“Il male oscuro” di Mario Monicelli

(Italia, 1990)

Troppo spesso gli adattamenti cinematografici di un libro, soprattutto di un ottimo libro, non sono all’altezza. L’elenco è davvero molto lungo, ma ne cito solo uno che li rappresenta un pò tutti al meglio – o forse è il caso di dire al peggio… – come quello di Nicole Garcia che nel 2002 dirige uno dei film più noiosi, sterili e irrisolti della cinematografia francese nonostante prenda spunto da uno dei libri più belli e inquietanti degli ultimi decenni come “L’avversario” di Emmanuel Carrère.

Per questo, forse, lo splendido “Il male oscuro” che Giuseppe Berto pubblicò nel 1964 è stato molto tempo “fermo” nel cassetto per la sua evidente complessità narrativa, e solo un grande cineasta come Mario Monicelli, coadiuvato da due pilastri della nostra cinematografia come la grande Suso Cecchi D’Amico e Tonino Guerra, potevano portarlo sul grande schermo mantenendo l’anima dell’opera letteraria.

Certo, la fine degli anni Ottanta non era la prima metà degli anni Sessanta, l’Italia era cambiata diventando più cinica e meno disincantata. C’era stato il famigerato ’68 in cui i figli avevano mandato ufficialmente e pubblicamente a quel paese i propri genitori, per cui era diventato lecito mettere in discussione ruolo e autorità paterne e materne. Ma proprio mentre quei figli, ex contestatori, stavano cambiando pelle e inesorabilmente prendendo il ruolo sociale dei propri genitori – esercitandolo sovente con più rabbia, ferocia e avidità – Monicelli ci racconta la storia di Giuseppe Marchi (interpretato da un bravissimo Giancarlo Giannini), sceneggiatore cinematografico che sogna di scrivere il suo romanzo capolavoro così che tutti, soprattutto suo padre, possano riconoscerlo come genio indiscusso.

Ma la morte di un genitore così ingerente non fa però che peggiorare la situazione emotiva di Giuseppe, che viene travolto da numerosi dolori imputabili alle più diverse e poi puntalmente smentite patologie. Anche la sua vita sentimentale ne risente tanto che lui non ha la minima intenzione di assumersi alcuna responsabilità nella sua storia con Sylvaine (Stefania Sandrelli), una vedova italo francese che tanto ha scandalizzato le sue quattro sorelle al capezzale del padre.

Sulla sua strada Giuseppe incontra per caso un’avvenente e volitiva adolescente (Emmanuelle Seigner) con la quale intraprende un flirt che diventa sempre più profondo tanto da scalzare definitivamente Sylvaine. E quando la giovane rimane incinta Giuseppe alla fine la sposa volentieri. Ma il male oscuro che lo attanaglia da dentro, nonostante la splendida scoperta della paternità, torna inesorabilmente a tormentarlo, soprattutto quando si siede davanti alla sua macchina da scrivere per iniziare quello che sarà senza dubbio il suo capolavoro.

Fra le mille cure che prova, Giuseppe alla fine acconsente alla psicoanalisi e così inizia un percorso con un noto analista (Vittorio Caprioli, alla sua ultima interpretazione) che lo costringe ad affrontare le radici profonde del suo male oscuro, ma…

Monicelli ci regala se non il migliore, uno dei migliori adattamenti di un’opera di Berto, e lo fa grazie a due grandi sceneggiatori e ad un cast davvero di prim’ordine. Questa pellicola però non fu particolarmente amata dalla critica contemporanea e il pubblico la considerò “di nicchia” e non appartenente alla classica e grande commedia all’italiana di cui Monicelli era fra i più grandi rappresentati.

Ma, come sempre, i veri artisti vengono compresi meglio col passare degli anni. E così, nel rivederla oggi a distanza di oltre trent’anni, si apprezza al meglio il suo racconto e soprattutto la sua indiretta critica alla nostra società, caratteristica fondamentale di tutte le opere del regista toscano che sono la grande eredità che ci ha lasciato.

Non è un caso, quindi, che a fare l’assistente alla regia di Monicelli in questo film ci sia un giovane Riccardo Milani che poi, nel corso dei decenni successivi, dirigerà deliziose commedia come “Il posto dell’anima“, “Scusate se esisto!” o “Come un gatto in tangenziale”.

“Il male oscuro” di Giuseppe Berto

(Neri Pozza, 2016)

Pubblicato per la prima volta da Rizzoli nel 1964 questo “Il male oscuro” è uno dei capisaldi della letteratura italiana, e non solo, del Novecento.

Giuseppe Berto (1914-1978) sulla scia del grande Italo Svevo e del suo contemporaneo Carlo Emilio Gadda, capovolge all’indietro la pupilla del narratore, raccontando così non più il mondo esterno ma quello interno all’essere umano.

Viviamo il racconto del protagonista che inizia proprio al capezzale del padre morente. Padre severo e ottuso, che così tanto gli ha influenzato l’esistenza. E che, anche una volta morto, continua a infettagli la vita. Fra le mille cure che il protagonista prova per il suo “oscuro” e inafferrabile male fisico che inesorabilmente gli toglie sempre più parti della vita quotidiana, c’è anche quella della psicoanalisi grazie alla quale scoprirà dolorosamente se stesso e i rapporti col mondo esterno…

Se l’evento di partenza richiama fin troppo chiaramente lo straordinario “La coscienza di Zeno“, il titolo è un richiamo esplicito a “La cognizione del dolore” di Gadda. E Berto alza l’asticella dei due grandi scrittori italiani, raccontando delle nevrosi e del “male di vivere” di un uomo cresciuto all’ombra di una generazione che, con la tragedia immane della Seconda Guerra Mondiale, ha sbagliato le scelte più importanti.

Ma non basta, sulle rovine ancora insanguinate la vecchia generazione è disposta, senza fare una piega, a voltare pagine e ideali lasciando coloro che ha cresciuto – vera carne da cannone del periodo storico – ancora più disorientati e soli. Il protagonista, che dopo aver indossato la camicia nera a fine conflitto diventata un convinto uomo di sinistra, è annichilito dal comportamento del padre – ex Carabiniere del Re – che senza ammettere alcuna colpa tenta spudoratamente di adeguarsi al nuovo Paese che, suo malgrado, anche lui ha contribuito a creare.

Berto ci racconta in maniera cruda e carnale la tragedia di un uomo e di una generazione ma, come forse solo il grande Svevo aveva fatto, lo fa con un sublime e irresistibile umorismo che, sottile e implacabile, illumina ogni pagina e ogni riga. D’altronde lo stesso autore afferma nell’appendice del libro: “…un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni”.

Perché “Il male oscuro” è un romanzo molto autobiografico, in cui Berto ci racconta buona parte della sua esistenza, soprattutto la prima parte. Era figlio di un ex Carabiniere del Re che – come quello del romanzo – ha lasciato l’arma per aprire un negozio di cappelli. E molti altri sono i riferimenti alla vita reale dello scrittore, che a causa delle sue nevrosi per oltre dieci anni non riuscì più a scrivere. Lo fece poi pubblicando proprio questo splendido libro, nel cui frontespizio volle mettere tre citazioni: la prima da “La cognizione del dolore” di Gadda con la frase contenete “il male oscuro”. La seconda è presa da una lettera di Freud e la terza, splendidamente illuminante, dal “Prometeo incatenato” di Eschilo che dice: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”.

Un capolavoro.

Nel 1990 il maestro Mario Monicelli realizza “Il male oscuro“, l’adattamento cinematografico con Giancarlo Giannini nei panni del protagonista.