“Big Eyes” di Tim Burton

(USA, 2014)

Per legge, secondo me, ogni film del maestro gotico e visionario Tim Burton – che come pochi ha lasciato la sua indelebile impronta nell’immaginario collettivo degli ultimi anni – andrebbe visto al cinema.

Come questo suo particolare – per il cinema americano, non certo per la sua cinematografia – “Big Eyes” che racconta la storia vera della pittrice dilettante Margaret Keane (che nel film è interpretata da Amy Adams) e del suo tormentato rapporto col secondo marito Walter Keane (un grande Christoph Waltz).

Ammetto senza riserve che prima di vedere questo film ignoravo totalmente l’opera pittorica di Margaret Keane, e soprattutto di associare quegli occhioni a lei e a uno dei più clamorosi plagi artistici del XX secolo.

Burton ricostruisce magistralmente un mondo fatto di uomini, dove le donne devono rimanere sempre al loro posto, anche nell’ambito della pittura.

E parliamo della fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, non di un secolo fa!

Molto bello.

“Il risveglio della magia” di Don Hahn

(USA, 2009)

Agli inizi degli anni Ottanta il cinema classico d’animazione sembrava essere arrivato al capolinea.

I grandi effetti speciali misti a sequenze spettacolari di film come “Guerre stellari” o “Indiana Jones” sembravano aver definitivamente sostituito la magia dei tradizionali cartoni animati.

La stessa Walt Disney Company otteneva la maggior parte dei ricavi da altri campi come i parchi a tema o le serie tv, e al botteghino i classici cartoni non riscuotevano più il successo dei decenni precedenti.

Ma le cose cambiarono quando a capo della Disney vennero messi due uomini provenienti dalle grandi case di produzione di Hollywood: Frank Welles e Michael Eisner.

Oltre a triplicare gli introiti della company i due, in qualità rispettivamente di Presidente e Amministratore Delegato, ridiedero energia e linfa al reparto animazione che nel decennio 1984-1994 realizzò capolavori campioni d’incassi come “La sirenetta”, “Aladdin”, “La bella e la bestia” e “Il Re Leone”.

E sbriciando dietro le quinte di questi bei film incontriamo grandi artisti come Howard Ashman, autore geniale delle musiche dei primi tre, stroncato dall’AIDS a soli quarant’anni nel 1991 prima di poter vedere “La bella e la bestia” nell’edizione finale.

Insomma, un documentario bellissimo che ci racconta la rinascita dell’animazione fino al 1995, anno in cui cambia tutto nuovamente con “Toy Story” che segna il definitivo avvento della grafica digitalizzata.

E per la chicca ci si può godere, nelle immagini di repertorio, un giovanissimo Tim Burton disegnatore della Disney, e un John Lasseter, futuro fondatore della Pixar, maldestro operatore amatoriale.

“Nightmare Before Christmas” di Tim Burton e Henry Selick

(USA, 1993)

Questo capolavoro nato dal genio di Tim Burton è uno dei venticinque (venti sono troppo pochi, figuratevi dieci!) film da portare sull’isola deserta.

Diretto da un esperto del genere come Henry Selick (che qualche anno dopo firmerà un altro bel film come “Coraline e la porta magica”) “Nightmare Before Christmas” ci porta nelle inquietanti e allo stesso tempo tenere atmosfere gotiche burtaniane tipiche della notte di Ognissanti; condite con le musiche scritte e interpretate – nella versione inglese – da un altro genio quale Danny Elfman (leader degli Oingo Boingo prima di diventare autore di colonne sonore spesso candidate all’Oscar come quelle di “Will Hunting”, “Men in Black”, “Big Fish” e “Milk”).

Ma noi italiani abbiamo avuto una fortuna in più: il grande artista geniale Renato Zero (e guai a chi me lo tocca!) ha tradotto e interpretato le canzoni del film nella versione italiana.

Nel vedere le due versioni non esistono dubbi: Renato Zero tutta la vita! D’altronde il cane di Jack Skeletron si chiama proprio Zero…

Da vedere anche se non è Natale!

“La bottega dei suicidi” di Patrice Leconte

(Francia/Canada/Belgio, 2012)

Tratta dal romanzo di Jean Teulé, questa pellicola è l’esordio nel mondo dei cartoni animati del regista francese Patrice Leconte, autore fra gli altri di pellicole come “Il marito della parrucchiera” (1990) e “Confidenze troppo intime” (2004).

In una cupa e mortalmente grigia città sono numerosi i suicidi dei cittadini che preferiscono la morte alla vita. Ma le multe per chi si toglie la vita in pubblico sono salatissime, e anche in caso di ”successo” gli Enti preposti si rifanno sugli eredi.

Il modo più sicuro e garantito così è quello di rivolgersi alla Bottega dei Suicidi, un piccolo negozio artigianale gestito con grande successo dai coniugi Tuvache insieme ai loro due giovani figli.

Il macabro incantesimo si spezza quando nasce il terzo genito Alan, che ancora neonato non può fare a meno di sorridere alla vita…

Insomma, una deliziosa favola nera non adatta ai bambini più piccoli, con toni e umori che richiamano al maestro Tim Burton, e che da noi è stata vietata dalla censura ai minori di 18 anni.

Solo dopo un ricorso, quell’imbarazzante divieto – soprattutto se si considerano le ignobili vaccate, con il massimo rispetto per i veri bovini, che senza problemi hanno il visto di censura per tutti – è stato rimosso.

Vincent Price

Il 25 ottobre del 1993 se ne andava Vincent Price.

Nato a Saint Louis il 27 maggio 1911, Vincent Price è il rampollo di una ricca famiglia americana: suo nonno inventò la prima crema di lievito tartaro rendendo più che benestanti tutti i suoi eredi.

Appassionato d’arte, si laurea a Yale in storia dell’arte e prosegue i suoi studi a Londra. L’amore per la recitazione arriva attraverso il teatro, ma presto il cinema si accorge di lui: fascinoso, con due occhi blu penetranti, una voce calda e sensuale, e soprattutto alto 193 centimetri.

Ovviamente i suoi sono i ruoli del cattivo o del perfido: nel 1948 interpreta il malvagio cardinale Richelieu ne “I tre moschettieri “ con Gene Kelly e Lana Turner.

Alla fine degli anni Quaranta, alla radio, presta la sua voce a Simon Templar, l’eroe della serie “Il Santo” che nei decenni successivi approderà anche alla televisione e poi al cinema.

E’ negli anni Cinquanta che passa ai film dell’orrore – anche se partecipa al grande “Quando la città dorme” di Fritz Lang del 1956 – con “La maschera di cera” (1953) e il memorabile “L’esperimento del Dottor K” (1958), da cui Cronenberg realizzerà il terrificante remake “La mosca” nel 1986.

Lo stesso Price ha raccontato più di una volta le difficoltà che ebbe per girare la scena finale del film, quando doveva interpretare la “mosca” con la testa del Dottor K che veniva finalmente uccisa: nessuno del cast riusciva a smettere di ridere.

Con gli anni Sessanta arriva la collaborazione col geniale produttore e regista Roger Corman che lo porta ad interpretare film come “Il pozzo e il pendolo” (1961), “I racconti del terrore”(1962) e “La maschera della morte rossa”(1964).

Lo stesso anno interpreta quello che poi sarebbe diventato un cult:  “L’ultimo uomo della Terra” diretto da Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, con Giacomo Rossi Stuart e Franca Bettoia, girato a Roma nel quartiere EUR, e tratto dal romanzo di Richard Matheson “Io sono leggenda” – che tornerà numerose volte sul grande schermo in vari adattamenti fra cui spiccano “La notte dei morti viventi “ di George Romero del 1969 e il bellissimo “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra” di Boris Sagal del 1971.

Con gli anni Settanta l’horror diventa più cupo e interiore e Price presta le sue fattezze a due grandi pellicole, allora etichettate semplicemente di serie B ma oggi giustamente rivalutate: “L’abominevole Dr. Phibes”(1971) di Robert Fuest, e “Oscar insanguinato” (1973) diretto da Douglas Hickox in cui Price interpreta un attore shakespeariano stroncato dalla critica che torna per vendicarsi spettacolarmente contro i suoi detrattori.

Col passare del tempo le caratteristiche del film del terrore cambiano ma Price rimane vivo nell’immaginario collettivo: è sua la voce terrificante che accompagna l’avvento degli zombie nel video “Thriller” di Michael Jackson del 1983.

Tim Burton lo vuole nel suo “Edward mani di forbice” (1990), ma durante le riprese la sua parte viene ridotta a causa della malattia che lo sta consumando e che pochi anni dopo lo ucciderà.

Per noi Vincent Price è soprattutto un volto dei film dell’orrore, ma grazie (o questa volta a causa?) del doppiaggio ci siamo persi la sua voce profonda e inquietante, con una dizione perfetta che ha stregato generazioni di spettatori.

“Agora” di Alejandro Amenàbar

(Spagna, 2009)

Firmato dal regista di “Apri gli occhi” (poi rifatto in USA col titolo “Vanilla Sky” con Tom Cruise e diretto da Cameron Crowe) e di “The Others”, “Agora” è uno splendido film sulla storia, sulla religione, sulla scienza, ma soprattutto sul ruolo della donna nella società e nella cultura.

391 d.c., Alessandria d’Egitto è sotto l’Impero Romano, e nella sua leggendaria Biblioteca insegna scienza e astronomia la dotta Ipazia (una bravissima Rachel Weisz).

Ma l’Impero – almeno quello d’Occidente – è prossimo al collasso e l’avvento della nuova religione monoteista – il Cristianesimo – sconvolge ogni cosa, soprattutto finirà con l’umiliare e penalizzare atrocemente la considerazione della donna nella società. E Ipazia – simbolo della cultura libera che il paganesimo riconosceva come diritto anche alle donne – ne subirà tutte le conseguenze.

Un lontano passato? …Allora mi è venuto da pensare a mia nonna, classe 1920, che solo alla soglia dei trent’anni ha acquisito il diritto al voto.

E anche al film “We Want Sex” di Nigel Cole, che racconta come solo negli anni Settanta le donne hanno ottenuto il diritto di avere lo stipendio pari a quello degli uomini.

E chiudo con una battuta fra Mirs. Collins (Michelle Pfeiffer) e la giovane Victoria (Belle Heathcote) tratta da “Dark Shadow” (2012) del grande Tim Burton che si svolge nel 1972:

– Lei crede nella parità dei sessi?

– Assolutamente no! …Gli uomini sarebbero ingestibili!