“MOR – Storia per le mie madri” di Sara Garagnani

(ADD Editore, 2022)

E’ indiscutibile che la famiglia è spesso uno dei pilastri della società, ma è doveroso riconoscere allo stesso tempo come questa possa essere, fin troppo spesso, il focolaio di dolori e traumi profondi. Al di là della mera definizione di famiglia, che ormai fortunatamente è andata ben oltre a quella arcaica e oppressivamente limitante dettata da dogmi e condizionamenti religiosi, l’ambiente in cui cresciamo e impariamo a convivere con noi stessi ci segnerà in maniera indelebile nel bene come nel male.

Già dal titolo è chiaro che la Garagnani ci racconta la storia delle donne delle sua famiglia, donne con le quali è cresciuta o con le quali sono cresciute le donne con cui lei ha vissuto. Il racconto di questo bel graphic novel è al tempo stesso bello, drammatico e crudo. Inizia dall’infanzia di sua madre Annette, cresciuta assieme al fratello gemello Christer sotto l’ombra della madre Inger, una donna tanto avvenente quanto dura e preda sovente di terribili crisi d’ira, soprattuto quando il marito era assente.

I continui abusi emotivi e morali – e probabilmente anche fisici – portano i due piccoli bambini a crescere in un mondo il cui lato oscuro diventa sempre più ingombrante. Raggiunta la maggiore età Annette abbandona la casa della madre, che dopo aver lasciato il marito frequenta altri uomini alcuni dei quali assai ambigui, e dalla Svezia si trasferisce in Italia dove incontra Agostino col quale decide di creare una famiglia.

Inizia così la seconda parte della vita di Annette che diventa la madre di Sara. Ma quell’enorme vuoto nero è sempre più difficile da arginare, viste poi le frequenti ingerenze di Inger nella vita della neomamma. Se Inger, per sopravvivere al suo di vuoto, replica “l’educazione” ricevuta sulla figlia, Annette tenta in ogni modo di lasciare lontano Sara dalle dinamiche tragiche della sua infanzia. Ma il prezzo sarà, purtroppo, altissimo…

La Garagnani ci ricorda come il ruolo della madre, in una società inesorabilmente patriarcale, è schiacciato e oppresso visto che lo stesso ruolo deve essere sempre e comunque complementare a quello degli uomini, mariti o figli che siano. Che si tratti dell’Italia – dove negli anni dell’infanzia di Annette erano ancora in vigore tragicamente il “matrimonio riparatore” e il “delitto d’onore” – o della più “progredita” Svezia, le donne dovevano sempre e comunque adeguarsi, stritolate da arcaici dogmi culturali e religiosi. Tema che il maestro Ingmar Bergman ci ha raccontato in maniera sublime in molti dei suoi film, fra cui spiccano “Fanny & Alexander” o “Con le migliori intenzioni”, da lui scritto e diretto da Bille August nel 1992.

Quello che Garagnani ci sottolinea in maniera molto efficace è poi l’assordante silenzio di molti degli uomini della sua vita, a partire dal nonno, il padre di Annette.

Da leggere.

“L’occhio del diavolo” di Ingmar Bergman

(Svezia, 1960)

Ci sono alcuni storici che ritengono, giustamente, il 1960 l’annus mirabilis della cinematografia mondiale.

Mentre Roma si preparava ad organizzare le sue Olimpiadi – le prime dell’era dei grandi mass media e ad essere seguita dalle prime Paralimpiadi della storia – al cinema uscivano delle vere e proprie pietre miliari della settima arte.

Film come “La dolce vita” di Fellini, “Psyco” di Hicthcock, “La ciociara” di De Sica, “Spartacus” di Kubrick, “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti, “L’avventura” di Antonioni, “L’appartamento” di Wilder, “Zazie nel metrò” di Malle, “…E l’uomo creò Satana” di Kramer, “Il bell’Antonio” di Bolognini, “La lunga notte del ’43” di Vancini, “Tutti a casa” di Comencini o “L’occhio che uccide” di Powell.

A questi va aggiunto, senza dubbio, anche “L’occhio del diavolo” scritto e diretto dal maestro Ingmar Bergman che uscì nelle sale proprio quell’anno.

Bergman è uno dei pochi registi – geniali – che riesce ad unire il teatro al cinema, e lo fa senza limitarsi a realizzare del semplice “teatro filmato”. E questo film è uno dei migliori esempi. Attraverso l’antica forma farsesca del “capriccio”, veniamo introdotti da un esimio e cerimonioso presentatore all’Inferno, dove Satana ha un problema. Il suo occhio destro è afflitto da un orzaiolo e questo significa che una giovane ragazza sta per sposarsi ancora vergine.

Prima che le schiere celesti possano festeggiare, il Diavolo invia sulla Terra il suo “ospite” più micidiale e implacabile: Don Giovanni, affinché possa conquistare e “deflorare” Britt-Marie (Bibi Andersson) prima che giunga all’altare. Ma…

Ispirato alla commedia radiofonica “Ritorna Don Giovanni” del danese Oluf Bang (1882-1959) e scritta dallo stesso Bergman, “L’occhio del diavolo” è una splendida pellicola che ci parla schiettamente, senza ipocrisie e spesso molto dolorosamente – come tutto il cinema del maestro svedese – delle pieghe più oscure e contraddittorie dell’animo umano.

L’amara ironia, l’oppressione del falso perbenismo, il sesso e i riferimenti alla propria vita reale – non è un caso che Britt-Marie sia la figlia di un vicario, così come lo era nella realtà il regista – sono temi classici del cinema di Bergman, che conosceva molto bene l’ambiente e il clima di una certa società borghese.

Una delle migliori riletture del mito del Don Giovanni al cinema. Da vedere.

Nella sezione degli extra del dvd è presente una preziosa quanto rara intervista a Bergman fatta da Gian Luigi Rondi, in cui il cineasta scandivano parla del suo cinema e del suo teatro che inseguono sempre e solo una cosa: la verità.

“Hannah e le sue sorelle” di Woody Allen

(USA, 1986)

Da molti considerato un immaginario seguito di “Io e Annie”, questo “Hannah e la sue sorelle” è il successo più ampio di pubblico e critica degli anni Ottanta firmato da Woody Allen. Critica che osannò – forse giustamente – molto di più quel capolavoro che è “Zelig”, che invece il pubblico accolse con molta – inspiegabile oggi – freddezza rispetto a questo.

Oltre ad alcuni elementi palesi di “Io e Annie”, in questo film Allen ci mette molto del suo amore per Ingmar Bergman. Le protagoniste del film sono tre sorelle, così come nel suo bergmaniano puro “Interiors” del 1978, c’è la ricerca drammatica del senso della vita e, infine, l’attore simbolo del cinema bergmaniano Max Von Sydow. Il tutto miscelato ovviamente con la geniale ironia del cineasta newyorkese.

Hannah (Mia Farrow), Holly (Dianne West) e Lee (Barbara Hershey) sono tre sorelle che vivono a New York. Le loro esistenze si intrecciano fra amore, sostegno, competizione e invidia. Hannah è un attrice di prosa di successo, felicemente sposata con Eliot (Michael Caine), un consulente economico anche lui di notevole successo. Quando questo si accorge di essere attratto da Lee, che convive con Frederick (Von Sydow) un noto pittore molto più grande di lei, rimane sorpreso dall’essere ricambiato. Holly cerca di seguire le impronte di Hannah in teatro, ma senza riuscirci. Mickey (lo stesso Allen), primo marito di Hannah, è un autore televisivo di successo che entra in crisi quando crede di avere un tumore. Le cose cambieranno per tutti grazie alla fortuna – tema tanto caro ad Allen – all’amore e alla fiducia in se stessi.

Superbo film corale che funziona come un orologio svizzero, con qualche battuta davvero stellare.

Premio Oscar – strameritato – per la Migliore Sceneggiatura Originale, e a Michael Caine e Diane West come Migliori Attori non Protagonisti. In un piccolo ruolo appare anche un giovane John Turturro, che quasi trent’anni dopo dirigerà lo stesso Allen in “Gigolò per caso”.

“Un’altra donna” di Woody Allen

(USA, 1988)

In un’intervista fatta per la presentazione del bellissimo “Blue Jasmine” – film che sotto molti punti di vista è paragonabile a questo – Woody Allen ha dichiarato di sentirsi soprattutto “un autore di tragedie piuttosto che di commedie, anche se il mondo ormai lo ha etichettato così…”

Questa arguta provocazione del genio newyorkese ha in realtà radici profonde e ben piantate, visto che quando Allen scrive e dirige pellicole drammatiche lo sa fare magistralmente e come pochi altri cineasti.

In questo bello e amaro film assistiamo al bilancio drammatico e sentimentalmente tragico della cinquantenne Marion Post (una splendida Gena Rowlands) preside della Facoltà di Filosofia di una prestigiosa università americana.

L’elemento scatenante l’alluvione dei ricordi che invaderà Marion è il casuale origliare alcune sedute di psicoanalisi che le capita di ascoltare nell’appartamento adiacente a quello che ha preso in affitto per scrivere il suo ultimo libro.

Le esperienze che la donna racconta al suo analista, e che lei spia, le richiameranno alla mente episodi cruciali della sua vita sentimentale nella quale lei ha sempre scelto la ragione e mai seguito il cuore.

Dopo “Interiors”, il più bergmaniano film di Allen che qui chiama a dirigere la fotografia Sven Nykvist, collaboratore di Bergman per ben venti film e più volte premio Oscar; questa bella pellicola conferma ancora oggi Woody Allen il più femminino dei cineasti americani, e non solo.