“Il presidente” di Henri Verneuil

(Francia/Italia, 1961)

Ispirata al romanzo “Il presidente” pubblicato dal maestro George Simenon un paio di anni prima, questa pellicola ci offre una rilevante interpretazioni di Jean Gabin che veste il ruolo di uno dei più importanti statisti francesi del Novecento.

Appena giunto a Parigi, il Primo Ministro britannico parte con tanto di scorta e codazzo di giornalisti per La Verdière, una piccola località della Provenza dove risiede Émile Beaufort, notissimo politico transalpino, numerose volte Presidente del Consiglio ma ormai ritiratosi da molti anni, suo storico compagno di lotte politiche internazionali.

La stampa francese, e non solo, si chiede e ipotizza l’argomento dell’incontro riservato fra i due, che però nella realtà è soprattutto una rimpatriata amichevole. Beaufort, partito il suo vecchio amico, torna alla sua routine quotidiana fatta di molte medicine, data la sua età e la sua salute cagionevole, e soprattutto fatta di ricordi politici e personali.

Da tempo, infatti, sta dettando alla sua storica segretaria Mademoiselle Milleran (Renée Faure) la sua autobiografia, attraverso la quale rivive i momenti fatidici della sua carriera, come quando fu tradito dal “fedele” assistente Philippe Chalamont (interpretato da un bravissimo Bernard Blier) o quando decise di ritirarsi “ricattato” da quasi tutto il Parlamento per la sua decisione di aderire al progetto dell’Europa Unita.

Leggendo i giornali, ascoltando la radio e guardando la televisione, Beaufort viene a sapere che per risolvere la grave crisi istituzionale che affligge la Francia, il Presidente della Repubblica ha incaricato proprio Chalamont di fare un Governo di unità nazionale.

Visto che possiede un documento assai compromettente per lo stesso Chalamont, Beaufort sa che il suo ex assistente verrà ad incontrarlo prima di accettare l’incarico datogli dal Presidente della Repubblica. E così, nel suo studio solitario il Presidente – così come ormai tutti chiamano Beaufort – contornato dai suoi ricordi attende un incontro che aspetta da oltre vent’anni. Ma la politica è una cosa dura e spietata…

Discreto film centrato sul tema della politica e dei suoi oscuri e bui corridoi che ci regala un grande Gabin in un ruolo insolito nella sua carriera. Proprio per far aderire al meglio al grande attore francese il personaggio, Verneuil e Michel Audiard – autori della sceneggiatura – si discostano dal personaggio originale creato da Simenon per crearne uno abbastanza differente, sia per l’età – il Beaufort del romanzo ha ottantadue anni mentre quello del film settantadue – che per le dinamiche politiche che lo vedono protagonista.

Il risultato comunque merita di essere visto e apprezzato anche a distanza di oltre sessant’anni. Nella nostra versione deve essere ricordato il grande Emilio Cigoli che doppia superbamente, ancora una volta, Jean Gabin.

Per la chicca: nonostante la produzione – così come lo stesso Simenon fece all’uscita del suo romanzo – dichiarò esplicitamente che Beaufort non era ispirato a nessun politico reale, le cronache contemporanee lo associarono a Georges Clemenceau (1841-1929), fautore dell’alleanza franco-britannica nonché artefice del Trattato di Versailles che mise fine alla Prima Guerra Mondiale, politico che lo stesso Gabin/Beaufort cita all’inizio della pellicola.

“Le Chat – L’implacabile uomo di Saint Germain” di Pierre Garnier-Deferre

(Francia/Italia, 1971)

Quattro anni dopo l’uscita del libro “Il gatto” di Georges Simenon, il cineasta Pierre Granier-Deferre realizza il suo adattamento cinematografico. La sceneggiatura la scrive insieme a Pascal Jardin, e non sono pochi i cambiamenti che i due decidono di fare rispetto alla trama del romanzo.

A partire dai nomi dei due protagonisti che non sono più Emile e Marguerite, ma Julien Buoin (un grande Jean Gabin) e Clémence (un’altrettanto grandissima Simone Signoret). Sono una coppia non più in seconde nozze (come nel romazo), ma in prime. Julien è un tipografo in pensione, mentre Clémence un artista di circo rimasta claudicante a causa di una caduta durante uno spettacolo.

I due non si parlano più, da quando Marguarite ha ucciso il gatto del marito. Anche se condividono la vecchia casa in affitto che abitano dal giorno delle loro nozze, comunicano solo attraverso dei sintetici e taglienti bigliettini.

Il quartiere dove abitano è diventato un cantiere a cielo aperto, dove numerose imprese edili stanno costruendo enormi palazzi “dormitorio” per la nuova Parigi. Ma su tutto, come nel libro del maestro Simeon, aleggia l’ombra della morte…

Gabin, dopo le pellicole dedicate al commissario Maigret, torna a vestire i panni di un personaggio creato dallo scrittore belga. E, come sempre, lo fa da grande attore. Lo stesso si può dire della Signoret che incarna in maniera sublime una donna ormai “sfiorita” che non riesce a più a comprendere il suo compagno di vita.

Un film triste, duro e nostalgico che vale la pena di vedere anche solo per i suoi due grandi protagonisti.

“Grisbì” di Jacques Becker

(Francia, 1954)

Il maestro François Truffaut ha definito, giustamente, il tema di questo film l’incrocio fra l’amicizia e la vecchiaia.

Infatti, il film di Becker inaugura un lungo filone dedicato alla criminalità, e allo scontro nel suo ambito fra vecchie e nuove generazioni. Tema ripreso anche, per esempio, dalla splendida saga de “Il Padrino” di Coppola.

Max (un grande Jean Gabin che per questa interpretazione vince la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia del 1954) è un dei boss della mala di Orly, e assieme all’amico fraterno Riton (René Dary) ormai da qualche decennio gestisce i traffici illeciti della città.

I due, con sangue freddo e non poca abilità, hanno segretamente messo a segno il colpo che finalmente gli permetterà di ritirarsi: hanno rapinato un carico di lingotti d’oro all’aeroporto della città.

Nessuno sospetta di loro e Max e Riton aspettano solo che le acque si calmino per rivolgersi al loro ricettatore di fiducia. Ma Riton ha un debole per le ballerine e così incautamente rivela all’avvenente Josy (una giovanissima Jeanne Moreau) il colpo appena fatto. Josy però è una cocainomane e pur di garantirsi la dose racconta tutto a Angelo (un duro Lino Ventura al suo debutto cinematografico).

Per avere il famigerato malloppo (“grisbì” nell’allora gergo della mala francese) Angelo rapisce Riton e ricatta Max. Ma l’amicizia per il vecchio gangster è sacra e così non ci pensa due volte ad accettare la scambio. Ma Angelo, incautamente, considera Max un vecchio arrugginito…

Grande pellicola d’atmosfera che ci parla dello scontro generazionale della mala, appunto, fra quella affermatasi prima della Seconda Guerra Mondiale e quella cresciuta e maturata dopo, che ignora e calpesta i vecchi codici d’onore della prima.

E seguiamo il rapporto incondizionato fra due amici molti simili ma non uguali, perché uno non accetta il passare del tempo e l’invecchiare ed è convinto che frequentando donne sempre più giovani potrà evitarlo, mentre l’altro, serenamente rassegnato, accoglie saggiamente e senza troppi patemi il bianco dei suoi capelli e le rughe sul suo volto.

Da ricorda nel cast anche una giovanissima Delia Scala.

Per la chicca: il termine Grisbì, grazie al film, è stato parte integrante del nostro immaginario collettivo tanto che agli inizi degli anni Ottanta, quando una nota industria alimentare doveva lanciare un nuovo tipo di biscotto farcito al cioccolato, lo scelse proprio per dare l’idea di qualcosa di ricco, raro e ricercato. E gli spot di allora, che scimmiottano la pellicola di Becker, lo dimostrano fin troppo chiaramente.

“La grande illusione” di Jean Renoir

(Francia, 1937)

Il 28 luglio del 1914 è considerata la data ufficiale dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, data da cui prende spunto il maestro Jean Renoir per realizzare il suo capolavoro, interpretato da un bravissimo Jean Gabin e da un raffinato e decadente prussiano Erich von Stroheim.

Nonostante abbia superato abbondantemente gli 80 anni, questa pellicola ancora ci commuove raccontandoci cosa fu quel conflitto – che allora ancora si chiamava la Grande Guerra – e come cambiò nel profondo la società militare e soprattutto quella civile.

Ma ci ricorda, purtroppo, anche l’animo gretto e stupido dell’essere umano che non sembra poter vivere senza combattere, e la pace quindi rimane solo …una grande illusione.

La portata di questo capolavoro, fra le innumerevoli citazioni e i mille riferimenti che la cultura planetaria continua ancora oggi a fare, ce la ricorda anche la critica esaltante che ne fece “Libro e Moschetto”, il giornale ufficiale del GUF (Gruppo Ufficiale Fascista) alla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia del 1937, anche se il nostro Paese tragicamente guardava superbo le nubi dell’imminente nuovo conflitto, e nonostante il suo regista fosse uno dei simboli del cinema del Fronte Popolare francese legato dichiaratamente al Partito Comunista.