“La strada scarlatta” di Fritz Lang

(USA, 1945)

Il maestro Fritz Lang dirige il secondo adattamento cinematografico del romanzo “La Chienne” di Georges de La Fouchardière edito nel 1930, e portato sullo schermo per la prima volta l’anno successivo dal maestro Jean Renoir con l’omonimo titolo.

A quindici anni dalla sua pubblicazione, l’opera di de La Fouchardière è ancora molto graffiante e scandalosa, e così Lang decide di portarla sullo schermo per inaugurare la sua nuova casa di produzione creata, tra gli altri, insieme a Walter Wanger e sua moglie Joan Bennet.

L’impresa è ardua (il grande Lubitsch, per esempio, non ci è riuscito), soprattutto perché, già a partire dal titolo, il romanzo è considerato molto scabroso e la censura farà di tutto per ostacolarlo. Ma Lang, cambiandolo e modificando alcuni elementi, ci riesce e realizza il primo film americano dove il “colpevole” riesce a farla franca.

Siamo a New York, in uno dei numerosi locali del Greenwich Village, dove si stanno festeggiando i venticinque anni di inappuntabile carriera da contabile di Christopher Cross (un bravissimo Edward G. Robinson). Il padrone della ditta, che lo stima molto, gli regala un prezioso orologio d’oro con dedica, e poi abbandona il simposio per seguire una delle giovane e appariscenti ragazze che frequenta ogni sera.

Cross, che ha osservato non senza invidia il suo capo allontanarsi con una giovane che ha forse un terzo dei suoi anni, se ne torna placidamente a casa a piedi. Pochi minuti dopo s’imbatte in un bruto che sta picchiando una giovane e le presta soccorso colpendo l’aggressore col suo ombrello. L’uomo cade a terra privo di sensi e allora lui corre a chiamare una agente di ronda.

Al suo ritorno torva solo la ragazza, che si chiama Kitty (Joan Bennett) e che impacciata conferma al poliziotto l’aggressione subita da parte di uno sconosciuto. Cross si offre di accompagnarla a casa invitandola a bere un ultimo bicchiere prima di rientrare.

Kitty accetta, sempre più in imbarazzo, fino a quando Cross non estrae il nuovo orologio per guardare l’ora. Fra il bel vestito, il prezioso cipollone d’oro, le piccole bugie che lui le ha raccontato e parlandogli della pittura la sua unica e vera passione (omettendo però di dire di essere sposato e costretto a dipingere nel bagno perché sua moglie non vuole “pastrocchi” in giro per casa…) Kitty si convince di avere davanti un ricco, celibe e ingenuo pittore molto quotato.

Tornata a casa racconta a Johnny (Dan Duryea) il suo fidanzato-sfruttatore l’epilogo della serata. Era lui quello che Cross ha abbattuto col suo ombrello e che, per evitare guai, è scappato vedendo arrivare la Polizia.

Johnny non crede che quel grigio e banale omuncolo possa essere un artista, ma convince la donna a sfruttarlo al massimo. Così in breve tempo Cross affitta un appartamento per la “sua” Kitty nel Village dove poi trasferisce il suo “studio”. I soldi li prende nella cassaforte della ditta, adesso finalmente anche lui si può permettere una bella e giovane amante.

Per tenersi sempre più stretta Kitty, che si sta abituando troppo alla gentilezza di Cross, Johnny tenta in ogni modo di screditarlo e così porta ad una bancharella alcuni suoi quadri, che però vengono notati e acquistati subito da un noto critico d’arte che vuole conoscere l’autore. Johnny, fiutati nuovi soldi, afferma che a dipingerli è stata la stessa Kitty e presto viene organizzata una mostra a lei dedicata.

La moglie di Cross, passando casualmente davanti alla galleria, nota i quadri di suo marito a firma di una donna, e furente torna a casa…

Lang ritrae un’indimenticabile discesa agli inferi di un uomo grigio, pavido e banale, vittima di se stesso, della sua viltà e, soprattutto, della sua ira. Ottima interpretazione della Bennett, che per ragioni di censura non fa esplicitamente la prostituta, come nel romanzo di de La Fouchardière, ma è un ex modella pigra che non vuole più lavorare, ma che mantiene – non si sa come… – il suo Johnny.

Fra i “tocchi” di Lang c’è anche quello dei nomi dei protagonisti, a partire da quello di Christopher Cross che in italiano sarebbe Cristoforo Croce, e che segna implacabilmente il suo portatore.

“2022: i sopravvissuti” di Richard Fleischer

(USA, 1973)

Tratto dal romanzo “Largo! Largo!” pubblicato da Harry Harrison nel 1966, fra i primi autori di fantascienza a parlare di sovrappopolamento ed esaurimento delle risorse globali, questo “2022: i sopravvissuti” ci racconta di un mondo che sta morendo.

New York, 2022: la popolazione ha raggiunto i 40 milioni di individui. Non c’è spazio, acqua e cibo a sufficienza per i più. Solo una piccola elitè può permettersi di vivere fra i lussi più agiati.

Il detective del NYPD Thorn (Charlton Heston), grazie al suo lavoro, riesce a sopravvivere in maniera quasi dignitosa. Condivide il suo piccolo appartamento con Sol Roth (Edward G. Robinson), un “Uomo libro” che lo aiuta nelle sue indagini. La lettura, infatti, è ormai rimasta fra le “capacità” dei pochi anziani rimasti. E così Sol compie le ricerche nella sua libreria personale e in quella cittadina per poi riferire i risultati a Thorn.

Allo stesso Thorn viene affidata l’indagine sull’omicidio del ricco Dott. Simonson (Joseph Cotten, altra grande vecchia gloria di Hollywood che nella seconda parte della sua carriera presterà il volto a numerosi film di fantascienza, anche di serie B). Il delitto sembra proprio una rapina finita male, ma Thron intuisce che dietro il crimine si nasconde qualcosa di molto più ampio.

Quando Sol, dopo un’attenta ricerca, gli rivela che Simonson è stato uno dei fondatori della “Soylent”, la multinazionale che produce il “Soylent Green” (titolo originale del film) cibo in sfoglie sintetizzato dal plancton marino e base dell’alimentazione di tutta la popolazioe mondiale, a Thorn viene chiesto di chiudere l’inchiesta. Ma…

Ottimo film di fantascienza “dispotico” e disilluso, con alcune scene davvero ancora d’effetto, come il comiato fra Thron e Sol.

A proposito di questo, le cronache del tempo – subito dopo la vera morte a causa di un male incurabile di Edward G. Robinson avvenuta poche settimane dopo la conclusione delle riprese – raccontarono che le lacrime che Thorn/Heston versa assistendo alla particolare dipartita di Sol/Robinson fossero vere, poichè solo a lui Robinson aveva rivelato la grave malattia che lo stava consumando.

Comunque sia, questo film di fantascienza affronta quasi cinquant’anni fa temi che oggi stanno diventando sempre più caldi e spinosi.

“Lo straniero” di Orson Welles

(USA, 1946)

Quando questo film uscì nelle sale cinematografiche americane, la Seconda Guerra Mondiale era finita solo da pochi mesi. Una parte del mondo era ancora sconvolta e sanguinante, e l’altra si iniziava a domandare come fosse stato possibile permettere una tragedia di tali dimensioni, e soprattutto quali fossero le responsabilità dirette e indirette di ognuno.

E’ in questo periodo storico che il geniale e irriverente Orson Welles decide di raccontare una storia che, rispetto al conflitto, sembra del tutto secondaria, ma che in realtà ci pone quesiti molto più ampi su una delle nazioni vincitrici.

Uno strano prigioniero viene fatto appositamente evadere dalle prigioni tedesche che sono sotto il controllo della Forze Alleate. Il fuggitivo si reca in Messico dove, grazie ad antiche amicizie e vecchie parole d’ordine, riesce a sapere il nome del luogo dove è nascosto “lui”.

Lui è Franz Kindler (un perfido e implacabile Orson Welles) fra i più efferati carnefici e fautori dello sterminio degli ebrei, un alto ufficiale nazista del quale non esiste più neanche una fotografia, scomparso nel nulla in prossimità della caduta del Terzo Reich. L’unica sua caratteristica conosciuta è la sua passione quasi maniacale per gli orologi.

Il nome del luogo in cui è nascosto è Harper, località del Connecticut negli Stati Uniti, e l’uomo che riparte dal Messico per raggiungerla è Konrad Meinke, l’ultimo stretto collaboratore di Kindler rimasto in vita e per questo l’unico al mondo capace di riconoscerlo. La sua fuga, così come il suo costante pedinamento, sono opera del signor Wilson (un arcigno Edward G. Robinson) membro della Commissione delle Nazioni Unite contro i crimini di guerra, e cacciatore di criminali nazisti, che considera questo l’unico modo per rintracciare Kindler.

Così, nella piccola e ordinatissima cittadina di Harper, un pomeriggio arriva Meinke che cerca con una certa insistenza il professor Charles Rankin. Giunto nella casa in cui abita vi trova però solo Mary Longstreet (Loretta Young), figlia di un Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti e futura sposa di Rankin. Senza dare spiegazioni Meinke si incammina verso il luogo in cui insegna Rankin e nel grande parco che separa l’abitazione dall’istituto, finalmente lo incontra.

Kindler/Rankin rimane sconvolto: è stato individuato e forse il suo ex sottoposto è stato seguito. Ma Meinke è ormai preda di deliri religiosi e rivela che il motivo della sua visita è la definitiva redenzione per i feroci peccati che insieme hanno commesso. Kindler non ha via d’uscita e lo uccide, nascondendo il corpo sotto le foglie.

Torna a casa e tranquillizza Mary inventando una banale scusa per lo strano visitatore. Così i due possono tornare serenamente a preparare le loro imminenti nozze. Ma, insieme a Meinke, nella piccola cittadina è arrivato discreto e quasi invisibile anche il signor Wilson…  

Grandissimo noir, e vera e propria pietra miliare della cinematografia mondiale, con una scena finale da antologia. Feroce critica del perbenismo e della “morale” americana anni Quaranta, soprattutto quella della ricca provincia, che moralmente non si poteva considerare così innocente rispetto al male assoluto che fu la guerra.

Provincia bella ed elegante che molto dovrà crescere per diventare matura e cosciente, impersonata perfettamente dalla bella Mary che non a caso si chiama “Longstreet” di cognome.  

Scritto da Welles assieme al maestro John Huston (e si vede!), Decla Dunning, Victor Trivas e Anthony Veiller.

Da vedere, assolutamente.