“Alfredo Alfredo” di Pietro Germi

(Italia/Francia, 1972)

All’indomani dell’entrata in vigore nel nostro Paese del divorzio, il maestro Pietro Germi punta la sua tagliente macchina da presa nella camera da letto degli italiani.

E’ indubbio che la legge sul divorzio, nel Paese che confina con lo Stato che ospita il Santo Padre, sia una enorme ed epocale conquista, soprattutto per le donne. Ma gli italiani, sopratutto gli uomini, sono davvero pronti?

Così entriamo nella vita del ligio impiegato di banca Alfredo Sbisà (interpretato da Dustin Hoffman e doppiato in maniera straordinaria da Ferruccio Amendola) che nonostante la sua laurea in Architettura preferisce la morigerata vita impiegatizia che culmina la sera con la visione di uno sceneggiato televisivo assieme al padre.

L’unico elemento fuori le righe della sua esistenza è Oreste (Duilio Del Prete) impenitente donnaiolo, che riesce ogni tanto a strapparlo dalla sua routine. Ma un giorno Alfredo incrocia per le strade della sua Ascoli un’affascinantissima farmacista che poi scopre chiamarsi Maria Rosa (Stefania Sandrelli) e della quale subito si innamora.

Se il carattere di Alfredo è timoroso e profondamente riflessivo, quello di Maria Rosa, invece, è impulsivo e volitivo, così la loro relazione esplode quasi subito e velocemente arriva al matrimonio. Quando poi la neo signora Sbrisà rimane incinta, in casa si stabiliscono anche i suoceri (con un grande Saro Urzì nel ruolo del padre) e Alfredo viene relegato nella cantina, visto poi che suo padre da tempo ormai era stato “invitato” a trasferirsi nella casa di campagna.

In breve tempo di lui nessuno si cura più e così Alfredo, preso dalla solitudine la sera inizia segretamente a uscire di casa per guardare gli altri “vivere”. Una sera, sempre con lo zampino di Oreste, incontra Carolina (Carla Gravina) donna dal carattere e dalla idee diametralmente opposte a quelle di Maria Rosa, ma…

Scritto dallo stesso Germi assieme a Tullio Pinelli, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, questo “Alfredo Alfredo” – che sembra a tutti gli effetti un antesignano dello struggente “L’amore fugge” del grande Truffaut – ci sussurra all’orecchio una frase che, parafrasando Massimo D’Azeglio, potrebbe essere: “Fatto il divorzio …ora bisogna fare i coniugi”.

A distanza ormai di cinquant’anni, infatti, e con due generazioni di italiani nati con il divorzio in vigore, siamo poi così sicuri che sappiamo davvero bene il significato di matrimonio? Purtroppo per secoli l’unione di una coppia, nella nostra Terra, è stata rigidamente considerata come un vincolo sacro e un dogma della società. Come se dopo aver pronunciato il fatidico “sì”, tutto si svolga in maniera “naturale” e senza “particolari” problemi.

Questo, naturalmente, secondo una medievale concezione patriarcale per la quale tutto ruotava intorno all’uomo a cui la donna doveva adattarsi in maniera supina. Ho usato il termine medievale, ma in realtà non dobbiamo andare così lontano nel tempo visto che, per fare un esempio, anche i miei genitori si sono sposati senza che esistesse la legge sul divorzio.

E così, una volta scardinato il secolare sacro vincolo le donne, ma soprattuto gli uomini, sono capaci di avere una relazione equilibrata?

Naturalmente generalizzare è sbagliato, ma Germi ha sempre amato farci ridere facendoci pensare. Se invece non abbiamo voglia di ridere col maestro Germi, basta leggere quel bollettino di guerra che sono i femminicidi ancora oggi nel nostro Paese.

“Signore & signori” di Pietro Germi

(Italia, 1965)

Ci sono pellicole, come attrici e attori, indimenticabili. Così come il film “Signore & signori” diretto da Pietro Germi nel 1965, e Gastone Moschin che è uno dei suoi protagonisti.

Scritto – non senza problemi – dallo stesso Germi insieme ad alcuni fra i più grandi sceneggiatori del Novecento come  Ennio Flaiano, Luciano Vincenzoni (scrittore di fiducia di Sergio Leone), Age e Furio Scarpelli, “Signore & signori” è una fotografia ironica e spietata della nostra società in pieno Boom.

Nel film si intrecciano le bugie, i tradimenti e le feroci ipocrisie di un gruppo di ricchi commercianti e liberi professionisti di una cittadina del Nord Est. In un’Italia schiacciata dal senso cattolico distorto e bigotto, ma soprattutto dal suo perbenismo, l’importante non è comportarsi secondo i suoi dettami, ma: “Che resti fra noi…” frase simbolica del film.

Fra le vicissitudini raccontate spicca quella del ragionier Osvaldo Bisigato (uno stratosferico Gastone Moschin) che si innamora della giovane Milena Ziulian (una davvero splendente Virna Lisi dall’insolita chioma nera), cassiera di uno degli esercizi più noti della cittadina. Nessuno sembra sconvolgersi più di tanto per la liaison clandestina, neanche Gilda Bisigato (Nora Ricci) moglie legittima del ragioniere. Le cose cambiano però quando l’innamorato Bisigato decide di fuggire con Milena: l’intera cittadina si oppone fermamente all’”ufficializzazione” della tresca, che viene drasticamente condannata e interrotta.

Oggi la nostra società non sta vivendo un periodo economicamente paragonabile al Boom di quei tempi (e se qualcuno lo sta vivendo è sempre la solita piccola parte, la stragrande maggioranza dei cittadini italiani, invece, deve barcamenarsi per arrivare a fine mese) ma l’ipocrisia di un perbenismo figlio di alcuni principi cattolici distorti c’è sempre. Basta sbirciare i social per vedere immagini o le migliaia di frasi, “sagaci e filosofiche perle di vita”, che vengono condivise ogni giorno ma che poi stridono non poco con la vita quotidiana che si consuma dentro i nostri confini nazionali.

Sono passati più di cinquant’anni dall’uscita di questo film, e ogni suo singolo fotogramma è ancora vivo, graffiante e attuale. Un capolavoro insomma.      

Fra i numerosi premi, il “Signore & signori” vince il Grand Prix al Festival di Cannes.

“I giovedì della signora Giulia” di Paolo Nuzzi, Massimo Scaglione e Piero Chiara

(Italia, 1970)

Chiamatemi pure un nostalgico del bianco e nero (anche se questo nello specifico è a colori), ma mi fanno impazzire e mi intrigano come pochi i vecchi sceneggiati della nostra – sparita e compianta – grande televisione.

Questo si ispira al romanzo omonimo di Piero Chiara – scrittore che personalmente apprezzo molto – grande narratore e castigatore dei vizi della ricca provincia italiana del nord, e ci porta nello specifico dentro la magione dell’avvocato Tommaso Esengrini (impersonato da un bravissimo e antipaticissimo Claudio Gora), che un giovedì sera chiama il suo “amico-nemico” di tribunale, l’ispettore Sciancalepre (che ha il viso del vero investigatore privato Tom Ponzi), per chiedergli un supporto morale e logistico visto che la moglie Giulia è scappata di casa.

Ricostruendo gli ultimi giorni prima della scomparsa, Sciancalepre viene a sapere che la signora era usa ogni giovedì andare a Milano per trovare la figlia adolescente, ospite di un rinomato collegio della città. E, soprattutto, il commissario scopre che la signora Esengrini aveva una relazione con tale Luciano Barsanti, che era pronto a iniziare una nuova vita con lei a Roma.

Ma nessuno, nemmeno lui, ha notizie della signora che alla fine viene classificata come persona scomparsa.

L’anno successivo, durante i lavori per costruire una piscina nel giardino di villa Esengrini, viene scoperto il corpo della signora Giulia all’interno di una vecchia cisterna che uno smottamento ha riportato alla luce.

L’indiziato principale del delitto diventa subito l’avvocato Esengrini, che però nega tutto portando l’attenzione del PM prima sul Barsanti e poi su Demetrio, il suo tuttofare e assistente personale di studio, abitante anche lui a Villa Esengrini e conoscente fin da bambino della signora Giulia…

La conclusione dello sceneggiato (prodotto da Pietro Germi, e si vede!) si discosta non poco da quella del romanzo – tranquilli non anticipo nessuna delle due – ma mantiene inalterata l’atmosfera cupa e inquietante dello scritto di Chiara.

Per amanti e fini intenditori.

“L’immorale” di Pietro Germi

(ITA/FRA, 1967)

Immeritatamente fra i meno noti del grande Pietro Germi, “L’immorale” è invece uno dei suoi film più riusciti e soprattutto più contemporanei.

Il violinista Sergio Masini (uno stratosferico Ugo Tognazzi, che per questa interpretazione ha vinto il David di Donatello) è un uomo che ama le donne e i bambini. Per questo di famiglie ne ha due.

La prima è quella creata insieme alla moglie Giulia, la seconda quella nata dal suo rapporto extraconiugale con Adele. Con la prima di figli ne ha tre, con la seconda due.

La gestione di un tale menage è complicata, ma con l’ausilio di decine di gettoni telefonici al giorno (per cellulare, in quegli anni, si intendeva solamente il veicolo della Polizia) e la pazienza delle due donne – soprattutto quella di Adele che è serenamente a conoscenza della famiglia ufficiale del suo uomo – l’impresa riesce.

I problemi arrivano quando Sergio incontra la ventenne Marisa (una giovane Stefania Sandrelli col botto!) che si innamora di lui e che lo vorrebbe tutto per sé, ma Sergio non intende rinunciare alle sue famiglie e così la storia sembra naufragare.

Quando però scopre che Marisa è rimasta incinta ed è tornata dai suoi genitori per abortire, Sergio subito la raggiunge e se la riporta a Roma, come suo terzo nucleo familiare a tutti gli effetti, ma il destino è sempre in agguato…

Il personaggio di Sergio è uno dei più belli e controversi del cinema di Germi, così puro e sincero – nonostante la sua vita iperstrutturata su bugie e finti alibi – che arriva a scandalizzarsi quando il prete a cui racconta la sua storia gli parla di “divorzio” (allora da noi ancora legalmente lontano).

E lo fa non per egoismo o becero maschilismo, ma perché lui le sue donne le ama davvero, così come i suoi figli e per nulla al mondo vorrebbe rinunciarci, e si ammazza di lavoro (accettando tournée massacranti e perfino serate nei night club) per garantire a tutti il massimo benessere.

Anche se nel nostro Paese il divorzio e il diritto all’aborto – che qualche troglodita ha ancora l’ignoranza di discutere – sono stati introdotti da svariati decenni, il film di Germi resta incredibilmente attuale.

Per la chicca: alcune voci di corridoio dell’epoca, non verificate, affermarono che il personaggio del protagonista fu ispirato alla vita privata del grande maestro Vittorio De Sica.