“La solitudine del gelataio” di Nicola Zecchini

(Amazon EU, 2023)

E’ un dato di fatto, ormai assodato da tempo, che al mondo c’è chi sa raccontare una barzelletta e chi no. Si possono studiare centinaia di manuali ed esercitarsi davanti allo specchio per ore intere, ma o si possiede il talento del racconto verbale o non lo si possiede. Punto e basta.

E forse è per questo che nell’editoria tradizionale contemporanea del nostro Paese il racconto italiano trova pochissimo spazio. Perché (come per le barzellette) o lo si sa scrivere, o non lo si sa scrivere. Non ci sono editor o riscritture che tengano: lo spazio limitato di alcune pagine non dà scampo a chi non è capace di scrivere, come raccontare una barzelletta, appunto. Il romanzo, invece, per la sua maggiore ampiezza consente a volte – e non sempre – correzioni, ricalibrazioni e riscritture che un editor può attuare per renderlo più “presentabile”.

Naturalmente il nostro Paese non è sprovvisto di brave scrittrici e di bravi scrittori, sia di romanzi che di racconti. E allora viene da pensare che gli editor italici – che spesso sono anche coloro che selezionano o almeno dovrebbero selezionare i manoscritti da pubblicare – nel racconto non trovano lo spazio che cercano. Che poi la maggior parte degli autori italiani pubblicati in questi anni siano allo stesso tempo gli editor delle case editrici più rinomate, è un altro discorso.

Gli scaffali delle nostre librerie sono pieni di romanzi italiani ma vuote di racconti italiani, fatta eccezione per quelli classici scritti da grandi autori come Italo Calvino o Andrea Camilleri, che i più hanno già letto da tempo. E così chi ama il formato racconto – dal quale comunque sono partiti quasi tutti i grandi autori planetari – e, per sana e più che giustificata empatia, vuole leggere quelli scritti dai propri connazionali, deve per forza rivolgersi all’autopubblicazione.

“La solitudine del gelataio” rappresenta l’esordio letterario di Nicola Zecchini – classe 1979 – e contiene 30 racconti, brevi e meno brevi, alcuni dei quali davvero struggenti, altri divertenti e ironici, ma tutti davvero belli da leggere e, soprattutto, da vivere. Perché ogni racconto è un’escursione nell’anima del personaggio ma soprattutto del lettore.

Lo stile di Zecchini è ondulato e ricco, e percorrerlo è un delizioso viaggio nel viaggio della narrazione. Tutti i suoi personaggi hanno in comune il dolore e soprattutto la paura del vivere o dell’aver vissuto, così come ci sottolinea in “Caro Andrea” il protagonista quando afferma: “La mia libertà si sente al sicuro tra due cuscini di monotonia”.

Osserviamo e sentiamo, come davanti a un quadro di Edward Hopper, la solitudine e l’incomunicabilità degli esseri umani la cui paura più grande, e al tempo stesso il desiderio più incontenibile, è lo scambio, il confronto e il giudizio degli altri.

“La solitudine del gelataio” contribuisce così a colmare quel vuoto, ormai davvero insopportabile, negli scaffali delle nostre librerie donando un pò di serenità a chi come me ama leggere romanzi, saggi ma anche racconti, facendoci sentire lettori meno soli a discapito, purtroppo per lui, del gelataio.

Tra i miei preferiti: “Pianeta Döner”, “Ecosistema” e “La solitudine del gelataio”.

Da leggere.

“Da dove sto chiamando” di Raymond Carver

(1999, Minimum Fax)

Raymond Carver per me è il racconto, mezzo passo indietro al genio assoluto che è Anton Čechov.

Questa raccolta, che contiene 37 titoli, rappresenta l’apoteosi dello scrivere racconti brevi. Meglio di mille altri romanzi contemporanei, Carver ci racconta la “commedia umana”, prendendo spunto da piccoli o grandi episodi nelle vite di persone, le più disparate fra loro.

Entriamo nell’intimo e nell’anima dei protagonisti come se fosse la cosa più naturale del mondo, e assistiamo a piccoli eventi, almeno in apparenza, che segnano però le loro esistenze. C’è davvero l’imbarazzo della scelta, ma il mio preferito è “L’incarico”, dove Carver ripercorre gli ultimi istanti di vita del suo maestro spirituale Anton Čechov attraverso gli occhi di un umile servitore.

Assolutamente da leggere, come tutti gli altri racconti.

E pensare che se fosse stato italiano, reo di avere usato il formato racconto, probabilmente nessuno lo avrebbe pubblicato…

“Lupi mannari americani” di Michael Chabon

(2006, Rizzoli)

Il viaggio che si fa leggendo la raccolta dei nove racconti firmati da Michael Chabon (classe 1963) è interessante, divertente e a volte doloroso, ma merita di essere fatto.

Il mio preferito?

“Il figlio del licantropo” che, come gli altri, non ha nulla a che vedere con le lune piene, le creature fantastiche o le pallottole d’argento, ma parla semplicemente della vita quotidiana e dei suoi “mostri” del tutto umani.

E poi qualcuno dice che il formato racconto è obsoleto…