“Quell’oscuro oggetto del desiderio” di Luis Buñuel

(Francia/Spagna, 1977)

Nel 1898 lo scrittore francese Pierre Louӱs pubblica il romanzo “La donna e il burattino” il cui protagonista è Mateo Diaz, innamorato perdutamente dell’avvenente andalusa Conception che però lo tradisce ripetutamente, per poi puntualmente ricercarlo. Ma Mateo, che è al corrente di tutti i tradimenti fisici e morali di Conception, suo malgrado, non può fare a meno di lei.

Una trama così secolare non poteva che stuzzicare l’interesse del cinema che a partire dal 1920 ne realizza vari adattamenti, come quello di Josef von Sternberg intitolato “Capriccio spagnolo” del 1935 o “Femmina” firmato da Julian Duvivier nel 1959, con la fatale Brigitte Bardot.

Nel 1977 il maestro Buñuel, alla soglia degli ottanta anni, ispirandosi al romanzo di Louӱs scrive la sceneggiatura, assieme a Jean-Claude Carrière, di quella che sarà anche la sua ultima opera cinematografica intitolandola “Cet Obsucr Objet du Désir”, titolo originale che fortunatamente i nostri distributori hanno rispettato.

Così come nel romanzo originale, Buñuel incentra il film sul racconto della sua frustrante storia d’amore che fa lo stesso “burattino”. Siamo nel 1977 e il ricco vedovo di mezza età Mathieu (Fernando Rey) salito sul treno che da Siviglia lo porta a Madrid – città dalla quale poi rientrerà nella sua Parigi – narra ai suoi compagni di scompartimento la turbolenta storia d’amore avuta con Conchita (Carole Bouquet e allo stesso tempo Angela Molina) conclusasi proprio pochi istanti prima che il treno partisse con una secchiata d’acqua versata dallo stesso Mathieu addosso alla ragazza, che dal marciapiede affianco al binario lo supplicava di non lasciarla.

Con lunghi flashback riviviamo il primo incontro fra i due avvenuto a Parigi, a casa di Mathieu, dove Conchita prestavava servizio come cameriera. Ma soprattutto assistiamo al bramoso corteggiamento dell’uomo che, attraverso costosi regali e numerose banconote, tenta in ogni modo di possedere Conchita. Se la ragazza accetta la sua corte e i suoi regali, e gli si concede moralmente, non è disposta invece a farlo fisicamente. Al matrimonio, infatti, la giovane dichiara di volerci arrivare vergine. Ma…    

Il genio surrealista del maestro spagnolo, anche in quest’ultima sua pellicola, è sempre molto vivo e perentorio. A partire dal far recitare il ruolo di Conchita a due diverse attrici, allora ancora poco conosciute, senza un apparente criterio narrativo.

Ma soprattutto Buñuel sa raccontare la meschina e vile brama di possesso di un uomo viziato, in maniera cruda ed efficace come pochi altri hanno saputo fare.

Ed aggiunge al romanzo un altro grande tema contemporaneo: il terrorismo. Siamo, infatti, in pieni “anni di piombo” e tutto il racconto cinematografico ha come sfondo violenti e mortali attentati che infiammano la Spagna e la Francia. Ma Mathieu, che senza dubbio rappresenta la classe ricca borghese dell’epoca, non se ne cura e assiste quasi annoiato, dal vivo o attraverso la televisione o la radio, agli attentati che si consumano attorno a lui, con la sola preoccupazione di rimanere imbottigliato nel traffico ed arrivare tardi dalla “sua” Conchita, che certo incarna anche la nuova e ribelle generazione.

Tragicamente premonitrice sembra essere, infatti, la scena finale che ha come sfondo l’audio di un notiziario che commenta i gravi attentati avvenuti in tutta Europa, soffermandosi su quello consumatosi in Italia in cui è stato vittima l’Arcivescovo di Siena, colpito da alcuni colpi d’arma da fuoco sparati dai membri dei “Gruppi Armati Rivoluzionari del Bambin Gesù” unitisi agli estremisti di sinistra. Nelle nostre sale il film uscì il 24 novembre del 1977, poco meno di quattro mesi prima del vile e sanguinario rapimento di Aldo Moro, col feroce e bestiale massacro di tutta la sua scorta in via Cesare Fani a Roma.   

Per la chicca: certamente avrà intrigato Buñuel anche il fatto che Siviglia (città in cui Mateo incontra Conception nel romanzo di Louӱs), è la stessa che nella quale nel 1616 venne e scritto e ambiento il dramma “El burlador de Sevilla y convidado de piedra” firmato da Tirso de Molina, prima opera nella storia che ha come protagonista Don Giovanni e dalla quale, nei secoli successivi, hanno preso ispirazione i più grandi autori per raccontare il mito del Dissoluto. Figura così diametralmente opposta al “burattino” del romanzo.

“L’occhio del diavolo” di Ingmar Bergman

(Svezia, 1960)

Ci sono alcuni storici che ritengono, giustamente, il 1960 l’annus mirabilis della cinematografia mondiale.

Mentre Roma si preparava ad organizzare le sue Olimpiadi – le prime dell’era dei grandi mass media e ad essere seguita dalle prime Paralimpiadi della storia – al cinema uscivano delle vere e proprie pietre miliari della settima arte.

Film come “La dolce vita” di Fellini, “Psyco” di Hicthcock, “La ciociara” di De Sica, “Spartacus” di Kubrick, “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti, “L’avventura” di Antonioni, “L’appartamento” di Wilder, “Zazie nel metrò” di Malle, “…E l’uomo creò Satana” di Kramer, “Il bell’Antonio” di Bolognini, “La lunga notte del ’43” di Vancini, “Tutti a casa” di Comencini o “L’occhio che uccide” di Powell.

A questi va aggiunto, senza dubbio, anche “L’occhio del diavolo” scritto e diretto dal maestro Ingmar Bergman che uscì nelle sale proprio quell’anno.

Bergman è uno dei pochi registi – geniali – che riesce ad unire il teatro al cinema, e lo fa senza limitarsi a realizzare del semplice “teatro filmato”. E questo film è uno dei migliori esempi. Attraverso l’antica forma farsesca del “capriccio”, veniamo introdotti da un esimio e cerimonioso presentatore all’Inferno, dove Satana ha un problema. Il suo occhio destro è afflitto da un orzaiolo e questo significa che una giovane ragazza sta per sposarsi ancora vergine.

Prima che le schiere celesti possano festeggiare, il Diavolo invia sulla Terra il suo “ospite” più micidiale e implacabile: Don Giovanni, affinché possa conquistare e “deflorare” Britt-Marie (Bibi Andersson) prima che giunga all’altare. Ma…

Ispirato alla commedia radiofonica “Ritorna Don Giovanni” del danese Oluf Bang (1882-1959) e scritta dallo stesso Bergman, “L’occhio del diavolo” è una splendida pellicola che ci parla schiettamente, senza ipocrisie e spesso molto dolorosamente – come tutto il cinema del maestro svedese – delle pieghe più oscure e contraddittorie dell’animo umano.

L’amara ironia, l’oppressione del falso perbenismo, il sesso e i riferimenti alla propria vita reale – non è un caso che Britt-Marie sia la figlia di un vicario, così come lo era nella realtà il regista – sono temi classici del cinema di Bergman, che conosceva molto bene l’ambiente e il clima di una certa società borghese.

Una delle migliori riletture del mito del Don Giovanni al cinema. Da vedere.

Nella sezione degli extra del dvd è presente una preziosa quanto rara intervista a Bergman fatta da Gian Luigi Rondi, in cui il cineasta scandivano parla del suo cinema e del suo teatro che inseguono sempre e solo una cosa: la verità.

“L’uomo che amava le donne” di François Truffaut

(Francia, 1977)

Bertrand Morane (Charles Denner) ama le donne, e da queste è profondamente corrisposto. Bertrand non è bello, ma ha fascino e sa come conquistarle per una notte o poco più.

Nel suo letto di donne ne sono passate tante, e forse la paura di perdere il ricordo di qualcuna lo porta a scrivere un libro autobiografico che intitola “Lo stallone”.

Il testo viene accettato da una casa editrice che incarica la propria editor Geneviève (Brigitte Fossey) di aiutare l’autore nella sua stesura finale. Anche Geneviève finirà nel letto di Bertrand e questo le permetterà di capire al meglio e intimamente “L’uomo che amava le donne”, che sarà il titolo definitivo del libro, da lei stessa proposto e da Bertrand felicemente accettato poco prima di incontrare il suo destino.

Che ci sia qualcosa di profondamente biografico in questa splendida pellicola di François Truffaut dedicata al mito del Don Giovanni è scontato. Soprattutto pensando al funerale di Bertrand, il regista ha ricreato suo malgrado quello che molto probabilmente pochi anni dopo – troppo pochi per il cinema francese e non solo! – è avvenuto davvero alla sua morte prematura.

A differenza di Don Giovanni però, Bertrand-Truffaut non brama la conquista di una donna “…pur di metterla in lista”, ma le cerca e le possiede perché le ama, a modo suo e senza fermarsi a nessuna. Il suo più grande dolore è quello di sapere che non potrà averle tutte.

Un capolavoro indiscusso. Il mio film preferito del maestro François Truffaut.