“Manhattan” di Woody Allen

(USA, 1979)

Sarà il connubio fra la musica immortale di George Gershwin e la sublime fotografia in bianco e nero firmata da Gordon Willis, oltre che ovviamente i dialoghi irresistibili e all’ultimo colpo ma, tanto per tornare a parlare di Woody Allen, questo suo “Mahattan” – scritto insieme a Marshall Brickman – rimane memorabile.

Fra i primi sentimenti che si provano c’è quello di scappare immediatamente a New York per guardarla dal vero, magari usando occhiali speciali che te la fanno vedere in b/n, perché come dice Wim Wenders: “La vita è a colori, ma in bianco e nero è più realistica”.

Adoro questo film anche per una scena ben precisa, che mi fa sbellicare e riflettere ogni volta che la rivedo e che – per questo non sarò mai abbastanza grato al grande Woody! – ha salvato la mia autostima in fatto di vita amorosa.

E’ la scena in cui Mary (Diane Keaton) incontra casualmente il suo ex marito Jeremiah. Per tutta la sua relazione con Isaac (Woody Allen), Mary non ha fatto altro che parlare di lui come di un animale virile che l’ha liberata da ogni inibizione, aprendola al mondo dei sensi; una sorta di divoratore di corpi femminili, “sotto” al quale alcune donne – compresa lei – sono svenute per la troppa intensità dell’orgasmo.

Le facce di Isaac durante questi racconti sono silenziose ma alquanto eloquenti. Ma nulla a che vedere con l’espressione che assume quando finalmente vede dal vivo Jeremiah, interpretato da Wallace Shawn, che è un noto attore di Broadway, molto famoso per la sua bravura ma non certo per il suo aspetto fisico.

Shawn/Jeremiah, oltre che parlare in modo fastidiosamente nasale, è un suo coetaneo, più basso di Allen e molto più stempiato di lui. Ad Isaac non rimanere altro che riflettere sulla soggettività e sulla concretezza dei mostri e dei fantasmi che ci creiamo nella nostra testa.

Memorabile.