoro per le sue braccia.

Ma le mire espansionistiche del Regno d’Italia lo portano prima in Africa, dove perderà un fratello, e poi sul fronte della Prima Guerra Mondiale, dove perderà un secondo fratello neanche ventenne. Tornato a casa la situazione è sempre più pesante: da una parte la terribile povertà che attanaglia la maggior parte della popolazione italiana, e dall’altra l’arrogante e prepotente fascismo di Mussolini, coadiuvato e sostenuto dalla Chiesa Cattolica Romana, che vede nei poveri la “manodopera” silenziosa e resiliente da asservire ai ricchi e ai potenti.

Così Luigi decide di accettare il posto di capomastro per la costruzione di una grande diga in Francia, Paese dove si stabilisce definitivamente con tutta la sua famiglia. Ma le ombre della Seconda Guerra Mondiale si stagliano all’orizzonte e il conflitto travolgerà la famiglia Ughetto come tutta l’Europa…

Bellissimo film d’animazione realizzato in stop motion, o col passo uno come si dice in Italia, mista ad altre tecniche animate e non, che ci raccontano una storia così lontana nel tempo ma dannatamente attuale e vicina. Non è un caso che Ughetto, che ha scritto la sceneggiatura assieme ad Anne Paschetta e Alexis Galmont, faccia raccontare la storia di Luigi da Cesira, e non solo perché è l’unica che lui ha conosciuto da bambino, ma soprattutto per dipingere meglio l’affresco di una numerosa e classica famiglia italiana dei primi del Novecento dove gli uomini all’alba andavano a lavorare, e le donne rimanevano a badare alla casa, ai figli e a tutte le altre enormi incombenze di una vita da poveri.

Erano loro il vero fulcro materiale e morale, senza però aver voce in capitolo. In quegli anni e fino alla fine della Seconda Guerra Mondale, infatti, nel nostro Paese le donne, fra le altre gravi privazioni, non avevano il diritto al voto.

Era una vita dove la malattia e la morte erano all’ordine del giorno. Dove ai poveri non rimaneva altro che abbassare la testa e accettare la miseria che i “padroni” gli offrivano in cambio della loro forza fisica, compresa quella dei bambini.

Cesira ci legge dei brani di alcuni articoli di giornali francesi dell’epoca in cui si descrivono le caratteristiche del lavoratore immigrato italiano che non protesta mai e si accontenta sempre di molto poco. E’ una “manodopera” abituata a grandi sacrifici e tremende privazioni senza l’ardire di protestare, così come troppo spesso la Chiesa Cattolica Romana ha insegnato loro da secoli.

Ma la vita dell’immigrato, nonostante ancora qualcuno nel nostro Paese affermi il contrario, è dura e dolorosa. E così Luigi si deve inventare una patetica bugia quando, appena arrivati nella piccola località francese dove hanno deciso di stabilirsi, sulla porta del bar suo figlio ancora bambino legge la scritta: “Interdit aux chiens et aux Italiens”, che è anche il titolo originale del film.

“Non c’è futuro senza memoria” diceva Primo Levi.

Da vedere e far vedere a scuola.

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