“Norma Rae” di Martin Ritt

(USA, 1979)

Il grande Martin Ritt (che ha firmato film come “Il prestanome” con Woody Allen o “Lettere d’amore” con la coppia Jane Fonda e Robert De Niro) ci regala lo splendido ritratto di una donna cresciuta ed educata (così come farà nel 1987 con “Pazza” interpretato da Barbra Streisand) ad essere succube degli uomini, che però riesce a ritrovare se stessa.

Norma Rae (una eccezionale Sally Field) è una donna che vive in una piccola cittadina dell’Alabama, nel Sud degli Stati Uniti. Come sua madre e suo padre, Norma lavora nella fabbrica tessile che da decenni è il fulcro economico della zona.

Le condizioni di lavoro sono terribili, e i diritti dei lavoratori davvero molto pochi. Norma vive a casa dei genitori con i suoi due figli, avuti da padri diversi. Lei stessa è convinta di non meritarsi nulla di meglio, fino a quando in città arriva Rueben, rappresentate del Sindacato Nazionale dei Lavoratori Tessili, da anni osteggiato dall’amministrazione della fabbrica.

Norma comprenderà che per tutelare i propri diritti bisogna darsi da fare in prima persona, e scoprirà così anche una parte sconosciuta di se stessa…

Ispirata alla vera storia di Crystal Lee Sutton (1940-2009), questa bellissima pellicola consacra definitivamente Sally Field star di prima grandezza di Hollywood, facendole vincere, tra i numerosi premi, l’Oscar e il Golden Globe come miglior attrice protagonista.

Sempre molto attuale.

“Maniac” di Cary Fukunaga e Patrick Somerville

(USA, 2018)

Scritta da Cary Fukunaga e Patrick Somerville, e prodotta da Netflix, questa serie fantasy/grottesca tocca uno dei temi più spinosi della soceità umana: la famiglia.

Owen (un bravo Jonah Hill) è il figlio “stolto” e nevrotico della facoltosa famiglia Milgrim, il cui patriarca Porter (Gariel Byrne) poco accetta e sopporta. Ma Owen improvvisamente diventa fondamentale: la sua testimonianza può scagionare da una grave accusa – vera – di molestie sessuali suo fratello maggiore.

Se l’accusa venisse provata metterebbe in discussione l’intero impero dei Milgrim, e così Porter è disposto a far mentire suo figlio Owen in tribunale. Il giovane, sconvolto e turbato, decide di rifuggiarsi presso una grande casa farmaceutica che per qualche giorno sperimenterà su di lui un nuovo metodo per annullare il dolore morale ed emotivo delle persone.

Annie (una davvero brava Emma Stone) è una giovane donna tossicodipendente che è stata abbandonata, insieme alla sorella, dalla loro madre in tenera età.

Il suo martirio e la sua ossessione – e la sua droga – è assumere un nuovo farmaco sperimentale che le permette di rivevere il dramma del successivo distacco dalla sorella. Quando la sua scorta di pillole si esaurisce, Annie decide anche lei di fare da cavia per la sperimentazione del nuovo metodo contro il dolore morale ed emotivo. Ma…

Dieci puntate completamente fuori le righe, ma realizzate con grande maestrie e irrivenerenza. Con macroscopici riferimenti allo stile cinematografico e televisivo degli anni Ottanta, “Maniac” diverte fino all’ultima puntata.

Grande parte secondaria per una straordinaria Sally Field che mostra sempre la sua grande arte e il suo intramontabile fascino.

“Diritto di cronaca” di Sidney Pollack

(USA, 1981)

Prodotto e diretto dal maestro Sidney Pollack, e scritto da Kurt Luedtke (che poi collaborerà con Pollack in “La mia Africa”) “Diritto di cronaca” affronta un tema ancora oggi molto caldo: i “limiti” morali del giornalismo.

Il titolo originale “Absence Of Malice” (che si potrebbe tradurre: “In buona fede”) è certamente più indicativo di quello in italiano, che forse colpisce di più il nostro immaginario.

La decisa e rampante giornalista d’assalto Megan Carter (una sempre brava Sally Field) asseconda un pò troppo ingenuamente il procuratore distrettuale di Miami che, non avendo l’ombra di una prova, vuole mettere sotto pressione Michale Gallager (un sempre grande Paul Newman), che gestisce una piccola ditta di stoccaggio al porto.

Le attenzioni del procuratore non sono dovute alla sua attività, ma a suo padre che in vita era notoriamente legato alla criminalità organizzata. Nulla però accomuna ufficialmente le attività di Michael a quelle del padre, ma la “macchina del fango” e delle illazioni, grazie proprio a Megan, parte inesorabile.

Le conseguenze sono devastanti, tanto che la ditta di Gallager cade in una grave crisi, per non parlare poi della sua vita personale. Ma l’uomo non è tipo di arrendersi, e con lo stesso carattere con cui è riuscito a mantenersi a una certa distanza dalle criminali attività del padre, prede in mano la situazione…

Splendida prova d’attore di Newman e della Field, che ci regala sempre grandi ritratti di donne, nel bene e nel male.

Da vedere e far vedere, soprattutto nelle redazioni e nelle scuole di giornalismo.

“L’amore di Murphy” di Martin Ritt

(USA, 1985)

Sally Field, fresca vincitrice del suo secondo Oscar come miglior attrice protagonista – per “Le stagioni del cuore” di Robert Benton –  torna ad essere diretta da Martin Ritt (vero maestro di Hollywood che ha firmato pellicole come “La spia che venne dal freddo”, “Il prestanome“, o “Lettere d’amore”) che l’aveva già diretta in “Norma Rae” pellicola grazie alla quale vinse la sua prima statuetta.

Emma Moriarty (la Field) vuole iniziare una nuova vita insieme al figlio dodicenne Jake. E’ nata e cresciuta in un ranch, e gestirne uno è quello che sa fare meglio. Così, con i limitati rispiarmi, ne ha comprato uno alla porte di una piccola cittadina dell’Arizona. I pochi soldi che le sono rimasti devono bastare per far sopravvivere suo figlio e lei finché l’attività non decolla.

Fra i vari abitanti della città, quello che la colpisce di più è Murphy Jones (un bravissimo James Garner), l’attempato e anticonformista farmacista e padrone dell’emporio della città. Fra i due si instaura subito uno strano e impalpabile rapporto che subisce un brusco mutamento quando nel ranch arriva Bobby Jack, l’ex marito di Emma e padre di suo figlio…

Se la Field è brava come sempre, in questa pellicola romantica e intimista, possiamo apprezzare le doti di Garner, che proprio per questo ruolo venne candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. E pensare che Ritt e la Field dovettero discutere non poco con la produzione per inserirlo nel cast, visto che in quegli anni James Garner era considerato soprattutto un attore da televisione.

“Hello, My Name is Doris” di Michael Showalter

(USA, 2015)

Scritto da Michael Showalter insieme a Laura Terruso, questo piccolo film indipendente parla con tenerezza e rispetto di un tema molto complesso e profondo come la solitudine di una donna che ha dedicato la sua esistenza alla madre, e all’improvviso si ritrova “piena di rughe” e senza una vita privata.

Doris (una bravissima Sally Field) accompagna la salma dell’anziana madre al funerale. Appena rientrata, suo fratello Tod (Stephen Root) – che grazie a lei ha potuto laurearsi e crearsi una famiglia – le comunica che intende vendere la grande casa della madre, e per questo lei deve gettare tutte le cose che da anni raccoglie e conserva in maniera compulsiva. Ma Doris graniticamente si rifiuta.

Il giorno dopo, mentre si reca sul posto di lavoro, incontra un giovane fascinoso che le regala un bel sorriso. Doris, turbata, si siede alla solita scrivania e inizia a lavorare fino a quando non rimane basita scoprendo che il ragazzo è John (Max Greenfield, divenuto famoso per la serie “New Girl”) il nuovo collaboratore del suo capo. Doris entra in uno stato di innamoramento onirico e surreale e si fa aiutare e consigliare dalla nipote tredicenne di Roz (Tyna Daly, stella della tv anni Ottanta), sua vicina di casa e unica amica. Ma i sogni, purtroppo, spesso sono condannati a frangersi contro la realtà, che Doris, volente o nolente, dovrà avere la forza di affrontare…

La due volte premio Oscar Sally Field, da attrice di razza, non ha paura di invecchiare davanti alla macchina da presa, e di indossare abiti alla moda oltre trent’anni fa, lei che è stata negli anni Sessanta una delle fidanzatine d’America, per diventare un sex-symbol negli anni Settanta e uno dei volti più rappresentativi dell’emancipazione femminile cinematografica negli anni successivi.

E così ci regala una grande e delicata interpretazione di una donna sola e nevrotica, che al tempo stesso riesce a mantenere un sorriso bello e speranzoso.