“Crisis in Six Scenes” di Woody Allen

(USA, 2016)

Scoccati gli ottanta, il grande Woody Allen si è preso “la briga e di certo il gusto…” (cit.) di girare la sua prima serie televisiva. E per farlo ha scelto Prime Video che gli ha dato carta bianca.

Ambientata nei fantastici Sessanta, in una New York dove si respira l’aria della rivoluzione sociale e civile, “Crisis in Six Scenes” ci racconta come la vita tranquilla e ordinata dei coniugi Munsinger, Sidney (lo stesso Woody Allen doppiato per noi magnificamente da Leo Gullotta) e Kay (una strepitosa Elaine May) subisca l’impatto violento coi tempi che corrono.

Nel cuore della notte, infatti, la rivoluzionaria evasa dal carcere Lennie Dale (Miley Cirus) si intrufola in casa Munsinger. La scelta di Lennie è legata al vecchio rapporto stretto che Kay ha avuto da giovane con la sua famiglia. E quando la rivoluzione bussa alle porte…    

Sei deliziose puntate per una serie nel segno del genio di Woody Allen. E grande, e ovviamente ironica, riflessione su quello che davvero è stato il “mitico” ma ormai stantio e incartapecorito ’68.

Non si può non parlare anche della grande Elaine May. Figura fondamentale del cabaret e della satira americana a partire dagli anni Cinquanta, autrice di radio, cinema (suoi sono gli spassosi “E’ ricca, la sposo e l’ammazzo” e “Il rompicuori“, solo per fare un paio di esempi) teatro e televisione. La May, superati abbondantemente gli ottanta, tiene fantasticamente testa a Woody Allen che, comunque, è sempre lui. Anche in streaming!

“Hannah e le sue sorelle” di Woody Allen

(USA, 1986)

Da molti considerato un immaginario seguito di “Io e Annie”, questo “Hannah e la sue sorelle” è il successo più ampio di pubblico e critica degli anni Ottanta firmato da Woody Allen. Critica che osannò – forse giustamente – molto di più quel capolavoro che è “Zelig”, che invece il pubblico accolse con molta – inspiegabile oggi – freddezza rispetto a questo.

Oltre ad alcuni elementi palesi di “Io e Annie”, in questo film Allen ci mette molto del suo amore per Ingmar Bergman. Le protagoniste del film sono tre sorelle, così come nel suo bergmaniano puro “Interiors” del 1978, c’è la ricerca drammatica del senso della vita e, infine, l’attore simbolo del cinema bergmaniano Max Von Sydow. Il tutto miscelato ovviamente con la geniale ironia del cineasta newyorkese.

Hannah (Mia Farrow), Holly (Dianne West) e Lee (Barbara Hershey) sono tre sorelle che vivono a New York. Le loro esistenze si intrecciano fra amore, sostegno, competizione e invidia. Hannah è un attrice di prosa di successo, felicemente sposata con Eliot (Michael Caine), un consulente economico anche lui di notevole successo. Quando questo si accorge di essere attratto da Lee, che convive con Frederick (Von Sydow) un noto pittore molto più grande di lei, rimane sorpreso dall’essere ricambiato. Holly cerca di seguire le impronte di Hannah in teatro, ma senza riuscirci. Mickey (lo stesso Allen), primo marito di Hannah, è un autore televisivo di successo che entra in crisi quando crede di avere un tumore. Le cose cambieranno per tutti grazie alla fortuna – tema tanto caro ad Allen – all’amore e alla fiducia in se stessi.

Superbo film corale che funziona come un orologio svizzero, con qualche battuta davvero stellare.

Premio Oscar – strameritato – per la Migliore Sceneggiatura Originale, e a Michael Caine e Diane West come Migliori Attori non Protagonisti. In un piccolo ruolo appare anche un giovane John Turturro, che quasi trent’anni dopo dirigerà lo stesso Allen in “Gigolò per caso”.

“Café Society” di Woody Allen

(USA, 2016)

L’anima triste e malinconica di Woody Allen appare in ogni sua pellicola, dalla più tragica o drammatica, a quella più esilarante. In questa, che non è esattamente né l’una e né l’altra, Allen ci racconta – come accade spesso – della vita e dei suoi momenti più intensi che troppo spesso passano veloci.

Alla fine degli anni Trenta il giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg), ultimo di tre fratelli di una piccola famiglia ebrea newyorchese, decide di cambiare la sua vita raggiungendo il fratello della madre, Phil Stern (Steve Carell) noto agente di spettacolo a Hollywood.

La vita a Los Angeles non è facile come Bobby credeva, e l’unica vera nota positiva è Veronica (Kristen Stewart) una delle segretarie dello zio, incaricata di fargli vedere e conoscere la capitale del cinema planetario.

Ma la vita non è sempre semplice, e così Bobby deciderà di tornare a New York e aiutare suo fratello Ben (Corey Stoll) che, grazie alla sua carriera di gangster, è diventato proprietario di un night club. Ma…

Splendida riflessione nostalgica sulla vita, sulla giovinezza e sull’amore del maestro Woody Allen. Con scenografie, costumi e fotografia – curata da Vittorio Storaro – da Oscar.      

“Un’altra donna” di Woody Allen

(USA, 1988)

In un’intervista fatta per la presentazione del bellissimo “Blue Jasmine” – film che sotto molti punti di vista è paragonabile a questo – Woody Allen ha dichiarato di sentirsi soprattutto “un autore di tragedie piuttosto che di commedie, anche se il mondo ormai lo ha etichettato così…”

Questa arguta provocazione del genio newyorkese ha in realtà radici profonde e ben piantate, visto che quando Allen scrive e dirige pellicole drammatiche lo sa fare magistralmente e come pochi altri cineasti.

In questo bello e amaro film assistiamo al bilancio drammatico e sentimentalmente tragico della cinquantenne Marion Post (una splendida Gena Rowlands) preside della Facoltà di Filosofia di una prestigiosa università americana.

L’elemento scatenante l’alluvione dei ricordi che invaderà Marion è il casuale origliare alcune sedute di psicoanalisi che le capita di ascoltare nell’appartamento adiacente a quello che ha preso in affitto per scrivere il suo ultimo libro.

Le esperienze che la donna racconta al suo analista, e che lei spia, le richiameranno alla mente episodi cruciali della sua vita sentimentale nella quale lei ha sempre scelto la ragione e mai seguito il cuore.

Dopo “Interiors”, il più bergmaniano film di Allen che qui chiama a dirigere la fotografia Sven Nykvist, collaboratore di Bergman per ben venti film e più volte premio Oscar; questa bella pellicola conferma ancora oggi Woody Allen il più femminino dei cineasti americani, e non solo.  

     

“L’uomo che fuggì dal futuro” di George Lucas

(USA, 1971/2004)

C’è una particolare teoria che aleggia fra alcuni cinefili assai chic che asserisce che lo strepitoso e imperituro successo di “Guerre Stellari”, se è vero che da una parte ci ha regalato un universo fantastico e inesauribile – di cui io sono un fan sfegatato – dall’altra ci ha privato di un grande cineasta come George Lucas.

Perché di fatto il problematico rapporto fra Luke Skywalker e suo padre Anakin (e adesso dite che la saga più famosa del cinema non si può sintetizzare anche così…) che ha incantato e continua a incantare generazioni su generazioni, sembra aver soffocato il genio del suo autore.

E’ vero che dopo “Guerre Stellari” Lucas ha scritto pellicole di clamoroso successo come quelle con Indiana Jones per esempio, ma è vero anche che dietro la macchina da presa c’è tornato solo per girare i tre prequel della saga, che continuano a prendere in giro (giustamente) anche in “The Big Bang Theory”.

Per tagliare la testa al toro, allora, basta guardare questo “L’uomo che fuggì dal futuro” esordio dietro la MDP del giovane Lucas, prodotto da Francis Ford Coppola, basato su una idea originale di Lucas e sceneggiato assieme a Walter Murch, fra i più importanti maghi del montaggio di Hollywood, e vincitore tra l’altro di due premi Oscar proprio come montatore per “Apocalypse Now” e “Il paziente inglese”.

Il titolo originale è “THX 1138” che è il nome del suo protagonista (impersonato da un bravissimo Robert Duvall, oltre che la sigla del sistema di qualità audiovisiva che Lucas brevetterà qualche anno dopo) che nel XXV secolo vive in un futuro dispotico e claustrofobico, dove non esistono privacy e intimità, ma tutto è dettato da leggi ferree atte apparentemente a rendere la vita semplice e poco faticosa, ma che in realtà avallano il controllo totale di ogni individuo. Ma…

Grande film visionario che contiene ottime e suggestive sequenze, nonostante sia stato girato a basso costo. Anche la versione del 2004 Director’s Cut rispetta questa filosofia, e gli interventi di computer grafica fatti da Lucas sono mirati non tanto a rendere più spettacolare il film, ma a realizzare alcuni particolari che nel 1971 non riuscì a fare a causa della tecnologia sperimentale di allora.

Per chi ama il genere e non solo. 

Per la chicca: Woody Allen, e dico Woody Allen, ne gira una strepitosa parodia nel 1974 e la chiama “Il dormiglione“, con i poliziotti vestiti uguali e come protagonista il povero Miles Monroe proprietario del ristorante vegetariano “Il sedano allegro”…

“Match Point” di Woody Allen

(USA/Russia/Irlanda/Lussemburgo, 2005)

Il 12 maggio del 2005, al Festival di Cannes, veniva presentato in anteprima mondiale  “Match Point”, capolavoro indiscusso della cinematografia mondiale degli ultimi decenni.

Ispirato al bellissimo “Un posto al sole” di George Stevens del 1951, “Match Point” ci racconta la voglia di arrivare del fascinoso Chris Wilton (un bravissimo e tenebroso Jonathan Rhys Meyers), umile maestro di tennis che ha pianificato la sua ascesa sociale al millimetro.

Ma sulla sua strada capita Nola (una sensuale e provocante Scarlett Johansson, e chi sarebbe riuscito a resisterle?!) che lo costringe ad affrontare e accettare la parte più buia di se stesso…

Un noir perfetto in ogni suo aspetto, cast, dialoghi, scenografie e colonna sonora, che ci mostra come si può fare del grande cinema anche senza budget esorbitanti, e al tempo stesso ci ricorda l’anima tragica del genio di Woody Allen.

Da vedere e rivedere.

“Gigolò per caso” di John Turturro

(USA, 2013)

Questa elegante e ironica commedia, scritta diretta e interpretata da John Turturro, vanta un cast stellare: Woody Allen, Sharon Stone, Liev Schreiber, Vanessa Paradis e Sofia Vergara.

Parlare con classe ed eleganza di prostituzione non è facile, ma farlo con ironia lo è ancora di più.

Certo, se il “corruttore” del protagonista – il buon Fioravante/Turturro – ha la faccia di Woody Allen (e la voce, merita di essere ricordato, di un bravissimo Leo Gullotta che davvero non ci fa mancare troppo quella dell’indimenticabile Oreste Lionello) la strada è in discesa, ma comunque merito a Turturro che firma una sofisticata commedia dedicata all’amor profano, con sottili e delicati accenni a quello platonico.

Sullo sfondo una crepuscolare New York.

“L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert

(Garzanti, 2004)

Questo splendido romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1869, oltre ad essere un capolavoro della letteratura mondiale, è una delle colonne portanti di quella romantica.

Non si dovrebbe affrontare l’adolescenza amorosa  – a qualsiasi età questa arrivi – senza averlo letto.

Nella vita di tutti noi ci sarà sempre una Madame Arnoux, soprattutto nei ricordi, che col passare del tempo diventano sempre più affilati.

Da leggere più di una volta nella vita.

D’altronde ”L’educazione sentimentale” è uno dei motivi per cui vale la pena vivere per Isaac/Woody Allen protagonista di “Manhattan”.

“Manhattan” di Woody Allen

(USA, 1979)

Sarà il connubio fra la musica immortale di George Gershwin e la sublime fotografia in bianco e nero firmata da Gordon Willis, oltre che ovviamente i dialoghi irresistibili e all’ultimo colpo ma, tanto per tornare a parlare di Woody Allen, questo suo “Mahattan” – scritto insieme a Marshall Brickman – rimane memorabile.

Fra i primi sentimenti che si provano c’è quello di scappare immediatamente a New York per guardarla dal vero, magari usando occhiali speciali che te la fanno vedere in b/n, perché come dice Wim Wenders: “La vita è a colori, ma in bianco e nero è più realistica”.

Adoro questo film anche per una scena ben precisa, che mi fa sbellicare e riflettere ogni volta che la rivedo e che – per questo non sarò mai abbastanza grato al grande Woody! – ha salvato la mia autostima in fatto di vita amorosa.

E’ la scena in cui Mary (Diane Keaton) incontra casualmente il suo ex marito Jeremiah. Per tutta la sua relazione con Isaac (Woody Allen), Mary non ha fatto altro che parlare di lui come di un animale virile che l’ha liberata da ogni inibizione, aprendola al mondo dei sensi; una sorta di divoratore di corpi femminili, “sotto” al quale alcune donne – compresa lei – sono svenute per la troppa intensità dell’orgasmo.

Le facce di Isaac durante questi racconti sono silenziose ma alquanto eloquenti. Ma nulla a che vedere con l’espressione che assume quando finalmente vede dal vivo Jeremiah, interpretato da Wallace Shawn, che è un noto attore di Broadway, molto famoso per la sua bravura ma non certo per il suo aspetto fisico.

Shawn/Jeremiah, oltre che parlare in modo fastidiosamente nasale, è un suo coetaneo, più basso di Allen e molto più stempiato di lui. Ad Isaac non rimanere altro che riflettere sulla soggettività e sulla concretezza dei mostri e dei fantasmi che ci creiamo nella nostra testa.

Memorabile.

“Blue Jasmine” di Woody Allen

(USA, 2013)

Non tutti i film di Woody Allen hanno la stessa potenza narrativa, anche se tutti, in maniera differente, toccano corde profonde della nostra anima.

Ma questo “Blue Jasmine” fa parte, a pieno titolo, dei capolavori creati dal genio newyorkese.

Con una stratosferica Cate Blanchett – che giustamente ha vinto uno degli Oscar più meritati nella storia del premio – “Blue Jasmine” ci racconta la caduta agli inferi di una donna emblema di quella parte della società egoista e superficiale, che pone sempre prima la forma alla sostanza.

E’ una figura, purtroppo, davvero rappresentativa dei nostri tempi di crisi. Tempi che sono comunque opulenti per un gruppo ogni giorno più ristretto di persone intorno alle quali ruotano individui disposti a tutto pur di entrare a farvi parte, e che considerano il mondo e gli altri solo in funzione di questo obiettivo e delle loro proprie esigenze.

Immagino vi sia venuta già in mente qualche persona che conoscete…

Se è sublime ascoltare in lingua originale la Blanchett, un plauso merita anche Emanuela Rossi che magistralmente le dona la voce nell’edizione italiana.

Da vedere e far vedere a scuola.