“Il segno del comando” di Daniele D’Anza

(Italia, 1971)

Qui parliamo di uno sceneggiato che ha fatto la storia della televisione italiana e del nostro costume.

Scritto da Giuseppe D’Agata, Flaminio Bollini, Dante Guardamagna e Lucio Mandarà “Il segno del comando” ci racconta l’inquietante soggiorno romano di Lancelot Edward Forster (uno scintillante Ugo Pagliai in piena forma) professore di Letteratura Inglese a Cambridge, invitato nella città eterna per parlare del suo principale oggetto di studi: Lord Byron.

Ad attirare Forster a Roma è anche una lettera con la fotografia di una piazza citata in alcuni versi di Byron, firmata dal pittore Marco Tagliaferri (e non dico altro!).

Ma quando Forster si reca in via Margutta 33, dove risiede il pittore, ad aprirgli la porta è un’avvenente ragazza, Lucia (una affascinantissima Carla Gravina) che lo invita a incontrate Tagliaferri la sera stessa in un’osteria.

Recatosi all’ambasciata inglese, Forster incontra George Powell (un Massimo Girotti che richiama gagliardamente James Bond), addetto culturale della rappresentanza britannica a Roma e organizzatore della conferenza su Byron.

Quello che accadrà dopo lungo le altre quattro puntante dello sceneggiato – per quelli che non lo hanno mai guardato – non lo rivelo perché “Il segno del comando” merita di essere visto e rivisto.

Con le sue atmosfere misteriose e originali per i tempi, i suoi dialoghi dilatati che si alternano a scene frenetiche e zoomate violente, l’indimenticabile sigla “Cento campane”, e con quella magia che solo le immagini girate in studio e soprattutto in bianco e nero sapevano dare, lo sceneggiato di D’Anza è un grande documento storico della nostra cultura recente, così lontano e così vicino.