“L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo

(Italia, 1976)

“Senza le donne: non saremmo qui…” dice il comandante (impersonato da Stefano Satta Flores) ai suoi uomini riferendosi nello specifico all’Agnese (Ingrid Thulin) che porta i viveri al gruppo di partigiani nascosti in una fattoria abbandonata nella bassa padana, nella provincia di Ferrara.

Siamo negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, e per i nostri connazionali che vivono in quella zona sono gli anni più duri e crudeli. Agnese, che nella vita ha fatto sempre e solo la lavandaia visto che il marito Palita (Massimo Girotti) a causa di una grave malattia non può di fatto lavorare. Ma pensare quello sì, e così il Palita è diventato comunista e grande antifascista, cose che all’Agnese non interessano.

Quando suo marito viene rastrellato dai tedeschi, dopo essere stato denunciato per aver aiutato un soldato italiano disertore, per Agnese crolla il mondo. E la sua esistenza sembra spezzarsi alla notizia della morte di Palita avvenuta per stenti sul treno piombato nel quale era stato deportato. Agnese così decide di reagire e dopo che un tedesco mitraglia per divertimento il vecchio gatto di suo marito la donna, approfittando dell’ubriachezza dell’uomo, lo colpisce violentemente alla testa col suo stesso mitragliatore.

Agnese così è costretta a darsi alla macchia e si unisce ai partigiani, ma…

Nel cast da ricordare anche Flavio Bucci, Michele Placido, Ninetto Davoli, Aurore Clément, Eleonora Giorgi e Rosalino Cellamare che di lì a breve interromperà la sua carriera di attore a favore di quella di cantante e autore con lo pseudonimo di Ron.

Il film si ispira all’omonimo libro scritto da Renata Viganò nel 1948, che la staffetta partigiana l’aveva fatta davvero durante il conflitto, e ci racconta la storia di una donna che, come molte altre, decide di ribellarsi e combattere la dittatura nazi-fascista che opprimeva la nostra terra. Il prezzo sarà altissimo ma per lei, come per tutte le persone perite durante il conflitto per liberare il nostro Paese, la libertà non ha prezzo.

Scritta dallo stesso Montaldo assieme a Nicola Badalucco, con le musiche del maestro Ennio Morricone, questa pellicola sottolinea inoltre quanto sia stato fondamentale l’intervento delle donne sia nel conflitto, sia negli anni della ricostruzione. Col suffragio universale e la possibilità anche per le donne di essere elette e ottenere cariche istituzionali rilevanti – ancora oggi troppo poche! – la storia del nostro Paese ha preso, finalmente, un’altra piega.

Non è un caso, quindi, che fra le staffette partigiane ci siano i nomi di donne che hanno fatto compiere enormi passi in avanti alla nostra Repubblica, nomi – solo per citarne alcuni naturalmente – come quelli di Nilde Iotti, Maria Pia Fanfani o Tina Anselmi.

Quest’ultima, tanto per fare un esempio, è stata la prima Ministra (del Dicastero del Lavoro) nella storia del nostro Paese e, successivamente, come Ministra della Salute firmò la Legge 194 per l’interruzione volontaria della gravidanza e istituì il Servizio Sanitario Nazionale; SSN che una certa politica allegra negli ultimi anni ha cercato di affossare a favore di quello privato ma che proprio nel corso della pandemia del Covid-19 ha consentito al nostro Paese di rimanere in piedi e lottare.

Ma non è che tutta questa lontananza fra i cittadini e cosiddetta “politica” è dovuta proprio al troppo basso – e spesso imbarazzante – numero di cariche istituzionali che ricoprono le donne? …Ma che davvero?

“Il segno del comando” di Daniele D’Anza

(Italia, 1971)

Qui parliamo di uno sceneggiato che ha fatto la storia della televisione italiana e del nostro costume.

Scritto da Giuseppe D’Agata, Flaminio Bollini, Dante Guardamagna e Lucio Mandarà “Il segno del comando” ci racconta l’inquietante soggiorno romano di Lancelot Edward Forster (uno scintillante Ugo Pagliai in piena forma) professore di Letteratura Inglese a Cambridge, invitato nella città eterna per parlare del suo principale oggetto di studi: Lord Byron.

Ad attirare Forster a Roma è anche una lettera con la fotografia di una piazza citata in alcuni versi di Byron, firmata dal pittore Marco Tagliaferri (e non dico altro!).

Ma quando Forster si reca in via Margutta 33, dove risiede il pittore, ad aprirgli la porta è un’avvenente ragazza, Lucia (una affascinantissima Carla Gravina) che lo invita a incontrate Tagliaferri la sera stessa in un’osteria.

Recatosi all’ambasciata inglese, Forster incontra George Powell (un Massimo Girotti che richiama gagliardamente James Bond), addetto culturale della rappresentanza britannica a Roma e organizzatore della conferenza su Byron.

Quello che accadrà dopo lungo le altre quattro puntante dello sceneggiato – per quelli che non lo hanno mai guardato – non lo rivelo perché “Il segno del comando” merita di essere visto e rivisto.

Con le sue atmosfere misteriose e originali per i tempi, i suoi dialoghi dilatati che si alternano a scene frenetiche e zoomate violente, l’indimenticabile sigla “Cento campane”, e con quella magia che solo le immagini girate in studio e soprattutto in bianco e nero sapevano dare, lo sceneggiato di D’Anza è un grande documento storico della nostra cultura recente, così lontano e così vicino.